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Già in alcune occasioni ci è capitato, nei recenti numeri di “Keltika”, di fare la conoscenza con alcuni musicisti irlandesi che, per le ragioni più disparate, si sono trovati a vivere in nazioni europee lontane – culturalmente parlando – dall’humus musicale dell’isola di smeraldo. In tutti questi casi (pensiamo ad esempio agli Shantalla in Belgio e alla “francese” Gillie MacPherson, ma il discorso potrebbe allargarsi anche ai tanti musicisti irlandesi che si sono stabiliti in Germania) abbiamo potuto osservare come la lontananza dalla patria non avesse per nulla minato un rapporto con la musica della propria terra assolutamente intimo e avvolgente. Per di più, la frequentazione con differenti culture musicali porta spesso questi musicisti a risultati ancora più interessanti, laddove – ovviamente – sia presente il filtro della sensibilità e dell’intelligenza artistica. Questo discorso si applica ancora una volta, se possibile con esiti ancor più gradevoli, con “l’italiana” Kay McCarthy, cantante e musicista originaria di Dublino ma ormai romana di adozione, da oltre venti anni splendida divulgatrice nel nostro Paese della migliore tradizione musicale irlandese. Gli esordi romani della McCarthy ci riportano agli anni Settanta, al Folkstudio di Roma, un periodo in cui la passione per l’Irish traditional music era in Italia un fenomeno veramente elitario. Il suo debutto discografico risale al 1978 con l’album Róisín Dubh, inciso per la Fonit Cetra. Alcuni anni dopo (1982) Kay è in tour con i Chieftains, e l’anno successivo viene pubblicato il secondo disco, Stormy Monday, questa volta per la RCA International. Nel corso degli anni i tour si susseguono, in Italia ma anche all’estero, insieme alla partecipazione a svariati festival e manifestazioni specializzate, oltre che a trasmissioni radio-televisive. Si dovrà attendere tuttavia il 1995 per il terzo album della McCarthy, Arís, pubblicato dalla Helikonia Rec. di Roma. Il sodalizio con questa casa discografica, che dura ancora oggi, porta l’anno successivo all’uscita di Níl Sé ’na Lá, che riscuote un buon successo di pubblico e critica, e di cui vengono vendute 80.000 copie, allegate a una rivista. Il successivo Fadó, Fadó (Helikonia Discografica, 1998) è per molti versi il vero punto di svolta della cantante irlandese, che affianca sempre più spesso – e con eccellenti risultati – le proprie composizioni ai brani della tradizione irlandese. Si apprezza anche un certo gusto “mediterraneo” in queste registrazioni, difficilmente definibile ma ben captabile dal punto di vista della sonorità complessiva. Giungiamo così al più recente album, AM, pubblicato nel novembre del 2000 dalla Helikonia e distribuito da “Storiedinote”, di cui ospitiamo due brani su questo numero di “Keltika”. Dopo tanti anni in Italia, cosa ha assimilato del nostro modo di vivere? “L’Italia mi ha dato molto. Si imparano molte cose nella vita: dalla madre, dalla famiglia, a scuola, dagli amici, dall’amato. Per me l’Irlanda è la madre, l’Italia la persona amata. Non mi è stato difficile inserirmi qui e sentirmi “italiana”…per quanto una persona nata altrove possa mai acquisire una seconda cultura! Mi sono sentita presto a casa mia; mi sono abituata al clima metereologico, gastronomico (!) e culturale senza nessuno sforzo. Conoscevo già l'italiano, un fatto che credo mi abbia facilitato molto l'inserimento. Inoltre, venendo qui, ero fermamente determinata a conoscere e fare mia la cultura del “paese d'adozione”. È stato facile, entusiasmante. Ho avuto difficoltà con la vita d’appartamento (alla quale non mi sono ancora abituata), la burocrazia pazzesca, il traffico, l’incapacità – tipica degli italiani – di rispettare l’ordine degli interventi durante una discussione. Grazie al lavoro musicale ho girato l’Italia in lungo e in largo, e quindi conosco abbastanza bene le varie regioni del Paese. Qui ho continuato la mia educazione etico-politica, iniziata con il mio professore d’italiano all'università di Galway, Ottavio Di Fidio. Frequentando i suoi amici qui a Roma ho allargato i miei orizzonti culturali e politici, e ho anche conosciuto mio marito, Piero. L’Italia mi ha dato la mia vera educazione. Qui ho acquisito una coscienza internazionalista e ho abbandonato le angustie della visione nazionalista che qualche volta soffoca l’anima irlandese. Rimango profondamente irlandese, amo