di Alain Gresh, "Le monde diplomatique", maggio 2001
È passato un anno da quando, il 28 settembre 2000, la visita provocatoria condotta da Ariel Sharon alla Spianata delle Moschee (il Monte del Tempio degli ebrei) con l'intenzione politica di coprire i nuovi insediamenti di coloni in terra palestinese, scatenava la seconda Intifada e la repressione israeliana, con un progressivo rafforzamento dell'occupazione e un bilancio di centinaia vittime. Dopo la vittoria di Sharon alle elezioni del 6 febbraio scorso per il posto di primo ministro - nonostante le sue accertate responsabilità in molteplici eccidi di palestinesi, fra cui il massacro di Sabra e Chatila del 1982 - la situazione appare ormai senza via d'uscita. Tutto il Medioriente sembra avvilupparsi in una logica di guerra, determinata dall'intransigenza di Tel Aviv, dal suo rifiuto di restituire la terra ai palestinesi e dalla disperata risposta di questi ultimi, che moltiplicano gli attacchi terroristici e suicidi nello stato ebraico. Eppure, nel gennaio scorso, le delegazioni palestinese e israeliana, riunite a Taba per un ultimo disperato tentativo negoziale, si sono trovate ad un passo dall'accordo di pace.
«Il problema dei rifugiati palestinesi è centrale nelle
relazioni israelo-palestinesi. La sua soluzione globale e giusta è
essenziale per costituire una pace durevole e moralmente irreprensibile
(...).
Lo stato di Israele esprime solennemente la propria tristezza per la
tragedia dei rifugiati palestinesi, per le loro sofferenze e le perdite
subite e sarà un partner attivo per chiudere questo terribile capitolo
aperto 53 anni fa (...)» Incredulo, un leader palestinese prosegue
la lettura del documento che è appena stato consegnato alla sua
delegazione dai rappresentanti israeliani. La scena si è svolta
a Taba, una stazione baleare sul golfo di Aqaba, all'inizio del 2001. In
questa enclave di un chilometro quadrato restituita da Israele all'Egitto
nel 1998, alla fine di un lungo contenzioso, sono rinchiusi dal 21 gennaio
rappresentanti israeliani e palestinesi per tentare di «salvare la
pace».
«Malgrado l'accettazione della risoluzione 181 dell'Assemblea
generale delle Nazioni unite del novembre 1947 [che raccomanda la spartizione
della Palestina in due stati, uno ebreo e l'altro arabo], il nascente stato
di Israele è stato coinvolto nella guerra e nello spargimento di
sangue del 1948-1949, che ha fatto vittime e provocato sofferenze da entrambe
le parti,con il conseguente trasferimento e l'espropriazione della popolazione
civile palestinese divenuta così rifugiata (...)».
«Una giusta soluzione del problema dei rifugiati palestinesi,
in accordo con la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni
unite, deve condurre all'applicazione della risoluzione 194 del'Assemblea
generale delle Nazioni unite (...)».
Il dirigente palestinese in questione si ricorda della propria reazione
quando ha finito di prendere conoscenza di questo testo. «Sono diviso
tra due sentimenti: la gioia per questo passo avanti significativo nei
negoziati e la tristezza perché sono convinto che sia ormai troppo
tardi». Per la prima volta, in effetti, Israele riconosce di essere
in parte responsabile del dramma dei rifugiati palestinesi, accetta di
contribuire direttamente alla soluzione del problema e afferma che questa
deve portare all'applicazione della risoluzione 194 dell'Assemblea generale
delle Nazioni unite, riconfermata tutti gli anni dal dicembre 1948 e che
in particolare stipula che «è il caso di permettere ai rifugiati
che lo desiderino di rientrare nelle loro case il più presto possibile
e di vivere in pace con i vicini». Questo documento israeliano, pubblicato
qui per la prima volta (vedi il testo integrale qui in basso), altri documenti
e conversazioni tenute con numerosi protagonisti, attestano i progressi
compiuti durante i mesi di trattative che hanno seguito il fallimento del
vertice di Camp David nel luglio 2000.
Tuttavia, tutti i partecipanti di Taba sanno che nulla può ormai
evitare a Ehud Barak la disfatta alle elezioni del successivo 6 febbraio:
nei sondaggi è molto distanziato da Ariel Sharon, con un handicap
di più del 20%. In effetti, qualche giorno dopo, il responsabile
dei massacri di Sabra e Chatila, il falco impenitente, diventerà
primo ministro.
