AMANTEANI NEL MONDOTradizioni e folklore |
’A fera |
Se si escludono le diverse feste a carattere religioso che si svolgono nel corso dell’anno, la “fiera dei morti” è senza dubbio la manifestazione più seguita e sentita ad Amantea (e dintorni). Essa, inoltre, fa sicuramente parte delle tradizioni locali più antiche e longeve ed affonda le sue solide radici in un passato che risale ad almeno tre secoli fa. Per tutti questi motivi, abbiamo raccolto in questa pagina diversi “contributi” che (speriamo) potranno farvi assaporare a pieno la storia, la tradizione ed il folklore di questa manifestazione. Purtroppo, al momento attuale, non disponiamo di immagini “d’epoca” e, quindi, per adesso dovrete accontentarvi di quelle di alcune fotografie realizzate nel corso dell’edizione della fiera di quest’anno (2002). |
’A FERANegli anni ’30, ma anche giù di li, fino alla seconda guerra mondiale, la Fiera era una grossa occasione che mobilitava l’ingegno, la fantasia e l’operosità. Allora non c’erano le bancarelle, ma la merce veniva esposta in apposite baracche fatte di solidi tavoloni, assemblati con gusto ed efficienza da mastro Ventura Brusco che iniziava la costruzione di questi magnifici esemplari almeno quindici giorni prima dell’inizio della Fiera. Le “Baracche”, che non avevano niente da invidiare ai negozi dell’epoca, diventavano veri e propri empori che non ospitavano solo i “ferari”, ma anche qualcuno dei più noti commercianti di Amantea. Ricordo, ad esempio, Gaetano Notti che, pur avendo l’esercizio in piazza Commercio, per fare più affari, prenotava la sua “Baracca” al “Largo dei Cappuccini”, che era il posto più centrale della manifestazione. A sera il piccolo villaggio della “fera”, lentamente si svuotava per la felicità di bambini e ragazzi che, nella compiacente luce crepuscolare, sperimentavano un nuovo campo per giocare “all’ammucciatella”. da un’intervista di Pino Del Pizzo a Fortunato Marinari e Pietro Morelli |
’A FERA ’I L’ANIMALIIl 26 ed il 27 ottobre, per le cave di S. Bernardino si riversavano mandrie di animali che sfilavano baldanzosamente per “la taverna”, attraversavano via Margherita e si andavano ad attestare sulla spiaggia del mare, fra il ponte Margherita e il ponte della Stazione. Vacche, jencarielli, purcelluzzi, ciucciarielli, muli, piecure, crape, cavalli, animali ’ncaggiati, carri ccu paglia, fienu e cuverte andavano a prendere posizione già dalla notte precedente l’apertura della “Fera” o, al più tardi, alle prime luci dell’alba quando iniziavano le prime contrattazioni. Gli allegri bivacchi notturni alleviavano le fatiche dei lunghi spostamenti a piedi dai paesi vicini ed un buon bicchiere di vino rendeva regale il pasto, a base di “pistilli, ova vullute e suppersate”, consumato sull’arenile accanto alle proprie bestie, riparati da mantelli a ruota e da grandi ombrelli verdi col manico di legno. Nei giorni della fiera, se faceva caldo, squadre di intraprendenti ragazzi armati di “vummulelle” giravano fra i contraenti offrendo bicchieri di acqua fresca al prezzo di £. 5, quando la concorrenza era molta e la richiesta poca, ma pronto a raggiungere anche le 10 £. nelle ore più calde o nel corso di scambi particolarmente verbosi, lunghi e difficili. Finiti i baratti, ciascuno con le sue cose e con i suoi animali (vecchi e nuovi), riprendeva la via del ritorno riattraversando le vie cittadine senza nessun intoppo per la circolazione fatta soprattutto dal camion ’i Ciccu u ’mpacchio, d’u traìnu ’i Giuvanni ’u Niru e d’u postale. Di quei tempi resta solo il ricordo… e noi della redazione gradiremmo ricevere qualche foto. da un’intervista di Pino Del Pizzo a Fortunato Marinari e Pietro Morelli |
