Sinead O'Connor
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Sinéad O’Connor

Sinéad O’Connor – Sean-Nos Nua

 

Sinéad, anche se lei ha sempre incluso qualche pezzo irlandese nel suo repertorio, più di qualche critico è rimasto sorpreso da un intero album, come il suo ultimo Sean Nós Nua, composto esclusivamente da musica tradizionale. Cosa l’ha spinta a registrare questo disco?

“Credo sia qualcosa che mi porti dentro fin da piccola, che faccia parte della mia stessa natura. Ritengo di essere stata profondamente influenzata dalle canzoni tradizionali irlandesi – e sottolineo le canzoni, non  tanto la musica strumentale, visto che sono una cantante – ma ancor più da quelli che io chiamo “i fantasmi” dei personaggi delle canzoni irlandesi. Mi spiego meglio: era da almeno dodici anni che avevo in mente la realizzazione di un album composto interamente da traditional song irlandesi. L’idea mi venne in mente in un periodo in cui mi trovavo in America, in compagnia di un  buon numero di connazionali. Lì mi resi veramente conto del particolare senso di nostalgia che prende gli immigrati che si trovano a vivere lontano dalla nostra isola. Era il periodo della guerra del Golfo. Una sera ero a Los Angeles, andai ad ascoltare i De Dannan, e rimasi colpita da uno dei loro brani, “Paddy’s Lament”, cantato da Mary Black. Era incredibile, avevo quasi la sensazione di poter vedere e toccare con mano il fantasma del ragazzo protagonista di questa triste storia: la canzone narra infatti di un emigrante irlandese che si trova a combattere nella guerra civile americana e rimane ucciso, e la voce del suo fantasma canta una delle più intense canzoni anti-militariste di tutti i tempi. È questo il bello di queste canzoni, la loro attualità: una canzone come “Paddy’s Lament”, scritta più di cento anni fa, è perfetta anche per il secolo in cui viviamo”.

Ma visto che era qualcosa che aveva in mente già da tempo, come mai lo ha realizzato solo ora?

“L’intenzione c’era già da tempo, è vero, ma finora non era stato possibile, semplicemente perché ero sempre sotto contratto con grandi case discografiche che di un progetto simile non ne volevano proprio sapere! D’altro canto è comprensibile, investono su di te somme incredibili di denaro, e di conseguenza si aspettano un ritorno economico proporzionato: quello che ti viene chiesto è di vendere tonnellate di dischi e di sfornare successi da top ten uno dietro l’altro, e in queste situazioni bisogna necessariamente venire a patti con la propria creatività. Così ho potuto finalmente realizzare Sean Nós Nua solo una volta sganciatami dal circuito della major discografiche e grazie al supporto di un’etichetta indipendente, che non ha avuto bisogno di investire su questo progetto cifre spropositate. In questo modo è stato anche più bello registrare questo disco, senza le pesanti pressioni delle grandi case discografiche”.

Tornando ai fantasmi, si direbbe che lei ci creda ciecamente. Avverte altre simili “presenze” nei testi di queste canzoni?

“Sì, certo che ci credo! Fin da bambina ho avuto ad esempio la sensazione che i cani percepiscano la presenza di “qualcosa” o di “qualcuno” che noi non riusciamo a sentire, e l’idea di una impalpabile forma di vita che rimanga sulla terra, anche dopo la morte, mi affascina da sempre. E anche per quanto riguarda le canzoni tradizionali della mia terra, è questo il motivo per cui alcune mi attraggono più di altre: in genere si tratta di quelle canzoni che narrano di eventi particolarmente dolorosi, se non addirittura tragici, ed ho quasi la sensazione che il testo di questi brani possa essere stato dettato al loro autore direttamente dal protagonista della storia – o meglio dal suo fantasma – in prima persona. In fondo queste canzoni non fanno altro che tramandare, anche per secoli, queste tristi vicende, come se questi spiriti ci chiedessero, in questo modo, di non essere dimenticati”.

Lei parla di questi argomenti con una notevole competenza. Per caso è anche una medium?

“Non saprei neppure io se posso definirmi a pieno titolo una medium, ma certo ho una certa attitudine per queste cose…e nel caso di queste canzoni tradizionali è un’attitudine che aiuta parecchio: riesco quasi sempre a immedesimarmi nella storia, se non addirittura nel personaggio di cui ci narra la canzone, come nel caso della già citata “Paddy’s Lament”.  E ciò rende la mia interpretazione senz’altro più autentica e sincera. Ovviamente tutte queste problematiche non si pongono quando devo interpretare brani contemporanei”.