Sette mesi dopo, il fossato tra i due popoli non sembra essere stato
mai così profondo e la pace mai così lontana. La repressione
contro i palestinesi ha toccato picchi mai visti. Ogni giorno ci sono morti
e invalidi, case distrutte e campi devastati. Le incursioni israeliane
nei territori hanno ancora ridotto la sostanza dell'autonomia. Il blocco
di città e villaggi, meno spettacolare dei bombardamenti degli aerei
F 16, affama una popolazione costretta alla miseria, che soffoca in enclave
disperse, isolate, tagliate fuori le une dalle altre.
I maltrattamenti, la tortura - anche sui bambini (1) - gli assassinii
di dirigenti, le umiliazioni ai check point illustrano il martirio di tutta
una popolazione che resiste contro l'occupante, abbandonata dalla comunità
internazionale. In queste condizioni, possiamo quasi stupirci che la percentuale
di appoggio a Hamas e alle altre forze islamiste in un anno non sia passata
che dal 15 al 25% della popolazione.
Nell'altro campo, la paura ha preso il sopravvento, alimentata dagli
attentati suicidi. Chiunque scenda per strada, teme per sé e per
i propri figli. Insensibili alle sofferenze altrui, gli israeliani si sentono
una volta di più minacciati, malgrado la loro immensa superiorità
militare. Come si è arrivati a questo punto, mentre all'inizio del
2001, a Taba, un accordo era stato sfiorato?
Torniamo indietro. Per la schiacciante maggioranza degli israeliani,
rigettando la «generosa offerta» avanzata al vertice di Camp
David nel luglio 2000, Yasser Arafat avrebbe, secondo un'affermazione di
Ehud Barak, «gettato la maschera» ; appoggiandolo, i palestinesi
avrebbero confermato il loro segreto disegno di distruggere Israele.
«Una generosa offerta»? Da quale punto di vista? Certamente
non quello del diritto internazionale, che impone a Israele di ritirarsi
da tutti i territori occupati nel 1967 e di smantellare tutte le colonie,
comprese quelle di Gerusalemme est. L'espressione stessa la dice lunga:
è quella di un vincitore, che il vinto deve ratificare umilmente.
Esprime la visione di una pace imposta dal più forte al più
debole.
Per diversi mesi, con sparate a raffica sui media si è occultata
questa realtà, accollando ai palestinesi la responsabilità
del fiasco del vertice.
Un anno dopo, conosciamo i particolari dell'incontro di Camp David
che rivelano il carattere iniquo delle offerte israeliane (2).
«Prendere o lasciare» Lo stato palestinese concesso allora
da Ehud Barak non avrebbe disposto che di una sovranità limitata.
La vita dei palestinesi avrebbe continuato ad essere subordinata all'occupante.
Il 9,5% della superficie della Cisgiordania doveva venire annesso e circa
il 10%, lungo il Giordano, affittato a «lungo termine» a Israele.
La Cisgiordania sarebbe rimasta praticamente tagliata in tre da due grandi
blocchi di colonie, un lungo corridoio avrebbe addirittura permesso un
accesso diretto di Israele a Kiryat Arba e al cuore di Hebron (si veda
la mappa nella pagina a fianco). Israele avrebbe conservato il controllo
delle frontiere esterne dello stato palestinese. Non era stata prevista
nessuna soluzione per i rifugiati. Su Gerusalemme, invece, Ehud Barak aveva
reso più elastico un dogma inamovibile: per la prima volta aveva
delineato la partizione di «Gerusalemme unificata», decretata
nel 1967 «capitale eterna» di Israele. La città poteva
diventare la capitale dei due stati, anche se restava ancora da determinare
cosa apparteneva a chi.
Ma il dialogo non è stato avviato a Camp David. Il primo ministro
rifiutò di incontrare Arafat in tête-à-tête,
mentre il leader palestinese diffidava del proprio interlocutore. Barak,
eletto nel maggio 1999, non aveva difatti sotterrato per un anno il fascicolo
palestinese per negoziare, invano, con Damasco? Non aveva aggiornato sine
die il terzo ridispiegamento delle truppe in Cisgiordania che aveva lui
stesso negoziato? Non aveva rifiutato di trasferire ai palestinesi vari
villaggi attorno a Gerusalemme (Abu Dis, El Eyzaria, Sawahra e Anata),
trasferimento tuttavia approvato dal suo governo e dal parlamento?