La fiera di AmanteaL’evento fieristico, se escludiamo le grandi fiere francesi (Champagne, Lione, ecc.), non ha mai goduto di particolare considerazione da parte degli storici. Nel merito, l’istituto della fiera in Italia, già diffuso nel IX e nel X secolo lungo la costa adriatica fino alla Puglia, fu considerato marginale o non fu considerato affatto, nonostante la presenza di mercanti stranieri e, quindi, scarsi sono i dati da poter elaborare, nell’ambito dei movimenti economici dell’Italia meridionale, sia sotto l’aspetto economico che sotto quello giuridico. A ciò si deve aggiungere la strenua resistenza delle corporazioni mercantili locali che in difesa delle loro prerogative commerciali, fecero di tutto per impedire la nascita ed il diffondersi delle fiere. Nel Meridione, in cui si poteva utilizzare solo la via marittima, peraltro molto rischiosa a causa del fenomeno della pirateria, poiché insufficienti erano le comunicazioni interne, sarà l’oppressione feudale e la sua atavica arretratezza economica la causa principale del mancato sviluppo fieristico e bisognerà attendere ancora, prima che esso diventi un’area mercantile qualificata che vedrà la presenza di commercianti provenienti dalle altre regioni d’Italia ed anche stranieri, attenti soprattutto all’acquisto delle produzioni locali, come le granaglie, la lana e la seta (si pensi ai tessuti di raso, ai damaschi ed ai velluti di Catanzaro). Ciò è dovuto principalmente alla presenza, nel Meridione, degli Aragonesi, che con Alfonso il Magnanimo perseguirono – o cercarono di perseguire – quella politica favorevole agli scambi commerciali, già iniziata con gli Angioini, agevolando il fenomeno fieristico con la concessione di esenzioni fiscali e privilegi, ad appannaggio, questi, delle ricche ed influenti comunità ebraiche, nelle cui mani era accentrata tutta l’attività commerciale del Regno. “Il Magnanimo”, scrive Alberto Grohmann, “concesse numerose fiere e mercati a località della Calabria; l’intento dovè essere duplice: creare un’unità economica all’interno del Regno, che sarebbe stato il substrato fondamentale per un’unità politica, ed assicurarsi la fedeltà di quei centri che rivestivano importanza strategica in quel teatro di continue lotte tra il potere centrale ed i baroni che fu la Calabria”. [1] Della fiera di Amantea si trova origine in un privilegio del 1507 concesso da Carlo V e di essa si hanno ancora notizie in un altro privilegio del 31 gennaio 1529 di Filiberto Chalon, principe d’Orange, vicere di Napoli, regnante lo stesso Carlo V, con il quale al Mastrogiurato venivano imposte alcune regole circa la conduzione della fiera, in modo particolare per quanto riguarda l’ordine pubblico e l’amministrazione della giustizia. [2] La data di svolgimento dell’evento fieristico con il tempo è andata sempre mutando, così come lo spazio in cui esso veniva fisicamente collocato, per cui, mentre oggi ha luogo dal 27 ottobre al 2 novembre lungo le arterie principali della città, sotto la denominazione di Fiera dei Morti o di Ognissanti, nel 1729 iniziava il 27 giugno ed aveva la durata di dieci giorni, per essere poi spostata dall’1 al 10 ottobre nel 1755. Dal luogo originario detto del Fossato, adiacente alle mura difensive della città, nel 1821, per le mutate condizioni urbanistiche, passò al Largo dei Cappuccini, avendo una durata di otto giorni, dalla seconda alla terza domenica di ottobre. Si tratta di una fiera commerciale alla quale partecipano numerosi operatori del settore, provenienti da tutta la Calabria e da altre aree del Mezzogiorno, che espongono e vendono le merci più disparate: prodotti agroalimentari, realizzazioni dell’artigianato calabrese, italiano e straniero, dolciumi, biancheria, casalinghi, abbigliamento, pelletteria, calzature, ceramiche, bigiotteria, giocattoli. Il tutto in un contesto che rappresenta un ponte ideale fra il modello tradizionale del rapporto fra il venditore e l’acquirente ed i freddi centri commerciali che si ispirano al modello nordamericano. Nel primo, si tende a far rivivere uno scorcio del passato, nel secondo, perfetto ed efficiente, l’aspetto umano è del tutto trascurato, passando in secondo piano. Ma al di là dello scambio commerciale, la fiera è soprattutto una festa che appartiene alla memoria storica di una intera comunità: desiderata ed attesa per un intero anno, momento di partecipazione, occasione che veicola una funzione di socialità, in cui si riscopre l’atmosfera della partecipazione. “Il tempo della fiera”, scrive