il mio paese e gli sarò eternamente grata per le immense ricchezze culturali che ho ereditato; come tutti gli irlandesi sono stata plasmata in una “creta culturale” che conserva molti echi della tradizione gaelica. Nell’Irlanda della mia fanciullezza si viveva in una comunità molto chiusa e per certi versi involuta. Ho lasciato l’Irlanda per prenderne, “Joyceanamente”, le distanze, per maturare sia come persona che come artista; quando si è troppo immersi in un contesto è difficile resistere alle pressioni locali, familiari e della comunità in cui si vive, specialmente se si sceglie il “libero pensiero”. Il fatto di vivere in un'altra nazione influenza in qualche modo la sua musica? “Certamente. Prima di venire in Italia avevo, naturalmente, una vita artistica alle spalle: avevo studiato musica, canto e recitazione, mi ero esibita; avevo vinto dei premi nazionali. Qui ho continuato a studiare, e la tecnica canora che ho appreso qui a Roma dalla mia insegnante, Letizia Indiati, mi è stata vitale. La tecnica in sé è una cosa arida, ma associata alla fantasia e alla creatività permette di esprimersi meglio. I miei insegnanti di canto, sia in Irlanda che poi in Italia, avrebbero voluto che io cantassi musica da camera ma io non volevo, per me e per la mia visione del canto, una voce “in maschera”. Qui, in Italia, ho sempre avuto musicisti italiani, come i ragazzi che mi accompagnano ora: Susanna Valloni (flauto), Cristiano Brunella (violino) Stefano Diotallevi (pianista e compositore), Luigi Pignatiello (chitarrista e compositore) Piero Ricciardi (bodhràn e cnàmha)…con i loro sostituti Fabrizio Bono (violino), Ida Natale (flauto), Gaia Possenti (pianoforte e tastiera) e Anna Maria Pignatiello (chitarra). L'interazione tra noi produce una “fusione” naturale, che ci da un sound originale, che piace sia qui che all'estero. Più in generale, si sente in certa misura una "Paddy"? “No. Bisogna infatti precisare che “Paddy” era l'infelice epiteto con cui gli inglesi si rivolgevano con disprezzo ai poveri emigranti irlandesi che venivano in Inghilterra a fare i lavori umilissimi che gli inglesi rifiutavano.” C'è indubbiamente un grande rispetto reciproco tra irlandesi e italiani, una specie di innamoramento tra i nostri due popoli… “Gli inglesi dicono che gli irlandesi sono “i napoletani del nord”, e noi ne siamo davvero orgogliosi; siamo i più “mediterranei” dei popoli nordici. Secondo la tradizione celtica i gaelici sono approdati in Irlanda venendo direttamente dalla Spagna via mare. Credo che il fatto che entrambi i paesi siano cattolici produce un humus dove l'empatia cresce bene.” Il pubblico italiano: lo vede cambiare nel corso degli anni, per quanto riguarda la risposta alla sua musica? “Quando abbiamo cominciato il pubblico era d’élite, pochi conoscitori e appassionati molto esigenti, preparati e discernenti, un po’ come il pubblico del cinema d’essai. Il grande pubblico non conosceva dell'Irlanda che la storia incomprensibile della “guerra tra protestanti e cattolici” dell'Irlanda del Nord. Il pubblico dei primi tempi al Folkstudio era entusiasta e seguiva i concerti con grande partecipazione, e dopo veniva in camerino per discutere le proprie idee con me, scambiare delle informazioni, fare delle domande. Poi ho suggerito a Giancarlo Cesaroni del Folkstudio di allargare i suoi orizzonti “celtici”, e così decise di invitare i Chieftains in Italia (al teatro Tenda a Strisce di Roma), e poi di organizzare il Primo Festival di Musica Celtica a Villa Pamphili durante l'Estate Romana. Fu un successone. Seguì la prima ondata della musica celtica in Italia. Oggi siamo alla seconda, forse la terza ondata. La risposta del pubblico ai concerti di oggi è altrettanto entusiasta e calorosa, solo che i numeri sono aumentati. Non suoniamo più solo per gli intellettuali. Adesso il pubblico è davvero “trasversale”…vengono tutti, bambini, nonni, informati, curiosi…è una vera soddisfazione artistica.” Più in generale, cosa pensa del crescente interesse nei confronti del celtismo, cui si può assistere oggi in Italia? “Sono sempre molto guardinga quando si tratta di “ismi”. Detesto le mistificazioni e i falsi profeti. Ci sono delle persone che si interessano alla storia e alla cultura dei celti in maniera seria e scientifica, ma ci sono molti (troppi) ciarlatani, neo-druidi improvvisati e peggio!” Se non erro, ha anche al suo attivo una grammatica di lingua