Più in generale, la filosofia delle proposte israeliane a Camp
David rifletteva una certa idea della pace e degli accordi di Oslo. Israele,
sia il governo che l'opinione pubblica, trovava normale che il diritto
dei palestinesi (alla dignità, alla libertà, alla sicurezza,
all'indipendenza ecc.) venisse subordinato al diritto degli israeliani.
Non lo si sottolineerà mai abbastanza: gli accordi di Oslo non erano
un contratto di matrimonio tra due sposi con eguali diritti e doveri, ma
un compromesso tra un occupante e un occupato. E l'occupante ha voluto
imporre, ad ogni tappa e con l'appoggio degli Stati uniti, il suo solo
punto di vista. Benché una decina di accordi siano stati firmati
tra il settembre 1993 e il 2000, solo una piccola percentuale degli obblighi
inscritti nei testi verrà applicata e sovente con ritardo. «Nessuna
data è sacra», aveva proclamato Itzhak Rabin. I ritardi e
i rinvii accumulati lacereranno la pazienza dei palestinesi...
Malgrado tutto, e a dispetto di tutto, la popolazione palestinese ha
continuato, per parecchi anni, a credere che l'indipendenza e la libertà
risplendessero alla fine del cammino. L'influenza delle organizzazioni
radicali e islamiste rimaneva limitata. Ma, trascorso un anno dalla scadenza
del termine previsto per l'autonomia, le proposte israeliane a Camp David
provano che Israele non ha abbandonato l'idea di un controllo dei palestinesi.
Tanto più che, sul terreno, la colonizzazione avanza inesorabilmente...
Senza dubbio, Barak sarà sorpreso dal rifiuto di Arafat a Camp
David.
Ricalcando le proprie proposte su ciò che sembrava accettabile
dalla classe politica israeliana, nel disprezzo del diritto internazionale,
pensava che i palestinesi si sarebbero piegati. È pur vero che,
dal 1993, l'Autorità palestinese era passata di concessione in concessione.
Ma, questa volta, si trattava dello status definitivo. Arafat aveva
avvertito: mentre passi indietro sugli accordi transitori erano possibili,
la «soluzione definitiva» doveva rispecchiare la risoluzione
242 del Consiglio di sicurezza, che chiedeva la fine dell'occupazione della
Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e di Gaza (3). Ma, resi sordi da
un sentimento di superiorità rispetto ai «colonizzati»,
i leader israeliani non ascoltavano...
Il rifiuto di Arafat di cedere a Camp David sui pricipi ha trovato
un appoggio totale nell'opinione pubblica palestinese, che prendeva sul
serio la parola d'ordine «la pace in cambio dei territori».
Questo vertice si concluse quindi con un fallimento parziale. Ma bisognava
proprio far suonare le trombe dell'apocalisse? Le trattative proseguivano,
passi avanti erano sempre possibili.
Ma la pazienza della popolazione palestinese era arrivata al limite.
La scintilla che ha dato fuoco alle polveri è venuta dalla cucina
elettorale israeliana. Il 28 settembre 2000, Ariel Sharon si è presentato
in modo provocatorio sulla spianata delle Moschee, a Gerusalemme.
Autorizzando questa escursione, Ehud Barak sperava di rafforzare la
posizione del dirigente del Likud rispetto... al suo rivale di partito,
Benyamin Netanyahu. Nella prospettiva di elezioni anticipate, il primo
ministro israeliano avrebbe preferito trovarsi in competizione con Sharon,
che contava di battere facilmente. Ma i palestinesi hanno recepito la «visita»
come una provocazione e hanno manifestato la loro rabbia. In tre giorni,
mentre nessuna arma era stata utilizzata contro di esso, l'esercito israeliano
uccise trenta persone e ne ferì cinquecento. I palestinesi, senza
alcuna direttiva proveniente dal centro, si sono rivoltati. Reclamavano,
né più né meno, la fine immediata dell'occupazione.