Enzo Fera, “non appartiene solo all’ambito economico e commerciale, ma è anche tempo festivo. Il tempo dell’uniformità e della ripetitività quotidiana, scandito dai consueti ritmi, viene dissolto e ci si apre ad una condizione fuori dalla storia, nella quale si manifesta una pienezza di vita non repressa, in cui la coscienza si dilata e coglie i significati più autentici della vita”. [3] Antonio Furgiuele [1] A. Grohmann, Le fiere del Regno di Napoli in età aragonese, Napoli, 1969, pag. 187; [2] in proposito sono state consultate le seguenti opere: V. Segreti, La fiera di Amantea, in Calabria Letteraria, anno XLII, n. 10-11-12, ottobre, novembre, dicembre, 1994, pagg. 59-62; G. Turchi, Storia di Amantea (dalle origini alla fine del secolo XIX), Cosenza, 2002, pag.156; [3] E. Fera, Amantea la terra gli uomini i saperi, Cosenza, 2000, pag. 151. |
DAL PASSATO AL FUTURO“… il mastrogiurato, alla presenza dei due sindaci dei nobili e di quello del popolo, riceve dal governatore il bastone, emblema di comando, e la bandiera della fiera, recante lo stemma di Carlo V e delle città” Con questa suggestiva cerimonia, i cui valori storici e simbolici andrebbero riproposti, veniva ufficialmente aperta ed inaugurata la “Fiera di Amantea” che, come si legge nell’atto del 1729, redatto dal Notaio Saverio Ferraro, iniziava il 27 giugno e terminava il 6 luglio. Solo a partire dall’inizio del ’900, la manifestazione “trovò una definitiva sistemazione dal 27 ottobre al 2 novembre, acquisendo la denominazione di “fiera dei morti” o di “tutti i Santi”, per il variare delle esigenze di compravendita e la suddivisione dei settori zootecnico e merceologico”. Venuta meno la fiera degli animali e “cessate le necessità del rifornimento annuale di generi di consumo”, la Fiera si è lentamente, ma inesorabilmente, trasformata in un grande mercato. “Eppure quest’ultimo riesce ad evocare atmosfere del passato con l’esposizione di recipienti di vimini e di paglia, di ceramica, di oggetti in rame ed in ferro battuto, non più utensili da lavoro, ma elementi ornamentali. Gli antichi sapori rivivono nei “mostaccioli” confezionati con miele e farina, nei panini ripieni di “spezzatino” o di salsiccia arrostita con rape o di baccalà fritto, nelle croccanti caldarroste, graditi ai visitatori della fiera. Se apprezzabile è il giro d’affari, piuttosto è carente l’aspetto antropologico di quest’evento. Si è smarrito il senso dell’ospitalità nei confronti dei “ferari” che una volta venivano alloggiati in apposite baracche o accolti nelle case; si è affievolita l’umana solidarietà per i mendicanti, presenti ancora nei giorni della fiera. Tuttavia rimane vivo lo spirito della festa, che rompe con la monotonia della quotidianità, stabilendo fra i cittadini rapporti più amichevoli attraverso l’usanza dello scambio dei doni e agevolando nuove conoscenze”. Libera riduzione dell’articolo “Storia e futuro di una fiera” Coloro
che fossero interessati alla lettura completa del pregevole testo |
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Spero che i nostri visitatori ed, in particolare, gli autori dei precedenti testi vorranno perdonarmi se mi permetto di aggiungere una mia piccola “tradizione” personale legata alla Fiera. Pur essendo nato ad Amantea, risiedo da anni a Roma; nonostante ciò, tutte le volte che mi è possibile sono presente alla Fiera. Della Fiera mi piacciono soprattutto gli aspetti meno chiassosi e “sfolgoranti”. Difficilmente qualcuno di voi potrà vedermi fra le bancarelle durante il giorno; preferisco passeggiare per le strade la sera (o, addirittura, la notte) quando i “ferari”, dopo una pesante giornata di lavoro, ripongono la loro mercanzia o la coprono con pesanti teloni incerati e si concedono finalmente un pasto (più o meno lauto) ed il meritato riposo. Comunque, per me “la Fiera” è andare a mangiare un panino con “rape e sazizza” da Peppe Colla. E’ questa la mia “tradizione” fieristica (forse un po’ infantile), ma vi posso assicurare che il gusto di quel panino “annuale” per me non ha uguali. |
Peppe ’i colla nel suo “regno” fieristico |