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STORIA DI ERMINIA


In Sicilia, negli anni Cinquanta, le domestiche si chiamavano “le ragazze”, senza riferimento all’età e allo stato civile.
L’offerta era superiore alla richiesta e non c’erano protezioni sindacali, perciò le “ragazze” (bastava una risposta borbottata tra i denti, un’alzata di spalle, un piatto del servizio buono che si rompeva) cambiavano, si alternavano, si succedevano, senza problemi e senza rimpianti. Attraverso le “ragazze”-a volte anziane, a volte poco più che bambine-, la vita faceva irruzione in tutta la sua pienezza e complessità nell’atmosfera un po’ grigia della nostra casa, increspandola, scomponendola, come un vento insidioso.
C’era Clementina, l’instabile Clementina, una pazzerella un giorno allegra di un’allegria contagiosa, il giorno dopo in lacrime per un nonnulla; Clementina insolente, Clementina che non riesce a imparare che i piatti non si tolgono passando il braccio davanti alla faccia dei commensali, Clementina che canta a squarciagola “Vola colomba”, risciacquando le lenzuola.
E c’era Rosa, un’anziana vedova dai capelli tinti, con una speciale predilezione per le storie funeree, per i racconti di fantasmi e i fatti di cronaca nera; Rosa, abile narratrice col gusto del colpo di scena, irresponsabile orditrice di incubi notturni.
C’era Concetta, avida di fotoromanzi e di processioni, che tentò invano di convincere mia madre a farmi partecipare, vestita da pastorella, alla processione della Madonna di Fatima; Concetta, fata madrina nel ricordo per aver desiderato e richiesto per me quella gioia imprendibile.
Erminia si presentò a casa nostra un pomeriggio di gennaio, assieme alla sorella. Tutte e due vestite di nero, coi capelli neri divisi in bande sulla fronte, pettinati in una treccia stretta. Erminia e Angelica. Il padre, di una famiglia medio-borghese, aveva fatto gli studi superiori, era appassionato dei poemi cavallereschi, e perciò le figlie portavano i nomi delle due eroine dell’Ariosto e del Tasso. E come i suoi eroi preferiti doveva amare l’avventura, se aveva rotto i ponti con la famiglia per sposare un’acrobata di circo. Avevano girovagato col circo, e il padre di Erminia, destinato dai genitori a seberi studi di notaio, aveva fatto il clown e l’illusionista, fino alla guerra. A guerra finita, il padre di Erminia, tornato dal fronte, si era improvvisato venditore ambulante e dopo qualche anno lui e la moglia avevano messo su una piccola merceria.
Si erano rovinati per curare la madre, ammalata di reni, e che poi era morta in seguito a un’operazione. A pochi mesi di distanza era morto anche il padre, e le due ragazze erano rimaste in mezzo a una strada.
Non sapevano far niente, perché fino allora avevano lavorato alla merceria; non avevano nessuno. Nel nostro paese erano arrivate alla ricerca di una lontana parente, ma la donna, assai anziana e ricoverata in un ospizio, non le aveva nemmeno riconosciute. Così Erminia e Angelica erano entrate a servizio.
I nomi delle due eroine erano risultati, curiosamente, assegnati al contrario, coi caratteri scambiati. Angelica era semplice, mite, remissiva; si impiegò da una mia zia, e ci rimase fino a che si sposò, due anni dopo, con un ferroviere di Messina. Crebbe i suoi tre bambini, accudì alla casa e al marito, vivendo come tutti in una sorda felicità, nell’apatico limbo di chi sconosce il paradiso.
Il temperamento ribelle del padre era invece passato ad Erminia, che lavorava in casa nostra. Di una bellezza aggressiva e prepotente, come erano in voga allora, era sempre con la testa tra le nuvole, irrequieta, persa dietro alle sue fantasie. A volte, mia sorella ed io la sorprendevamo davanti allo specchio dell’ingresso, a provare qualche acconciatura tenendo sollevati i capelli con le mani, o lasciandone ricadere le ciocche sugli occhi; cambiava espressione, assumendo un’aria sbarazzina e impertinente, o spalancando gli occhi come per una rivelazione improvvisa; talora sollevava un po’ la gonna, guardandosi le gambe. I sogni, apparentemente aerei, incorporei, senza contatto con le cose concrete, si nutrono della realtà che viviamo, del nostro presente, del nostro passato. E il sogno di Erminia, pur avendo tutto lo slancio di un’anima che non vuole ingrigirsi nell’indistricabile rete della quotidianità, pur riscattato dalla preziosa moneta della devianza, era già costretto nell’altra gabbia delle illusioni confezionate, delle rivolte senza utopia.