In questo modo è iniziata la seconda Intifada di una popolazione
palestinese esasperata da sette anni di rinvii, di promesse non mantenute,
di sogni spezzati.
Anche se il governo israeliano ha la principale responsabilità
dell'esplosione, la direzione palestinese non può essere totalmente
assolta per la confusione che prende piede a partire dall'estate del 2000.
Questa leadership, segnata dalle pratiche autoritarie di Yasser Arafat,
paralizzata dalle lotte per la successione, incancrenita dalla corruzione,
ha mostrato una mortale forma di paralisi per parecchi mesi (4).
Non ha preso la misura del pericolo che avrebbe rappresentato la possibile
vittoria di Sharon alle elezioni, aspettando gli ultimi giorni della campagna
per premere sugli elettori arabi israeliani - traumatizzati dalla terribile
repressione dell'ottobre 2000 - perché si mobilitassero. Non è
stata capace di formulare chiaramente i propri obiettivi, di definire una
strategia, di sviluppare una campagna sui media per rispondere alla disinformazione
seguita al vertice di Camp David. Ha ravvivato i timori dell'opinione pubblica
israeliana attraverso alcune dichiarazione inopportune sul «diritto
al ritorno» di ogni rifugiato o esprimendo dei dubbi sul carattere
sacro del monte del Tempio per l'ebraismo. Yasser Arafat, convinto che
gli Stati uniti controllassero il 99% delle carte del negoziato, ha ignorato
un fattore cruciale: nessun accordo è possibile senza il sostegno
dell'opinione pubblica israeliana.
Ma le fortissime carenze dell'Autorità non cancellano i diritti
dei palestinesi definiti dalle risoluzioni dell'Onu: nel 1990, nessuno
ha aspettato una democratizzazione del potere in Kuwait per esigere la
fine dell'occupazione irachena. Come scrive Henry Siegman, ricercatore
al Council of Foreign Relations, un rigetto, anche se ingiustificato, da
parte di Arafat di una proposta israeliana «non annulla i diritti
dei palestinesi sulla Cisgiordania e Gaza, diritti riconosciuti dalla comunità
internazionale» (5).
«Prendere o lasciare». È così che Barak ha
presentato le proprie offerte a Camp David. Tuttavia, aveva dovuto fare
alcuni passi avanti, modificare una ad una le «linee rosse»
intangibili che aveva tracciato.
Avrebbe fatto simili concessioni senza la pressione esercitata dalla
seconda Intifada? Come sottolinea Ami Ayalon, ex capo dei servizi israeliani
di sicurezza interna (Shin Beth), «i palestinesi hanno imparato che
Israele capisce solo il linguaggio della forza». L'Olp, dal canto
suo, ha confermato che poteva dare prova di elasticità, purché
gli interessi minimi del suo popolo venissero preservati.
L'incontro di Taba del gennaio 2001 segna il punto più avanzato
dei negoziati tra i palestinesi e la squadra di Barak. Nel comunicato finale
del 27 gennaio 2001 le parti affermeranno di non essere mai state così
vicine
ad un accordo. I documenti elaborati sulle quattro principali questioni
(territorio, Gerusalemme, sicurezza, rifugiati), le confidenze fatte da
importanti protagonisti (6), confermano questa affermazione.
Prima di tutto, le due parti hanno riconosciuto che, in accordo con
la risoluzione 242 del Consiglio di sicuezza, le linee del 4 giugno 1967
sarebbero servite come base per il tracciato delle frontiere definitive:
ogni annessione di territori palestinesi da parte di Israele avrebbe dovuto
essere compensata. La delegazione israeliana ha proposto di restituire
il 94% (7) della Cisgiordania (dove vive circa il 20% dei coloni) e di
cedere l'equivalente del 3% in territori israeliani - il 3% «mancante»
veniva riequilibrato con il «passaggio sicuro» che avrebbe
collegato la Cisgiordania a Gaza, ma che non sarebbe stato sotto sovranità
palestinese. Rispetto a Camp David, Israele aveva rinunciato alla valle
del Giordano, a Shilo, all'est di Ariel e a qualche punto più isolato,
come Kedumin e Bel El, oltre che a una regione al nord della colonia di
Modim (che comprende 50mila palestinesi); ha anche accettato che se ne
andassero i coloni dal cuore di Hebron e che venisse smantellata Kiyriat
Arba.