gaelica... “Sì, due anni fa, insieme ad una mia alunna di lingua gaelica, Anna Fattovich, ho pubblicato una “Grammatica e Dizionario della lingua gaelica d'Irlanda”. Come è cambiata la sua musica in tutti questi anni di attività? “Spero di essere migliorata. Mi dicono che la mia voce è “come il vino”, migliora con il tempo! Di questi tempi, insieme alla tradizione, presentiamo un numero sempre crescente di brani nostri. Ci dicono anche che siamo più sofisticati per quanto concerne gli arrangiamenti e l’esecuzione. È difficile giudicarsi da sé. Oggi, oltre all’Irlanda di ieri, vogliamo rappresentare il mondo di oggi, specialmente nei testi delle nuove canzoni. Comunque, l'importante è fare musica e cercare di farla bene: per la musica stessa, per il piacere di suonare e cantare, per la voglia di comunicare. Ci vogliamo mettere in contatto con l'ascoltatore e lasciargli qualcosa da portare con sé dopo il concerto.” Quali sono (se ve ne sono) i cantanti e i musicisti più importanti per quanto riguarda le sue influenze musicali? “Mia nonna e i miei insegnanti di musica irlandesi. E come ho detto prima, i miei musicisti…quelli di oggi e tutti quelli che hanno collaborato con me in questi anni. Più in generale, la musica tradizionale che ho “respirato” fin da bambina, la musica sacra (specialmente il canto gregoriano), medievale e barocca. La musica mi interessa e mi affascina sotto qualunque forma, ma la mia anima rimane fondamentalmente modale!” Se dovesse scegliere i momenti più importanti della sua carriera? “Non saprei...La vita e la carriera sono inseparabili. Le tappe della vita e della carriera si confondono in un “film” privato e pubblico caratterizzato dai canti della nonna materna, dalle lezioni di musica presso le suore irlandesi, dall'incontro con Antonio G. Sanna e Rosalba Mereu, due amici sardi che mi hanno incoraggiato a diventare cantante professionista, dall'incontro con Giancarlo Cesaroni, con le conseguenti prime esibizioni presso il suo Folkstudio di Roma e la produzione del primo L.P Róisín Dubh, dal management di Pino Tuccimei che curò la produzione dell'LP Stormy Lullaby su etichetta RCA International, dai CD di Helikonia, una piccola casa di produzione indipendente con la quale abbiamo fatto cinque CD , incluso AM. . . Ecco, appunto, come vede AM nel contesto della sua esperienza musicale? “I dischi sono un po’ come i “personaggi in cerca di autore”. Dopo un po’ che ci si lavora, prendono vita, impongono la loro personalità. Così è stato con AM. L’avevamo concepito in una certa maniera, ma durante il work-in-progress si è plasmato da solo, per modo di dire. Avrebbe dovuto essere un album dove la tradizione e le composizioni originali si alternavano equamente. Alla fine sono prevalse le composizioni, dando vita ad un disco diverso dai precedenti, il che non ci dispiace. Ci volevamo esprimere in note e a parole, e l’abbiamo fatto. Non si può proporre solo i temi del passato, bisogna parlare dell’oggi. Abbiamo affrontato le questioni della giustizia (“Cibé treise lámh”), della crisi delle idee (“Laethanta na Ciúine”), dell’inquinamento, anche se in senso lato (in “Am” e in “Laethanta na Ciúine”) della forza della natura (“Am”), dell’amore, un tema sempre attuale (“Break of Day”), e infine della guerra, anche essa di nefasta attualità (“Pléascáin Glice”).” Sono proprio i due ultimi da lei citati, i brani che presentano AM ai lettori di “Keltika”… “In “Break of Day” la musica è di Stefano Diotallevi, le parole mie. Il testo, in lingua inglese, vuole presentare i sogni dell’innamorato, un decalogo delle attese: dall’eternità del rapporto d’amore alla dolcezza della condivisione della vita di tutti i giorni, specialmente il risveglio nello stesso letto ogni alba. Il motivo danzabile vuole esprimere questa felicità. “Pléascáin Glice”, cioè “bombe intelligenti”, è stata invece composta all’epoca della guerra nel Kosovo. Non c’è mai stato un momento senza guerra in tutta la storia del genere umano. Le guerre portano sofferenze e dolore, e innescano una catena di violenza senza fine. Quando penso alle guerre – ne è scoppiata un’altra proprio oggi, 20 marzo 2003, mentre rispondo a queste sue domande (l’operazione Iraqi freedom, n.d.r.) – penso sopratutto ai bambini. Questa ninna-nanna si rivolge ai figli dei piloti dei bombardieri perché sappiano cosa fanno i loro padri quando partono per l’estero con la promessa di portare un bel regalino