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The Bogside Artists I murales della memoria Intervista di Alfredo De Pietra Nati e cresciuti tra le strade del quartiere cattolico di Derry, i due fratelli Kelly e il loro amico Kevin Hasson sono stati testimoni delle tante atrocità che hanno caratterizzato la città nord-irlandese durante gli ultimi decenni del ventesimo secolo. Le loro eccezionali opere pittoriche nascono con un intento: non dimenticare… Ma insomma, questi problemi con Herr Momper, il presidente del Parlamento di Berlino… “…E non è neanche la prima volta! La cosa identica accadde con il museo di Trenton, nel New Jersey, negli USA: prima ci invitano, e poi cambiano idea! Crediamo che qualcuno abbia fatto disinformazione al nostro riguardo. Se anche Momper si è comportato alla stessa maniera, ci deve essere qualcuno che lo ha informato male. Veda, se fossimo quelli che Momper ritiene che noi siamo – e le sue affermazioni al nostro riguardo sono veramente diffamatorie – non avremmo dipinto i murales in quella maniera. Se il nostro lavoro è settario, allora si potrebbe arrivare ad affermare che Guernica di Picasso è un affronto razzista nei confronti della Germania! La decisione del signor Momper è in palese violazione dell’articolo 19 della dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite, che regola la libertà di espressione! Si è mosso anche il consiglio comunale di Derry, che ha inviato una lettera di protesta e di condanna per questa assurda decisione.” È arrabbiato, molto arrabbiato, William Kelly. Non se lo aspettava proprio, un voltafaccia di questo genere. Evidentemente è destino che i “Troubles” nord-irlandesi, seppure sonnecchianti, non siano ancora del tutto metabolizzati, neanche al di fuori dell’Irlanda. Perché a parere di Kelly, che lo afferma senza giri di parole, dietro il dietro-front del presidente del Parlamento di Berlino c’è in realtà il desiderio di non urtare la sensibilità delle autorità britanniche. Ma a questo punto sarà necessario chiarire bene chi è William Kelly, chi sono i Bogside Artists (di cui Kelly fa parte), e qual è il particolare rapporto che lega questi artisti alla città nord-irlandese di Derry. Per far questo, dovremo – sia pur brevemente – ripercorrere la travagliata storia di quella città in questi ultimi secoli. Quando Sir Henry Docwra, nel 1600, iniziò l’insediamento inglese a Derry, mise in atto una serie di azioni che di fatto posero fine all’autonomia dei Celti d’Irlanda: da quel momento in poi l’isola sarebbe stata divisa non solo geograficamente (con i colonizzatori concentrati principalmente nel Nord), ma anche da un punto di vista religioso tra cattolici e protestanti. In realtà “Derry” era il terzo nome di quel sito, in origine chiamato “Daire Calgaigh”, termine che voleva dire “il bosco di querce di Calgaigh”. Nel corso del X secolo il nome cambiò in “Doire Colmcille”, ovvero “il bosco di querce di San Colmcille”, in onore del santo che 400 anni prima aveva fondato in quel luogo un insediamento di monaci. Pochi anni dopo l’inizio della colonizzazione britannica la città fu chiamata Londonderry, e solo nel 1984 il consiglio comunale ufficializzò il ritorno all’originario nome di Derry. La storia di questa città è stata sempre molto travagliata: fu qui che nel 1688, grazie a un sotterfugio, le forze cattoliche di Giacomo II riuscirono a penetrare in città, e in seguito a ciò pochi mesi dopo ebbe inizio il “grande assedio” di Derry, che condusse alla morte di un quarto dei suoi trentamila abitanti. In seguito, grazie principalmente a una fiorente attività portuale, Derry divenne rapidamente una città industriale: l’industria dei tessuti vi si sviluppò enormemente, e ancora oggi la manifattura tessile locale gode di grande prestigio. Non furono mai tuttavia anni tranquilli, quelli di Derry: l’aspirazione per