Lei ha scritto personalmente le note di copertina per questo suo ultimo disco, ma in alcuni casi si tratta di considerazioni abbastanza personali, sul significato delle canzoni…  

“Lei si sta riferendo, credo, a “The Singing Bird” e “Peggy Gordon”…Sì, mi rendo conto che il significato di questi brani è per me del tutto particolare. Personalmente vedo “The Singing Bird” come una sorta di preghiera: il “singing bird” è l’Assoluto, la Divinità, la cui grandezza è infinita e al di sopra di tutto, è amore, pace e gioia.

Diverso il discorso per “Peggy Gordon”: anche se si tratta di una canzone normalmente cantata da un uomo, la prima volta che l’ho ascoltata era interpretata da una donna, in modo tenero e delicato. La canzone prendeva così l’aspetto di una storia d’amore a sfondo lesbico, un argomento tuttora deliberatamente ignorato, se non addirittura censurato, in Irlanda.

D’altra parte ritengo che qualsiasi cantante debba trovare necessariamente un qualche spunto di interesse nei brani che sceglie di interpretare, anche se non necessariamente il processo di immedesimazione debba spingersi fino alla identificazione totale con il protagonista di un particolare brano”.

Quindi implicitamente riconosce che la sua personale interpretazione di un brano può anche non collimare con le intenzioni del suo autore…

“Sì, dipende tutto dal contesto in cui ciascuno di noi viene a contatto con queste canzoni. Sempre a proposito di “Peggy Gordon”, mi rendo perfettamente conto del fatto che le mie sensazioni a proposito di questa canzone dipendono esclusivamente dal fatto che ho conosciuto questo brano nell’interpretazione di una donna…”

Anche se nel passato lei ha inciso diversi brani molto impegnati, non ritiene che anche le canzoni di questo album siano da annoverare tra le più intense che lei abbia mai cantato?

“Secondo me il mio album più intenso in assoluto rimane Universal Mother: quel disco lo sento molto “mio”, molto personale. Lì ho veramente dovuto fare i conti con i miei problemi, i miei fantasmi, i miei spiriti, se vuole.

Sean Nós Nua è anch’esso un album molto intenso, ma in un modo differente: era un progetto che avevo in mente da tanto tempo, come già detto, ma ho passato almeno gli ultimi due anni a prepararmi a interpretarlo, soprattutto dal punto di vista emozionale. Tornando allo spiritismo, ho vissuto per quindici anni in Inghilterra, e durante tutto questo tempo ho spesso seguito studi psichici che hanno a che fare con lo spiritismo. Questo allenamento mi è risultato utilissimo nel “contatto” con i protagonosti di queste canzoni tradizionali. Ma a parte questo, si tratta comunque di album completamente differente dai miei precedenti, e anche per questo motivo ho vissuto la sua realizzazione in modo molto intenso”.

Si tratta comunque di canzoni più interessanti, dal punto di vista emotivo, rispetto alla media dei brani pop da lei interpretati, non trova?

“Questo sì, ma vede, tutte le forme di musica sono importanti, e io cerco di evitare questo tipo di snobismo musicale. Voglio dire, anche Britney Spears ha una sua valenza, così come ovviamente importante è, di converso, la figura di Bob Dylan: questo perché dipende tutto da chi ascolta. Voglio dire che ciascuno di noi ha bisogno di una voce che lo rappresenti: certo, se secondo me un tipo di musica è scadente, non lo ascolto punto e basta. Tornando alla musica irlandese, si tratta indubbiamente di una tradizione ricchissima…e sempre tornando a Dylan, penso che sia uno dei pochi interpreti non irlandesi perfettamente in grado di cantare anche all’interno di questa nostra tradizione.

La cosa più importante, a proposito della musica irlandese, è la sua innata capacità di veicolare le sensazioni e i sentimenti della gente comune: rabbia, dolore, gioia e amore traspaiono in modo semplice e immediato da questa musica, spesso con un significato catartico. Per questo è una musica che risulta così universale”.

Esistono secondo lei altre situazioni simili, in cui la musica gioca un ruolo così importante?

“La prima cosa che mi viene in mente è la musica dei sufi, il particolare mondo musicale dei dervishi, con le sue forti connessioni con la religione…si può dire che i musulmani spesso cantino il Corano, più che leggerlo, ma più in generale la musica è un elemento molto importante nella gran parte delle diverse culture religiose”.

Lei poco fa ha citato Bob Dylan…

“Secondo me è un maestro. Uno dei pochi veri maestri: assieme a lui metterei Van Morrison e Shane McGowan, ma Dylan è un artista molto più profondo rispetto a chiunque altro. Lo seguo fin da quando ero una ragazzina e credo che tutti noi gli dobbiamo moltissimo. Soprattutto ammiro la bravura e il coraggio con cui riesce a comunicare, con la musica, le sue emozioni: un coraggio che secondo me non ha nessun altro musicista contemporaneo”.