quando rientrano. Esorta i bambini, una volta cresciuti, a non seguire le orme dei padri.” Programmi futuri? “Ora stiamo lavorando su un nuovo album. Lo volevo chiamare Rhymes and Reasons, ma dopo una “navigata” su Internet, ho scoperto che esiste già un album dallo stesso titolo. Bisogna trovarne un altro. Nell’attesa è uscito un altro CD, una ristampa: all’inizio di gennaio 2003 la rivista bimensile World Music (n.58) ha infatti fatto dono ai propri lettori della riedizione su CD dell’L.P. Stormy Lullaby insieme a un articolo sulla genesi dell’album. Non si trova più in edicola ma si può richiedere (con la rivista) durante i prossimi concerti, oppure a info@kaymccarthy.it o alla World Music di Torino stessa.” AM è un album veramente affascinante, i cui punti di forza sono la varietà delle tematiche affrontate e la sonorità complessiva: non il solito disco di musica irlandese, caratterizzato dalla consueta serie di brani tradizionali (peraltro presenti con “The Skye Boat Song”, “Waly, Waly or False Love” e “The Ballinure Ballad”) ma un album ricco di composizioni originali che ci testimoniano la sensibilità artistica della McCarthy e dei suoi accompagnatori (splendide le orchestrazioni!). La luminosa voce di Kay è una miniera di sensazioni, perfettamente a suo agio anche quando si spinge a cantare (oltre che in gaelico, of course…) in francese e in italiano, o quando si avventura nell’esilarante, finale “Kerry Bog…Fake”, divertentissimo esempio di disco-irish music (ci si passi il neologismo…). Kay McCarthy è raggiungibile all’url www.kaymccarthy.it ; per concerti può essere contattato Piero Ricciardi, ai numeri di telefono 06-7004756 e 335-6863514; il sito web della Helikonia Discografica è www.helikonia.com
Intervista di Alfredo De Pietra
“Pléascáin glice” (words & music Kay McCarthy)
Dún do shúil, a ghrá 's a chroí, tá an
madra rua ina luí,
Bombe intelligenti (parole e musica Kay McCarthy)
Ogni essere umano può sentire l’esigenza, in determinati periodi della propria esistenza, di fermarsi a fare il punto della propria situazione. La vita di ciascuno di noi è infatti una singolare, e per molti versi oscura, miscela di passato e presente, di esperienze ancestrali e quotidiane. In un certo senso siamo anche i nostri progenitori e i nostri discendenti, e i contatti con il mondo esterno interagiscono con le nostre memorie in modo imprevedibile e affascinante. L’ultimo album di Kay McCarthy si chiama Ríanta. In gaelico, un termine carico di significati: è il plurale di “Rían”, e significa tracce, segni, percorsi, cammini, piste, vie, orme… Si tratta di un disco importante, nel quadro dell’ormai più che ventennale carriera dell’artista dublinese, italiana di adozione: in esso McCarthy passa in rassegna il proprio percorso artistico, mostrandoci le tracce lasciate in lei dalle molteplici esperienze nel campo della musica tradizionale irlandese, ma indicando in modo chiaro anche i segni della strada ancora da percorrere… Ríanta, appunto! La McCarthy è musicista di valore assoluto e dalla grande forza comunicativa, come può facilmente testimoniare chi assiste agli spettacoli della sua band, ma è anche – e soprattutto – un’artista caratterizzata da una fertile creatività: invece di rifugiarsi nella comoda, tranquillizzante routine dell’Irish traditional (genere in cui pure – ovviamente – McCarthy eccelle), eccoci in presenza di un album quasi interamente composto da brani originali. Lo spirito rimane fermamente ancorato alla tradizione irlandese, certo, ma la cantante mostra di voler andare ben al di là di essa. La musicista dublinese ha ormai completamente assimilato “le tracce” della musica tradizionale dell’isola di Smeraldo, rimodellandole tuttavia alla luce delle proprie esperienze e della propria visione della musica e della realtà: non è un caso se McCarthy non perde occasione di ribadire quanto importanti per la sua crescita e per il suo stile musicale siano stati proprio i musicisti, compositori e arrangiatori italiani che accompagnano le sue esperienze artistiche ormai da anni. È quindi naturale che con Ríanta Kay McCarthy ci presenti un album assolutamente intenso e personale, dai testi (tutti originali, ad eccezione di due soli brani tradizionali) alle melodie, che colpiscono per impatto emotivo e cura degli arrangiamenti. Un discorso a parte (solo apparentemente, in verità) va fatto per la canzone “Gentle Little Lady”, scritta dal