l’indipendenza continuò ad ardere nella popolazione tra alti e bassi, sempre pronta a sfruttare i momenti di difficoltà dell’invasore britannico. In questo senso un momento cruciale nella storia della città si ebbe negli anni tra il 1845 e il 1850, quelli della grande carestia: l’isola contò un milione di morti per denutrizione, un milione e mezzo di emigrati (America, Inghilterra e Australia le mete) e mezzo milione di persone scacciate dalle loro case dai proprietari terrieri. La tragedia contribuì a rafforzare l’aspirazione all’autoregolamentazione dell’Irlanda, e Derry in particolare divenne per molti irlandesi l’ultimo lembo di terra patria a essere toccato prima dell’addio definitivo, a bordo di precarie imbarcazioni dirette verso l’America, ma in realtà destinate a colare a picco nelle perigliose acque dell’Oceano Atlantico. Nel 1921, a seguito della promulgazione del Home Rule Bill, l’Ulster divenne “uno Stato protestante per una popolazione protestante”, popolazione ben decisa a mantenere il proprio potere ai danni della minoranza cattolica: se da un lato unionismo e fedeltà alla corona d’Inghilterra divennero i bastioni del nuovo stato, dall’altro i nazionalisti cattolici si considerarono ancora maggiormente un popolo privato dei propri diritti. Si sanciva la divisione demografica e politica dell’Irlanda. Nel 1968 i cattolici, sulla falsariga del movimento dei neri d’America, iniziarono a manifestare nelle strade per reclamare i loro diritti. A ciò fecero seguito oltre trenta anni di una strisciante guerra civile, che fece 3600 morti e più di trentamila feriti. Quasi tutti i due milioni scarsi di abitanti di quelle zone rimasero, per un verso o per l’altro, toccati da quelli che passarono alla storia come “the troubles”, ovvero “i problemi” del Nord Irlanda. Fu solo nel 1997 che l’IRA annunciò la completa cessazione di ogni operazione militare, ma anche se il livello di violenza conseguentemente si ridusse di molto, ancora oggi continuano ad esserci sporadici assassinii e spedizioni punitive da parte delle organizzazioni paramilitari d’ambo i lati. Siamo quindi ancora lontani da una soluzione politica, ma ancor prima culturale, che riesca a eradicare le grandi barriere storiche che cospirano ai danni di una reciproca tolleranza e dell’accettazione delle rispettive realtà. Oggi Derry ha una popolazione di poco più di centomila abitanti, in larga maggioranza cattolici. È la città tristemente famosa per il Bloody Sunday, punta massima di atrocità dei troubles: accadde tutto il 30 gennaio 1972, quando i soldati britannici del 1° Reggimento paracadutisti aprirono il fuoco su una pacifica dimostrazione di civili disarmati nel quartiere di Bogside, uccidendo quattordici persone. La marcia, indetta per protestare contro le carcerazioni senza processo, venne ritenuta “illegale” dalle autorità britanniche. In seguito, il processo che ne conseguì, presieduto da Lord Widgery, giudice con un passato da militare, giudicò i militari coinvolti nella strage non colpevoli. In realtà la Bloody Sunday giungeva al culmine di un periodo di conflitto iniziato tre anni prima: il 13 agosto 1969, a seguito di scontri tra dimostranti cattolici e polizia nel quartiere di Bogside durati due giorni, il primo ministro dell’Irlanda del Nord, James Chichester-Clarke, chiamò il corrispettivo ministro inglese Harold Wilson, chiedendo l’invio di truppe da Londra. La “battaglia di Bogside” cessava, ma iniziava il controllo diretto da parte dei soldati britannici, e ciò diede il via a una serie di rappresaglie e vendette incrociate fino al culmine, raggiunto con la strage di Omagh del 15 agosto 1998, con 29 morti e 220 feriti. I grandi murales realizzati dai Bogside Artists (i fratelli William e Tom Kelly, con il loro amico Kevin Hasson), tutti situati lungo Rossville Street, nel cuore del quartiere di Bogside – vera