Valerio Evangelisti, "Carmilla on line", 20 agosto 2004
Via via che il conflitto tra Israele e palestinesi si insanguina e si
imbarbarisce, si moltiplicano le informazioni distorte con cui il governo
israeliano e i suoi sostenitori cercano di attribuire alla sola controparte
la responsabilità delle violenze. Ciò si innesta in un’offensiva
mediatica ampiamente documentata nel volume di Joss Dray e Denis Sieffert
La guerre israélienne de l’information (ed. La Découverte,
Paris, 2002), tesa a neutralizzare l’effetto shock delle immagini di case
demolite, di ulivi sradicati, di uccisioni quotidiane – in una parola,
del progressivo soffocamento dell’identità palestinese da parte
del governo Sharon, culminato nella decisione folle di racchiudere ciò
che resta della Palestina autonoma entro un muro. Un obbrobrio che all’interno
stesso di Israele trova, per fortuna, accesi oppositori.
Tra le menzogne di guerra divulgate ad arte, ha il primo posto quella
secondo la quale i negoziati di Taba, seguiti al tentativo di accordo di
Camp David (luglio 2000), sarebbero falliti solo per colpa dei palestinesi,
per cui solo questi sarebbero all’origine della tragedia che è seguita.
Pian piano, la bugia è diventata quasi luogo comune. Ci sembra dunque
opportuno riproporre un articolo di Alain
Gresh apparso sull’edizione italiana di Le Monde Diplomatique nel settembre
2001, in cui la realtà dei fatti è ristabilita in maniera
incontrovertibile. Rimandando al testo di Dray e Sieffert per un’analisi
dettagliata di come una bugia madornale possa trasformarsi in “verità”
largamente accettata dai media.
Esiste naturalmente il rischio dell’accusa di antisemitismo, che i
sostenitori del governo israeliano sparano attorno con noncuranza ogni
volta che l’operato di Sharon è messo in discussione. Un’accusa
da cui non vanno esenti né Alain Gresh, malgrado l’origine ebraica,
né un buon numero di ebrei sparsi per il mondo, né tantissimi
cittadini israeliani. In realtà, nella misura in cui i difensori
a oltranza della politica dello Stato di Israele difendono l’indifendibile
e si collegano alla xenofobia contro gli arabi di qualsiasi confessione,
età o contesto (vedi in Italia la sintonia tra Fiamma Nierenstein
e Oriana Fallaci), non fanno che alimentare reazioni antisemite sempre
più accese. Negare che esista un popolo palestinese, per dirne una,
non è meno razzista che assimilare ogni ebreo del mondo a Israele
e alla sua politica.
In Palestina (chiamiamola così, tanto per intenderci) la storia
ha messo l’uno accanto all’altro due popoli più simili di quanto
non credano essi stessi (in proposito, raccomando la lettura di Yoram Binur,
Io, il mio nemico, Leonardo editore, Milano 1989: vicenda istruttiva
di un israeliano che si finge palestinese e va a vivere in mezzo ai suoi
presunti avversari “ancestrali”). I contendenti potranno uscire dai vicoli
ciechi in cui si sono perduti solo se riconosceranno questa loro parentela
di fondo, e sapranno rinunciare agli odi confessionali per cui un aggregato
di genti è scambiato per una stirpe, e una cultura per una razza.
Altrimenti, come dice Alain Gresh, il loro presente sanguinoso diventerà
il futuro di tutti, dentro e fuori l’area mediorientale.
Chi dissemina menzogne punta proprio a questo fine. Siamo realistici:
al momento un simile esito è il più probabile. Però
minoranze illuminate esistono sia tra gli israeliani che tra i palestinesi.
Personalmente punto proprio su queste minoranze, pur sapendo di avere tutte
le probabilità a mio sfavore.