La delegazione palestinese, dal canto suo, ha insistito sul concetto
del «100%». Ha spiegato che «in una prigione, il 95%
dello spazio è per i prigionieri - celle, mensa, sale di ginnastica,
infermeria ecc - ma il 5% restante è sufficiente ai secondini per
continuare a controllare i prigionieri» (8). Ha accettato di cedere
il 2% della Cisgiordania (dive vive circa il 65% dei coloni), in cambio
di territori di eguale valore (gli israeliani avevano offerto di cedere
delle dune di sabbia a Helutza, nel deserto del Neghev, ai confini di Gaza).
L'evacuazione avrebbe dovuto realizzarsi rapidamente - tre anni per
Israele, diciotto mesi per i palestinesi. Gerusalemme non sarebbe stata
divisa e sarebbe diventata la capitale dei due stati. Come spiega Yossi
Sarid, leader del partito di sinistra Meretz, uno dei partecipanti a Camp
David, «eravamo d'accordo sul principio della spartizione, conformemente
al piano Clinton (9), i quartieri ebraici sarebbero stati nostri, i quartieri
arabi dei palestinesi». I palestinesi esigevano la sovranità
sull'Haram El Sharif (la spianata delle Moschee), gli israeliani la volevano
su tutto il muro occidentale (compreso il muro del pianto). Diversi suggerimenti
sono stati esaminati, tra cui quello di affidare la sovranità, per
un periodo limitato, ai cinque membri del Consiglio di sicurezza e al Marocco.
Anche sulla sicurezza, ci sono state posizioni convergenti. I palestinesi
hanno concesso una limitazione dell'armamento del loro stato, oltre all'installazione,
a determinate condizioni, di centri di allerta israeliani. La presenza
di una forza internazionale alle frontiere è stata accettata.
Il dramma dei 3,7 milioni di rifugiati palestinesi dispersi tra la
Giordania, la Siria, il Libano e i territori autonomi è stato l'ostacolo
più imbarazzante. È stato al centro di numerose polemiche
dopo il fallimento di Camp David. Arafat non stava per caso cercando di
sommergere Israele sotto il flusso dei rifugiati? Il corrispondente di
France 2, Charles Enderlin, testimone privilegiato dei negoziati israelo-palestinesi
dal settembre 1999 (10), ribatte: «è un insulto all'intelligenza
pensare, come afferma un certo tipo di propaganda, che i leader palestinesi
credessero possibile concludere un accordo di pace che comportasse il ritorno
in Israele di 3,7 milioni di rifugiati. La verità è che potevano
accettare di rinunciare a questa rivendicazione storica dell'Olp solo in
cambio di uno stato palestinese funzionante sulla quasi totalità
della Cisgordania e di Gaza, con capitale la parte araba di Gerusalemme»
(11). «L'umanità del campo avverso» I negoziati di Taba
gli hanno dato ragione, ma è sufficiente dire la verità per
venire intesi ? Nabil Chaath e Yossi Beilin, incaricati della questione
dei rifugiati, hanno insistito entrambi sui progressi fatti. Le parti hanno
affermato che una soluzione giusta del problema dei rifugiati, conformemente
alla risoluzione 242, doveva portare all'applicazione della risoluzione
194 dell'Assemblea generale; hanno fatto passi avanti nella formulazione
di un'analisi delle origini del problema dei rifugiati. A partire da questi
principi, sono state elaborate soluzioni concrete. Sarebbero state offerte
cinque possibilità ai rifugiati: il ritorno in Israele; il ritorno
nei territori israeliani ceduti da Israele alla Palestina; il ritorno nello
stato palestinese; l'insediamento nel luogo attuale di residenza (Giordania,
Siria ecc.); la partenza per un altro paese (vari stati, tra cui il Canada,
hanno già fatto sapere di essere disposti ad accettare un numero
consistente di palestinesi).