Secondo lei c’è il rischio che le canzoni di questo suo ultimo album possano essere accusate di essere troppo datate, e comunque non molto interessanti da un punto di vista generale?

“Il rischio potrebbe anche esserci, ma dipende molto da come ciascun interprete presenta questi brani, dal suo aspetto, da come si veste e così via. A sua volta tutto ciò dipende in larga misura anche dal periodo storico in cui ogni artista vive: ad esempio vi fu un periodo in cui anche la musica irlandese veniva presentata in un modo molto appariscente, quasi sexy. Un cantante come John McCormack venne così ribattezzato “l’Elvis Presley della musica irlandese” (erano gli anni ’40-’50), e la sua versione della famosissima “The Star Of The County Down” era ovviamente molto differente da quella – a mio parere –  stupenda, presentata nel disco dei Chieftains insieme a Van Morrison; e a ben vedere vi sono anche alcune piccole variazioni nel testo, significative considerando che tra le due versioni sono trascorsi una quarantina d’anni”.

Non c’è neanche il rischio che si tratti di brani troppo famosi?

“Sì, c’è anche questo rischio, ma non nel senso che si tratta di brani cantati troppo frequentemente. Il punto, ancora una volta, è centrato sull’interpretazione, sul come queste canzoni sono state eseguite nel corso degli anni. Di conseguenza la sfida, quando si decide di presentare brani già molto famosi, sta nell’offrire una versione che risulti nuova, ma che soprattutto rispecchi la propria personalità artistica”.

Ma per esempio, un brano come “Molly Malone”, non trova che sia troppo inflazionato?

“Certo, canzoni come “My Lagan Love” o “Molly Malone” sono fin troppo popolari: sono pochi, in Irlanda, a non conoscerne i testi dall’inizio alla fine, e un brano come “Molly Malone” potrebbe anche essere considerato inflazionato…ma in realtà rimane una bellissima canzone! Quello che è sbagliato è il modo in cui queste canzoni vengono presentate: addirittura hanno fatto diventare “Molly Malone” una canzone da cantare allo stadio, durante le partite di calcio, mentre in realtà è una canzone che deve essere cantata da una sola voce! Se “Molly Malone” viene cantata da più di una voce, se ne perde infatti completamente il senso e il significato.

Se invece si riesce a entrare nel personaggio narrato dalla storia, se si riesce a cogliere lo spirito autentico di questa canzone, allora ci si renderà facilmente conto del suo grande potere evocativo”.

Alla luce di tutto ciò, la realizzazione di questo disco è stata per lei un’esperienza soddisfacente, dal punto di vista musicale?

“Senza alcun dubbio si è trattato per me di un’esperienza entusiasmante, sia perche si trattava di qualcosa che ha a che fare con le mie radici, sia per il valore dei musicisti coinvolti in questo progetto. Penso di essere uscita rivitalizzata dalle registrazioni di Sean Nós Nua: mi sono resa conto che le canzoni scelte erano amate da tutti i musicisti che hanno preso parte alle registrazioni, si è creato tra di noi un piacevole clima di affetto reciproco, e procedere nelle registrazioni è risultata, alla fine, un’operazione estremamente facile, e anche molto gradevole”.

Tornando a Universal Mother, si è quindi trattato del primo suo album in cui lei sente di essere realmente entrata in contatto con se stessa?

“Sì, ricordo che stavo appena uscendo da un brutto periodo della mia vita. Erano successe cose orrende anche nel mondo: l’assassinio di John Lennon, ad esempio, mi aveva particolarmente segnata. Cominciai a registrare i brani di Universal Mother sperando che ciò contribuisse a “curarmi” dal punto di vista psicologico, e fu allora che ebbi la sensazione che a scrivere quelle canzoni fosse una mia seconda personalità, un “qualcun altro” che viveva all’interno di me stessa”.

Sembra di capire quindi che in un certo senso lei guarda alle canzoni di Sean Nós Nua come a una sorta di studio spirituale…

“Questo album, in modo speciale, è stato per me molto importante proprio dal punto di vista spirituale: ho quasi la sensazione di aver riscoperto una mia “vecchia pelle”, oltre ad aver imparato molto, e alla luce di questa esperienza mi sento di consigliare a qualsiasi cantante di andare a studiare e riscoprire la musica tradizionale della propria terra. Questo disco ha infatti significato per me una vera e propria crescita dal punto di vista spirituale, e anche una migliore conoscenza di me stessa. Inoltre in questa occasione ho percepito la sensazione di non dovermi preoccupare del successo, inteso in termini di vendita del disco stesso: questa volta sentivo solo il bisogno di cantare in modo autentico e sincero. Un’altra cosa, infine: per una volta non ho per nulla cercato la perfezione in sala d’incisione, e ho capito che il disco ne ha guadagnato in comunicatività, per cui vorrei raccomandare ai miei colleghi di non cercate la perfezione ad ogni costo, tramite l’uso di computer sempre più potenti e sofisticati”.