compositore romano Carlo Stoppoloni, e dedicata a Madre Teresa di Calcutta: una dimostrazione della polivalenza della voce di Kay, perfettamente a proprio agio anche in un ambito musicale per molti versi differente dalle sue esperienze precedenti. Ma d’altra parte, conoscendo la versatilità della McCarthy, non c’è poi da stupirsi più di tanto… Kay, come mai un disco come Rianta proprio a questo punto della sua carriera? “Intende come titolo o come album in sé? Come titolo stavo cercando una parola semplice ma ricca di significati, che risultasse facile da ricordare e pronunciare anche per chi non conosce il gaelico; e naturalmente un titolo che non fosse stata già usato prima. Mi sono messa a cercare su Google, in internet, e ho constatato solo l’esistenza di migliaia di pagine web che parlavano di “Aer Rianta” e nulla più. Rianta, il plurale di Rian, ha molti significati: orme, tracce, segni, percorsi…tutti perfettamente calzanti! Si potrebbe scrivere una tesi sulle implicazioni artistiche e filosofiche di questo termine. Nel caso specifico abbiamo semplicemente scelto una dozzina di brani originali, semi-originali e tradizionali che ci sembrava rappresentassero alcuni dei frammenti più significativi della nostra vita e della nostra carriera musicale. Per sottolineare in modo tangibile l’idea delle tracce, dei segnali abbiamo anche lasciato il suono delle dita che scivolano sulle corde di una chitarra, e quello delle labbra che si aprono, accostate a un microfono molto sensibile. Come mai Rianta a questo punto della mia carriera? Perché ogni tanto la gente si ferma a fare il punto sulla propria vita, a pensare al punto in cui si è arrivati, alla direzione che la propria esistenza sta prendendo…Per me Rianta rappresenta una specie di spartiacque.” In cosa Rianta si differenzia rispetto alla sua precedente produzione? “Speriamo che sia un disco migliore del precedente, ma che il prossimo sia ancora migliore! È differente, penso, nel senso che abbiamo lavorato maggiormente su materiale originale che su pezzi tradizionali. In Rianta si parla di presente e di futuro, più che del passato, i testi trattano di argomenti globali e l’ottica è meno ristretta; metà dei testi è in lingua irlandese. Inoltre abbiamo invitato a collaborare alla scrittura e all’orchestrazione alcuni nostri amici compositori, e infine è la prima volta che qualcun’altro canta insieme a me in un mio CD. Una cosa di Rianta cui tengo in modo particolare è la grafica della copertina, una vera opera d’arte. È la prima volta che abbiamo un distributore al di fuori dell’Italia, ovvero per l’Europa continentale; e attualmente la produzione sta cercando una distribuzione anche per l’Europa insulare e il resto del mondo. Naturalmente i testi del booklet dovranno essere adattati per il pubblico internazionale. Le versioni attuali sono previste per il pubblico italiano e per quello tedesco.” Rianta lascia prevedere un qualche particolare sviluppo, una particolare direzione per la sua musica? “Rianta significa anche “percorsi”, e ogni CD porta all’album successivo: il precedente Am ha portato a Rianta, e quest’ultimo porterà a…Comunque la tendenza è allargare gli orizzonti senza perdere l’essenza irlandese della nostra musica.” Qualcosa a proposito di “Gentle Little Lady”… “Per la prima volta ho cantato qualcosa che non avevo scelto io: tutto quello che ho fatto è stato scrivere il testo inglese sulla base di un’idea in lingua italiana, e cantare la canzone in un modo che normalmente non uso. La cosa importante è stata essere invitata a cantare questa canzone alla Sala Nervi, l’auditorium del Vaticano, in un concerto – registrato per la televisione – per celebrare la beatificazione di Madre Teresa, lo scorso ottobre. Un’esperienza del tutto nuova, per me, e una sorta di bonus track sul CD. L’unico legame con l’Irlanda è nel fatto che Madre Teresa entrò in un Ordine di suore irlandesi, che la mandò in India, e che io canto questa canzone che parla di lei: ancora una volta, tracce, frammenti, impronte…” Presentiamo Rianta con due brani sulla nostra compilation mensile: la lirica, tradizionale song irlandese “Mo Ghile Mear”, e l’affascinante e trascinante “Noralaí”. Rianta è una produzione Helikonia (www.helikonia.com) distribuita da Storiedinote Suonimusic (www.storiedinote.com). Il sito web di Kay McCarthy è all’url http://www.kaymccarthy.it/
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