Pur insistendo sulla libera scelta dei rifugiati, i leader palestinesi
hanno ripetuto che non volevano mettere in discussione il carattere ebraico
dello stato di Israele - carattere che hanno riconosciuto al momento della
dichiarazione di indipedenza della Palestina adottata al Consiglio nazionale
del 1988. Come precisa Yossi Sarid, la parte palestinese ha ammesso che
«la decisione finale per il ritorno di ogni rifugiato in Israele
è in mani israeliane». Israele ha accettato il ritorno di
40mila rifugiati in cinque anni - ai quali si sarebbero aggiunti quelli
inclusi nell'ambito del «ricongiungimento familiare» - ma i
palestinesi hanno ribattuto che un'offerta inferiore a 100mila non avrebbe
permesso di fare passi avanti. Secondo Yasser Abel Rabbo, ministro palestinese
della cultura e dell'informazione, la determinazione di questa cifra sarebbe
stata l'ultimo ostacolo.
Le due parti si sono anche messe d'accordo sul fatto che la priorità
doveva essere accordata ai rifugiati del Libano, che vivono in condizioni
spaventose a causa della politica di discriminazione del governo di Beirut.
Il testo israeliano precisa persino: «lo stato di Israele riconosce
il proprio dovere morale per trovare una rapida soluzione per le popolazioni
rifugiate nei campi di Sabra e Chatila».
Una commissione internazionale e un fondo internazionale sarebbero
stati creati per risarcire i rifugiati. Infine, le due parti hanno accettato
il fatto che la questione del risarcimento degli ebrei che hanno lasciato
i paesi arabi per insediarsi in Israele non era argomento di una discussione
bilaterale (12).
Perché non è stato possibile trasformare questi passi
avanti di Taba in un accordo? Entrambi i protagonisti lo sapevano, era
ormai troppo tardi: le elezioni israeliane erano troppo imminenti. «Se
avessero avuto luogo a maggio, avremmo potuto concludere in due o tre settimane»,
insiste Yasser Abel Rabbo. In più, Barak ha esitato, tergiversato,
sospeso i negoziati per poi riprenderli, ha rivendicato la sovranità
su tutta la città vecchia. Nabil Chaath si ricorda delle «pressioni
esercitate dai "moralisti" del governo israeliano, guidati da Abraham Burg,
che affermava che gli elettori avrebbero sospettato Barak di aver sacrificato
gli interessi nazionali a quelli del suo governo».
Tanto più che una sconfitta elettorale avrebbe significato una
sconfessione degli impegni di Taba. Dall'altro lato, spiega Yasser Abel
Rabbo, «non avevamo tempo di redigere un trattato e quale status
avrebbe avuto una semplice dichiarazione? Un testo del genere non avrebbe
avuto nessun carattere vincolante». Bisognava anche «vendere»
le concessioni all'opinione pubblica palestinese, concessioni fatte senza
alcuna contropartita concreta, poiché Sharon non si sarebbe sentito
impegnato da una semplice dichiarazione. L'idea della dichiarazione, accarezzata
per un attimo al vertice Arafat-Barak dell'ultima speranza, verrà
poi alla fine abbandonata.
Per evitare di far evaporare i punti acquisiti negli ultimi mesi, le
due delegazioni hanno incaricato Miguel Angel Moratinos, l'inviato speciale
dell'Unione europea, presente a Taba - gli Stati uniti, in piena transizione
presidenziale, non avevano delegato nessuno - di elaborare delle conclusioni.
Per la storia, senza dubbio, ma anche perché, un momento o l'altro,
bisognerà pure riunirsi nuovamente intorno a un tavolo. Difatti,
benché oggi la priorità debba essere accordata alla protezione
internazionale della popolazione palestinese, protezione che per il momento
è assicurata solo da missioni civili internazionali, soltanto una
soluzione politica può permettere di sfuggire a un ingranaggio mortale.
È ciò che hanno ricordato con coraggio, alla fine di luglio,
personalità rappresentative dei due campi - tra cui vari ministri
(Yasser Abel Rabbo, Nabil Amr, Hisham Abdul Razzek) e intellettuali (Hanan
Ashrawi, Sari Nuseibeth, Salim Tamari) palestinesi, così come Yossi
Beilin, ex ministro della giustizia del governo Barak e numerosi scrittori
(tra cui Amos Oz, A.B.Yehoshua, David Grossman).