E ora? Dopo un’esperienza così intensa dal punto di vista emozionale non sarà difficile riuscire a trovare qualcos’altro di simile da cantare, almeno dal punto di vista del livello emotivo?

“Chi lo sa? Una cosa è certa, dopo una gestazione così lunga ora non abbandonerò queste canzoni, dopo averle registrate. Nel tour che sta per iniziare canterò infatti gran parte dei brani presenti su Sean Nós Nua, naturalmente inframmezzati alle mie canzoni del passato.

Quanto al futuro, bisognerà solo aprire il mio cuore e aspettare che nuove emozioni mi spingano a comporre nuove canzoni…”.

 

                                                                                              Intervista di Alfredo De Pietra

Sinéad O’Connor – She Who Dwells 

testo di Alfredo De Pietra

Il canto del cigno?

She Who Dwells…potrebbe essere l’ultimo disco della famosa cantante irlandese, che pare prendere questa decisione proprio nel momento in cui le sue scelte artistiche si stavano, finalmente, sempre più rivolgendo verso la musica tradizionale dell’isola di Smeraldo. Sinceramente c’è da confidare in un ripensamento.

A tutt’oggi non è dato sapere se veramente questo She Who Dwells In The Secret Place Of The Most High Shall Abide Under The Shadow Of The Almighty – sì, il titolo dell’album è leggermente lungo… – sarà veramente il disco di addio della cantante irlandese più nota al mondo, ma se anche così fosse, si potrebbe concludere che questa fatica finale sia all’altezza di tanto luminosa carriera…

Personalmente, a dire il vero, avremmo qualche dubbio in proposito: a ben ricordare, è sin dai primi anni Novanta che si susseguono gli annunci di un ritiro professionale della O’Connor, inframmezzati tra l’altro anche da violente azioni provocatorie (molti ricorderanno la puntata di “Saturday Night Live” in cui la cantante strappò una foto del Papa…).

Ora, la pubblicazione di She Who Dwells… viene lanciata come una sorta di testamento musicale: bene, se è veramente così, è un vero peccato, proprio perché questo presunto ritiro arriva forse in uno dei momenti migliori della cantante irlandese, che dopo una buona decina d’anni di indecisione – e di confusione – artistica, proprio lo scorso anno aveva concretizzato una svolta professionale dettata dalla voglia di onestà e di ritorno alle origini: parliamo dello splendido Sean Nós Nua, presentato solo alcuni mesi fa sulla nostra rivista. Il richiamo della tradizione irlandese prendeva finalmente il sopravvento, e la O’Connor dichiarava nelle interviste che si trattava di un album tra i più “sinceri” che avesse mai interpretato, con canzoni che sognava di incidere da sempre, e che una certa produzione discografica, molto dubbiosa sulla remuneratività di una tale operazione, non aveva fino ad allora visto di buon occhio.

A meno di un anno di distanza, eccoci quindi in presenza di questo canto del cigno, quanto mai generoso, in realtà: due CD, trentadue brani per quasi due ore e mezzo di musica.

I due dischi che compongono She Who Dwells… sono molto differenti: il primo disco è una raccolta di diciannove “rarities”, che spaziano da collaborazioni elettroniche con Massive Attack e con Asian Dub Foundation a cover di brani resi famosi da Aretha Franklin, Gram Parsons, Abba e B-52.

La cosa tuttavia che stupisce maggiormente, in questo primo disco, sono le prime due track, “Regina Caeli” e “O Filii et Filiae” due inni sacri con testo in latino.

È comunque il secondo CD che sarà di sicuro di maggiore interesse per i lettori della nostra testata. Si tratta infatti della registrazione live di un concerto tenuto da O’Connor e la sua band nel 2002 al Vicar Street Theatre di Dublino, in occasione del lancio di Sean Nós Nua: tredici brani in larga parte all’insegna dell’Irish traditional, più alcune splendide versioni di canzoni famose come “Nothing Compares 2 U” e “Fire On Babylon”.

Naturalmente è proprio al CD 2 che ci siamo rivolti per presentare She Who Dwells…ai lettori di “Keltika”, e abbiamo scelto la scoppiettante “Óro, Se Do Bheatha ‘Bhaile”, questa volta in una inconsueta, gustosissima versione reggae.

Noi non sappiamo se veramente si tratti dell’ultimo disco di Sinéad O’Connor: sinceramente, anche alla luce di quanto ascoltato in Sean Nós Nua e in questo She Who Dwells…, speriamo proprio di no. E siamo assolutamente certi che siano in molti a pensarla come noi.

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