Erminia voleva fare l’attrice. Passava i momenti di libertà leggendo fotoromanzi, incollando ritagli su un quaderno dalla copertina nera, che sfogliava e sfogliava incessantemente. Quando poteva, andava al cinema; e se un film la colpiva in modo particolare, s’identificava con la protagonista al punto che per giorni, inconsapevolmente, ne imitava gli atteggiamenti e persino le inflessioni della voce.
In casa, all’inizio, non parlava mai della sua aspirazione, vergognandosi d’esser presa in giro. Ma s’era confidata con qualche amica, s’era fatta fare una fotografia “in posa” per un concorso bandito da una rivista; così il suo segreto fu presto noto a tutti.
Quando lo capì, cominciò a parlarne apertamente, come d’un progetto normale; e passava impavida, a testa alta, in mezzo alla gente che compativa annuendo col capo, lo sguardo acceso dalla certezza che ogni giorno può essere il giorno magico, radiosa nell’aura delle sue illusioni intatte, sfidando i commenti impietosi, le occhiate allusive provocate dal rossetto troppo rosso, dai tacchi troppo alti.
Una volta, appena presa la paga a fine mese, fece la valigia e lasciò un bigliettino per mia madre, dove spiegava la sua intenzione di partire per Roma. Mia madre, che le voleva bene e se ne sentiva responsabile, si precipitò alla stazione, e un po’ con le buone un po’ con le cattive, riuscì a persuaderla e a riportarla indietro.
Il treno era già in stazione: era arrivata appena in tempo per salvarla, o per perderla. Poi, sfuicatasi la luminosa visione nella nebbia di giorni indistinguibili, anche lei si sposò-per la stanchezza di aspettare un’occasione che non veniva mai, per il desiderio di un qualunque cambiamento.
Aveva compiuti i ventiquattro anni, e allora i matrimoni avvenivano in erà molto precoce. Le poche amiche che aveva frequentato, e con cui aveva condiviso aspettative e curiosità della giovinezza, erano sposate, e madri.
L’amore non entrava più nei loro discorsi come inquieta attesa di emozioni ignote, come un interrogativo vibrante di tensioni, ma come un’ambigua reticenza, una complicità senza allegria da cui lei era esclusa. Sposò un giovane sui trent’anni, di nome Melo, proprietario di una bottega di frutta e verdura in una “vanedda” che dava sulla via principale del paese, Corteggiatori ne aveva avuti tanti, attratti dalla sua bellezza vivace ed ardita, ma non interessati al punto da contrastare per lei le minacce o le suppliche di padri, madri, sorelle per cui Erminia era una poco di buono con un sacco di grilli per la testa.
Melo aveva capelli ricci, la faccia bruna da zingaro, e una spavalderia incosciente che poteva essere scambiata per gioia di vivere. Era anche lui orfano, come Erminia, e bitava con una sorella, mastra, maggiore di parecchi anni, la quale, desiderosa di vedergli formare una famiglia, di fronte alla sua ostinazione nel fissarsi su Erminia, e nel ripetere che l’avrebbe sposata comunque con o senza la sua approvazione, aveva finito col cedere e con l’accettare quelle nozze.
Erminia rimase subito incinta.
Sedeva, immusonita, davanti alla porta del negozietto, a stordirsi di sole, col viso più rotondo, più molle, diteso e sereno all’apparenza, ma con negli occhi un’espressione di stupore e di smarrimento.
Mia sorella ed io, passando con la nuova “ragazza”, ci fermavamo a salutarla, intimidite, non riconoscendo più nella donna sformata dalle labbra pallide la figuretta svelta e petulante che provava un sorriso allo specchio con la bocca disegnata da un rossetto color ciliegia, né la sposina ridente che aveva distribuito i confetti, coi capelli raccolti sotto il velo di tulle, che aveva posato con noi per la foto ricordo, raccogliendo fra le dita l’orlo dell’abito lungo. Ci domandava qualcosa della scuola, ci regalava le caramelle, ma così, distrattamente, anche lei senza più legami con il tempo di ieri, chiusa in una estraneità inconsapevole e intensa.