«Noi, israeliani e palestinesi, nelle più difficili circostanze
per i nostri popoli, ci riuniamo per reclamare la fine del bagno di sangue,
la fine dell'occupazione, un ritorno urgente ai negoziati e alla realizzazione
della pace (...) Malgrado tutto, crediamo sempre nell'umanità del
campo avverso e nel fatto che abbiamo un partner con il quale faremo la
pace. Una soluzione negoziata al conflitto tra i nostri popoli è
possibile (...) Per fare passi avanti bisogna accettare la legittimità
internazionale e l'applicazione delle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio
di sicurezza dell'Onu che conducono a una soluzione basata sulle frontiere
del 1967 e su due stati, Israele e Palestina, fianco a fianco, con Gerusalemme
come rispettiva capitale.
Soluzioni giuste e durevoli possono essere trovate a tutti i problemi
rimasti in sospeso, senza minare la sovranità degli stati palestinese
e israeliano, sovranità definita dai loro rispettivi cittadini e
che comprende le aspirazioni a uno stato per entrambi i popoli, palestinese
ed ebreo».
Difatti, lo sanno tutti, l'unica alternativa è uno scenario
da incubo: un'escalation che non può che sfociare in un'ulteriore
conflagrazione regionale, uno scontro senza fine la cui parola d'ordine
sarebbe «o loro o noi», una guerra da cui entrambi uscirebbero
sconfitti.
note:
(1) Si vedano le inchieste di Joseph Algazi in Haaretz (pubblicate in
Francia dal Courrier International, 17 maggio 2001), e l'International
Herald Tribune, Parigi, 20 agosto 2001.
(2) Contrariamente ai palestinesi, la delegazione israeliana ha orchestrato
una serie di «fughe di notizie» durante Camp David e, in seguito,
offrirà la sola versione ufficiale del vertice, versione che sarà
ripesa tale e quale dai media israeliani e in seguito dai media occidentali.
Cfr. Aluf Benn, «The Sellig of a Summit», Haaretz, 26 luglio
2001.
Si è dovuto aspettare un anno perché i palestinesi presentassero
la loro versione in un documento molto dettagliato e che sembra molto più
vicino alla realtà rispetto all'idea israeliana di un'«offerta
generosa». Cfr. Akiva Elder, «What Went Wrong at Camp David:
the official Plo Version», Haaretz, 24 luglio 2001.
(3) Palestine Report, 1° febbraio 2001: Jmcc.org.
(4) La critica palestinese più severa è venuta da Yezid
Sayigh, un intellettuale che lavora in Gran Bretagna e che a più
riprese ha svolto il ruolo di consigliere della delegazione palestinese
nei negoziati di pace aperti a Madrid nell'ottobre 1991. Cfr. «Arafat
and the Anatomy of a Revolt», Survival, The International Institute
of Strategic Studies, Londra, vol.43, n.3, autunno 2001.
(5) «Middle East Conflict: Seek Palestinian Confidence in What?»,
International Herald Tribune, Parigi, 17 luglo 2001.
(6) Le delegazioni sono guidate rispettivamente da Abu Ala', presidente
del consiglio legislativo palestinese, e Shlomo Ben Ami, ministro degli
esteri israeliano. I membri della delegazione palestinese sono Nabil Chaath,
Saeb Erakat, Yasser Abel Rabbo, Hassan Asfur, Mohamed Dahlan; quelli della
delegazione israeliana sono Yossi Beilin, Amnon Lipkin Shahak, Gilad Sher,
Israel Hassun e Yossi Sarid.
(7) Va sottolineato che queste percentuali meritano di venire discusse.
Non sono inclusi i 72 chilometri quadrati di Gerusalemme est (cioè
l'1,3% della Cisgiordania), né la zona demilitarizzata annessa da
Israele (in particolare attorno a Latrun) e che rappresenta l'1,8% della
Cisgiordannia.
(8) «What went wrong...», op. cit.
(9) Il «piano Clinton» riprende le proposte avanzate il
23 dicembre 2000 dall'ex presidente statunitense sui principali punti della
questione israelo-palestiese. Si veda il testo nell'archivio Medioriente
del sito di Le Monde diplomatique: www.monde-diplomatique.fr/cahier/proche-orient/
(10) Ha registrato le testimonianze di tutti i protagonisti del negoziato,
a condizione di non renderle pubbliche prima della fine del 2001.
(11) Libération, 26 febbraio 2001.
(12) Tanto più che Israele non aveva mai sollevato questo problema
in occasione del trattato di pace con l'Egitto.
(Traduzione di A. M. M.)