LA RIFORMA DEL LAVORO

di Andrea Parola


Per molti lavoratori, la riforma del mercato del lavoro, messa in atto dal nostro governo tecnico, è rappresentata dall’art.18, cioè da quel “totem” (così è stato battezzato dalla stessa Fornero) che, dal 1970, conferisce una certa sicurezza o tutela del posto di lavoro e che adesso si vuole modificare per addolcirne l’efficacia, anche per le imprese che contano più di quindici dipendenti.

Nonostante le critiche che vengono mosse dagli stessi ministri, sul fatto che la riforma riguardi un più ampio spettro di interventi per la crescita e che quindi la riforma non è solo l’art.18, non ci pare che gli altri punti messi in campo siano di così grande rilievo e soprattutto possano essere di forte supporto ai velleitari obiettivi di governo.

L’art.18 è e resta la parte preponderante della riforma, quella su cui i media si concentrano maggiormente e anche quella di maggior dibattito politico; pertanto è l’argomento più conosciuto dalla maggioranza della popolazione ed è appunto sulla sua modifica che convergono le aspettative e le speranze dei lavoratori dipendenti.



La domanda che ognuno di noi si pone in questi giorni è “ma sarà mai vero che licenziando si creano posti di lavoro?” oppure “Sarà vero che un datore di lavoro con maggiore potere di licenziare venga incentivato ad assumere?” o ancora “E’ questo il momento migliore per introdurre una riforma del genere?” o “Siamo noi un paese sufficientemente serio e rigoroso per accogliere ed attuare una riforma siffatta?”

A noi sembra di capire che non è la possibilità di licenziare più liberamente che crea l’alchimia per far crescere un paese. Ancor di più in una situazione in cui di lavoro non ce n’è. La crescita economica è un fenomeno ormai inesistente da anni in Italia. Da anni non si investe più nello sviluppo del nostro paese e la flessibilità del lavoro è solo uno dei motivi e non certamente quello primario.

Le cause per le quali i denari, siano essi nostrani o stranieri, non trovano, nel nostro paese, terreno fertile per essere investiti sono ben altri, sono la mafia, la corruzione, la morsa fiscale per le imprese, la burocrazia (per aprire un’attività in Italia è necessario superare mille difficoltà), l’accesso al credito difficoltoso ed i costi che ne comporta, l’inadeguatezza della giustizia civile, la mancanza di supporto da parte dello Stato, che preferisce finanziare aziende italiane per produrre all’estero.
E’ infatti recente la denuncia di un’associazione di produttori caseari del centro Italia, che si trovano a combattere da anni con una concorrenza sleale di prodotti di aziende italiane che operano in terra straniera con soldi di noi contribuenti e che sono autorizzate a esportare da noi con il marchio italiano.



Ma torniamo alla riforma. Se non ricordo male, all’inizio si parlava di applicarla ai nuovi assunti, cioè a quei soggetti che sono penalizzati dalla legislazione attuale e verso i quali si rivolge l’attenzione del governo, mentre invece adesso ce la ritroviamo tutti sul groppone. A parte questo aspetto, ben vengano, comunque, tutte le azioni utili all’abbattimento del precariato, soprattutto per ridare dignità ai giovani, per dare loro la speranza di avere un programma di vita futuro, ma quale sarà il prezzo da pagare?

La cancellazione delle decine di tipologie di contratti atipici per ridare spazio all’apprendistato, rappresenta indubbiamente un passo avanti verso un contratto unico di lavoro a tempo indeterminato sempre più dominante. Un dato che vale per tutti: nel 2009 il 55% dei giovani che ha trovato lavoro lo ha fatto grazie ad amici e parenti e solo il 5% attraverso l’intermediazione delle agenzie di lavoro ed i centri per l’impiego.

Volendo essere pignoli ci si potrebbe porre una domanda ulteriore: “Il carattere di flessibilità che si vuole dare alle uscite, non dovrebbe corrispondere ad una maggiore retribuzione?” Non soltanto perché in Italia abbiamo le retribuzioni più basse d’Europa e le tasse più alte, ma anche perché il rischio di rimanere senza lavoro risulterebbe molto più elevato, come accade per esempio per i dirigenti.



L’aumento delle quote rosa è una strada che la nuova riforma comincia a percorrere per evitare le discriminazioni a cui siamo abituati nei confronti delle donne giovani o in gravidanza, anche se per evitare le lettere di licenziamento in bianco esistono già gli strumenti adeguati.

Sarebbe meglio, forse, migliorare le infrastrutture, incentivando le nascite (non penalizzandole) e dando maggiori supporti logistici, come per esempio gli asili nido presso le aziende o altri strumenti che permettano alla donna di diventare mamma senza per questo dover rinunciare al proprio lavoro. A questo proposito, i tre giorni concessi dalla riforma Monti per la paternità, fanno un po’ sorridere.

Ma, a mio giudizio, la maggiore lacuna di questa riforma è rappresentata dal mancato supporto a quei lavoratori, soprattutto over 50, che avranno a che fare con la ricerca di nuovi posti, ammesso che, in un periodo di recessione come quello attuale, ce ne siano ancora di disponibili per questa fascia di età.

Che fine ha fatto, a questo proposito, il tanto discusso modello danese della flexsecurity, portato dai nostri tecnici come esempio di “civiltà lavorativa”? Cosa offriamo in cambio al lavoratore che deve ricollocarsi? Che tipo di formazione vogliamo dargli per facilitare questo compito? Che tipo di aiuto e di incentivi siamo intenzionati ad offrirgli, che non siano solo limitati al contributo economico? Ci sembra che queste domande debbano ancora trovare una risposta. Bisogna forse cominciare col dare maggiori conferme alle richieste di sicurezza di occupazione, oltre che stabilire le regole per la flessibilità.



Francamente, in questa riforma, oltre che agli aspetti di giustizia o ingiustizia sociale, così come definiti dalla sinistra politica, ci sembra di intravvedere un deciso allontanamento della persona “risorsa” dal centro del sistema lavoro e un sempre più annebbiato concetto di meritocrazia, elementi, a mio avviso, indispensabili per lo sviluppo di un paese, punti di forza dei paesi nordici, così tanto enfatizzati, Germania in testa.

Attendiamo di leggere il testo definitivo della proposta, per capire se si avvicinerà al modello in vigore negli altri paesi e se costituirà la base di partenza per costruire, in futuro, un sistema universale europeo, per dare vita ad una unificazione finora solo teorica.

(31 Marzo 2012)
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