Dopo tanti anni, svoltando l’angolo di quella stradina acade talora, per un guizzo improvviso di sole su un vetro, per un inatteso controluce, che le nuove geometrie del paese segnato dal progresso arretrino, si sfaldino, restituendo spazialità perdute. In questa dimensione inaccessibile, nitida come tutte le foto mai scattate, si compone l’immagine di Erminia, con la piccola Agata tra le braccia, gli occhi scuri assorti, a ritmare-avanti, indietro-l’incredula rassegnazione di una ninnananna tristissima:
“Lu suli si ‘nni va, dumani torna
Si mi ‘nni vaju jò, nun tornu cchiuj, no, no…”
Mia madre diceva che Erminia era maturata con la maternità; era proprio diventata un’altra.

Era diventata un’altra; e di questo tutti si rallegravano. Morta finalmente quella sventata, quella pazza che pareva provarci gusto quando sparlavano di lei, quell’intrigante che metteva fine alle prediche e alle raccomandazioni con un’alzata di spalle, quella sfacciata che ballava il mambo col manico della scopa come cavaliere.
Ora c’è Erminia saggia, Erminia taciturna, Erminia tutta della sua bimba.
Dormi bambina, dormi amore; non gliene importa a nessuno, sai, di Erminia, di Erminia piccola con le trecce, e del cerchio magico della pista dove il prestigiatore trasforma il pulviscolo in oro, di Erminia attrice di sogni interrotti. Stringimi forte, bambina, perché senza di te ho paura. Quando hai battuto una volta, due volte la testa contro le pareti insonorizzate (questo è muro), allora ci si rassegna. Ci si abitua alla gabbia, alla tana. Non è più una tana, è un nido.
Ci sono tanti pericoli fuori, C’è il cacciatore di cigni che ti spacca il cuore con la sua freccia lucente, C’è la zingara bionda che vuol rubarti per chiuderti dentro un racconto.
“Si mi ‘nni vaju jò, nun tornu cchjui,no”

S’era legata q quella bambina di un affetto totalizzqante, sclusivo, dimentica di se stessa e degli altri, tutta tesa a comporre un piccolo spazio di tenerezza e di amore, nel quale nessun altro poteva entrare.
Non permetteva a nessuno di prenderla in braccio, non l’affidava a nessuno, si alterava quando la complimentavano, la vezzeggiavano. Instancabile, provvedeva a tutto, badava a tutto, sria, magra, stranita, quasi quel piccolo essere la consumasse, lasciandola svuotata, estatica, paga di annullarsi e di espandersi in quell’adorazione.
Di notte, volle dormire sola con la piccola, con la scusa che Melo, alzandosi prima dell’alba, la svegliava. Prese a chiudersi a chiave nella stanza. e quando il marito, dopo aver pazientato alcuni mesi, si provò a farle intendere che dovevano tornare a dormire insieme e tutto il resto, si ribellò. Disse che quelle cose non la interessavano, che per lui avrebbe cucinato, pulito, tenuto in ordine, ma niente di più. Voleva essere lasciata in pace, con sua figlia.
La sorella di Melo, raddolcita per l’inatteso cambiamento di Erminia, cercò di mettere pace: Erminia era tuttaesa dalla sua maternità; ma, quando si fosse abituata alla nuova esperienza, l’avrebbe vissuta come un fatto normale, e tutto sarebbe tornato come prima. Intanto doveva ritenersi fortunato che Erminia avesse messo da parte le sue fisime di ragazza, e si fosse rivelata una buona madre; questa era la cosa più importante in una famiglia. Il resto col tempo si sarebbe aggiustato.
Ma non fu così.
Dopo due anni, la situazione non era cambiata, e Melo aveva intrecciato una relazione con una vedova, lavorante in una sartoria.
Erminia era stata una delusione per lui, non corrispondendo affatto all’idea che se ne era formato ai tempi del corteggiamento. Il suo trasporto, non alimentato più dalle lusinghe del sogno né dall’appagamento della realtà, era svanito; perciò, dopo un primo periodo di sconcerto, egli s’era stancato di elemosinare dalla moglie il compimento dei doveri coniugali, accettandola nell’unica forma in cui essa si riconosceva, cioè come madre. La sua natura semplice gli faceva considerare risolto il problema a questo modo: A Erminia bastava Agata, a lui bastava che tutto filasse liscio in casa, per il resto c’era l’amante.
Questo sistema di vita sarebbe potuto durare a lungo in una certa tranquillità se la sorella, amareggiata dalle critiche e dalle maldicenze, non avesse messo in piazza tutta la faccenda. Melo era nel suo diritto, dato che la moglie si rifiutava di dormire con lui; non aveva fatto voto di castità, a trentaquattro anni!