enclave cattolica della città – si ergono a testimonianza di questi tragici eventi. I fatti più eclatanti del conflitto ci sono tutti, nell’opera dei Bogside Artists: la Bloody Sunday certo, ma anche l’iniziale “battaglia di Bogside”, e l’”operazione Motorman”, che portò nel 1972 all’uccisione di due civili. I tre “Artists” si riunirono nel 1993. Il loro approccio era di tipo commemorativo, ben al di là di intenti di tipo estetico; un modo di rendere onore al proprio passato, di ricordare il prezzo pagato da una comunità di gente semplice e pacifica per ottenere i propri diritti: “Una ferita deve essere aperta, pulita ed esaminata, se si vuole che guarisca – ebbe a dire una volta Tom Kelly – Sono le ferite “chiuse” che tendono ad infettare: il nostro lavoro vuole mettere a nudo le ferite. E non si tratta di graffiti; siamo lontanissimi dall’idea di un immaturo danneggiamento di una proprietà, pubblica o privata che sia: la nostra è un’arte fatta dal popolo per il popolo. Per questo è autentica, in un mondo in cui ciò che conta è sempre più l’ambizione e il denaro.” William Kelly è stato prodigo di commenti e spiegazioni, sul significato dei murales di Bogside: “La reazione della gente alla nostra prima opera, “The Petrol Bomber”, fu eccezionale: la sua immagine fece il giro del mondo, fu pubblicata dai giornali di ogni continente. La gente del posto iniziò a volerci bene, ed è un affetto che continua ancora oggi. Certo, i protestanti ci vedevano come una minaccia, ma quello che noi volevamo dire era: ecco, la gente di qui non si è mai tirata indietro per reclamare i propri diritti, perché sin dall’inizio ha creduto nella giustizia di quella causa.” Il vostro intento è quindi commemorativo. Ma non c’è il rischio che queste vostre opere siano viste come un modo per delimitare il territorio? “Sia ben chiaro che noi non facciamo politica né ci occupiamo di propaganda: con il nostro lavoro vogliamo assicurare la nostra comunità che qualunque cosa accada, comunque la sua vita continuerà. Certo, il rischio che guardando le nostre opere qualcuno pensi: “i cattolici da questa parte, i protestanti dall’altra” c’è, inutile negarlo. Ma d’altro canto le cose che noi abbiamo descritto col pennello sono successe proprio lì, in quelle strade. Dove altro avremmo dovuto fare i murales? Quello che abbiamo cercato di fare il più possibile è “andare oltre” il fatto locale: non vedrete tracce di emblemi, o stemmi, o invocazioni “tribali” nei nostri lavori. Una persona di Sarajevo o un palestinese di certo avrebbero modo di relazionarsi alla nostra opera in modo molto semplice e diretto.” In qualche modo i murales hanno avuto un’influenza sull’ambiente in cui sono inseriti? “Senza dubbio! Guardi che prima dei nostri murales, il Bogside era un posto carico di energie negative: i ricordi degli eventi terribili che vi sono successi pesavano come un macigno…se non altro siamo riusciti, entro certi limiti, a esorcizzare quelle strade…” E le influenze sulla comunità che vive in quei luoghi? “Non non costituiamo una minaccia per nessuno, ma ciò non vuol dire che chiunque apprezzi il nostro lavoro. Tutto dipende da quali sono le opinioni e le esperienze di chi guarda i nostri murales. Ciò detto, gli abitanti del posto vedono nella nostra opera una sorta di specchio del proprio vissuto, ma è anche vero che per chi è nato dopo quegli eventi, il legame tende a essere più debole, sfumato. Un’arte “giusta”, che non sia spinta dall’odio o dalla follia, deve dare qualcosa di positivo a tutti: bene, sulla base della risposta sia della gente del posto che dei turisti, credo che siamo riusciti in questo scopo. Non abbiamo dipinto esclusivamente a uso degli abitanti del Bogside, o dei nazionalisti, o dei cattolici: la nostra opera è per tutti, indistintamente.” Qual è oggi la situazione dell’Irlanda del Nord? È solo una questione religiosa, o alla base di tutto ci sono motivi prettamente economici? “Ogni guerra è in realtà un conflitto di classe tra “chi ha” e “chi non ha”. I nazionalisti irlandesi non avevano diritti politici ed erano oppressi da un sistema unionista corrotto, che rimaneva al potere servendosi di artefatti elettorali che gli avrebbero assicurato la permanenza ai posti di comando. Ad esempio poteva votare solo chi aveva delle proprietà, ed essendo i cattolici mantenuti in povertà, non potevano minimamente influire sul potere politico. A scuola poi veniva fatto ai bambini – da entrambe le parti – un vero lavaggio del cervello: “gli altri” avrebbero sempre costituito una minaccia per la propria stessa esistenza. Ora, quando una guerra inizia, è proprio questo sistema ideologico che ti fa schierare da una parte o dall’altra, e che ti fa combattere con maggiore o minore accanimento: un folle armato di un’ideologia maniacale è molto più pericoloso di un’idealista che rincorre un sogno. Un’educazione “vera” dovrebbe incoraggiare i bambini a farsi domande del tipo: “Vale la pena di credere a ciò che mi viene detto? Le cose stanno veramente cosi?”. Purtroppo, così come anche nel caso dell’integralismo islamico, in Irlanda del Nord l’indottrinamento intransigente è pratica comune: i cattolici insegnano una cosa, i protestanti un’altra, e ciascuno crede che il Creatore guardi dall’alto, sorridente, verso la propria fazione. La follia del mondo dipende in larga parte da queste distorsioni.” La separazione tra le due fazioni è quindi ancora oggi un dato di fatto… “Sì, ancora oggi i protestanti stanno da una parte e i cattolici dall’altra. Ed è strano, perché anche se c’è odio reciproco, poi nelle città le due comunità hanno un certo grado di vita in comune: cattolici e protestanti lavorano insieme, addirittura i cattolici hanno amici protestanti e viceversa; ma alla fin fine ciascuno sa bene di appartenere a una delle due fazioni. Alla televisione, poi, i politicanti delle due parti se ne dicono di tutti i colori, poi magari a telecamere spente scherzano insieme, magari commentando allegramente l’ultima partita di calcio…” Il vostro ultimo murale, inaugurato pochi mesi fa, si chiama semplicemente “Pace”. Un punto di arrivo o di partenza? “Con i nostri dipinti abbiamo raccontato una storia, e il murale sulla pace è l’ultimo capitolo di questa storia. È il punto in cui ci troviamo attualmente, anche da un punto di vista politico. La gente vuole la pace. È lo stesso in America, anche lì la maggior parte della gente vuole la pace. Sono sempre i politici, ebbri del proprio potere, che vogliono la guerra. In una democrazia vera si dovrebbe tenere in maggior conto l’opinione della gente, ma purtroppo ciò accade molto raramente…” Lasciando perdere l’infelice, mancata esperienza berlinese, in quali altri posti avete portato le vostre opere? “La stessa mostra che avremmo dovuto portare a Berlino era già stata presentata – e senza alcun problema – a Londra, in quello che nelle intenzioni doveva essere un tour europeo. Si tratta di dieci fotografie dei murales, di dimensioni molto grandi. La prossima tappa sarà Savannah, negli Stati Uniti.” Altri progetti a breve scadenza? “Quest’anno nel quartiere di Bogside verrà costruito un museo interamente dedicato ai “Troubles”, e ci è stato chiesto di dipingere un murale per esso. A maggio invece inizieremo a lavorare per due dipinti che ci sono stati commissionati da un edificio pubblico di Francoforte, in Germania.” E in Italia? “Siamo molto amici di Raffaella Santi, una scrittrice che vive vicino Firenze. Finora non abbiamo preso in considerazione la possibilità di portare la nostra mostra in Italia, ma non si sa mai…Il vero problema è che portare in giro le immagini delle nostre opere richiede un forte finanziamento economico, cosa per noi sempre molto difficile da ottenere…” |