Allora la comune storia di corna cambiò segno, assumendo l’eccitante sapore dell’anomalia, colorendosi di sfaccettature impensate.
Cominciarono le occhiate di compatimento, le domande delle comari falsamente ignare su cosa aspettavano per 2fare la compagnia” ad Agata, le indagini su quel che c’era sotto, gli appostamenti per spiare Erminia, casomai “avesse qualcuno”; e poi i commenti dietro le spalle, non tanto forte da compromettersi ma non abbastanzxa piano perché non se ne indovinasse il senso, e le battute degli sfaccendati del bar sul conto di Melo che “non ci sapeva fare”.
Il prodigioso equilibrio raggiunto per istinto, o per tolleranza, o per superficialità, non resse a quella dissezione. Ora la sera, nel cortiletto, i vicini acquattati dietro le persiane potevano sentire, divisi tra il timore e il desiderio d’una qualche violenza, le liti, le grida, insieme al pianto della piccola Agata.
I più compassionevoli cercarono di “mettersi in mezzo”. Parlavano alternativamente all’uno o all’altro, valutavano. giudicavano. E tutti erano concordi, dal parroco alla levatrice, che per Ermina ci sarebbe voluto un altro figlio. Costretta ad occuparsi di un’altra creatura, avrebbe dovuto per forza allentare il rapporto morboso che la legava alla primogenita, e a poco a poco avrebbe ricominciato a intetressarsi a tutto il resto.
era, né più né meno, come far dimenticare una passione impossibile, o come far riprendere l’esistenza normale dopo un lutto:bisognava che fosse obbligata a pensare ad altro. “Ma se non vuole dormire con me! Se è proprio questo il guaio, che non vuole!Allora la devo costringere?”, gridava Melo, esasperato.
A quel punto, gli interlocutori di turno si stringevano nelle spalle, non sapendo, o non volendo, andare oltre.
Erminia, comunque, rimase di nuovo incinta.
Attraverso il racconto di mia madre, grattando via le parole solite che non spiegano nulla, ho potuto leggere, come in un palinsesto, la logica ineluttabile della sua resa.
Quel bambino non lo voleva. Con Agata era stato diverso. Allora lei non sapeva niente della vita, s’illudeva ancora che la vita avesse un senso. Ad Agata doveva eedicarsi tutta intera, per farsi perdonare la colpa d’averla messa al mondo.
Quella bambina era il suo unico punto di contatto con la realtà, il suo unico slancio. S’era illusa, annullandosi, riconoscendosi nella figlia, vivendo per lei poiché per sé non sapeva più, di poter conciliare il paradosso che la straziava, sottrarsi alla vita e al tempo stesso darle uno scopo. Ma ora capiva che questo non sarebbe stato mai, che mai l’avrebbero lasciata in pace, l’avrebbero inseguita in qualunque angolo si fosse nascosta per sfuggire a quel gioco insensato.
Ormai era stanca di tutto, si augurava solo di morire nel parto con la sua creatura.
“E’ meglio così, che mi levo di mezzo”, ripeteva., non immaginando che c’era un altro nascondiglio dove nessuno avrebbe potuto raggiungerla.
Al contrario di quanto Erminia sperava, il parto si svolse facilmente e rapidamente. Nacque un maschietto, che Erminia non volle neppure vedere.
Si rifiutò di allattarlo, minacciando di soffocarlo se glielo avessero attaccato al seno: “Ve l’avevo detto che non lo volevo”, era la sua giustificazione.
Era tranquilla, di una tranquillità che presto divenne torpore. Non usciva di casa, non si pettinava, non si vestiva; e sorrideva ora, ad Agata, a Melo, alla cognata, al dottore, sciolta da tutti, libera, scivolando giorno dopo giorno verso una quiera assenza, verso una sempre più vasta solitudine.
vive così, in un’abulia sognante, alternando periodi di incoerente loquacità a lunghi muitismi. E’ Agata, speculare figura di una dolente maternità, che la veste, la pettina, la fa mangiare. Il secondo figlio, Roberto, è stato allevato da una cugina di Melo.
Ogni tanto, va a trovare la madre. S’è convenuto di fingere che sia un nipote: un accomodamento che Erminia accetta con naturalezza, senza fare domande. Anzi, solo da quando s’è stabilito questo tacito patto, consente a vederlo, gli parla.
E lui, assecondandola, la chiama “zia Erminia”.







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