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John Renbourn
“Vediamo un po’…potremmo mettere sulla vostra compilation un brano tratto da Traveller’s Prayer…a meno che…visto che Keltika è un giornale italiano, e lei mi intervista da Palermo…ci sarebbe un mio brano inedito, si chiama “Palermo Snow”…” …e noi quasi non ci credevamo, e per un attimo abbiamo anche pensato che il buon John stesse solo scherzando. E invece no. Il brano dedicato a Palermo, il più famoso chitarrista acustico del dopoguerra, il padre del British style, l’aveva composto davvero, e per di più ce lo offriva con entusiasmo, naturalezza e spontaneità, da quel gran gentiluomo che il chitarrista londinese ha sempre mostrato di essere. Ad essere precisi, “Palermo Snow” era già stato pubblicato nel 2000 dalla Mel Bay in una raccolta di brani per solo chitarra (CD con allegata intavolatura e spartito) denominata 2000 Fingerpicking, ma con il nome errato: l’originale e aneddotico “Palermo Snow” – vedremo dopo il motivo di questo titolo – era diventato il molto più banale “Palermo Show”, ovvero “spettacolo a Palermo”. John in realtà teneva a correggere questo errore, e a questo scopo ci ha spedito la sua copia di 2000 Fingerpicking. Il tutto, ovviamente, accompagnato da una lunga e dettagliata intervista che passa in rassegna la pluridecennale carriera di questo grande della chitarra. John Renbourn nasce a Londra nel 1944. Sua madre era una pianista classica dilettante, ed il piano serviva in quegli anni di fine guerra anche da rudimentale rifugio durante i bombardamenti tedeschi. Il suo primo maestro di musica, durante gli anni scolastici, si chiama John Webber, e lo spinge all’ascolto della musica medievale. Sempre durante i primi anni scolastici Renbourn intraprende lo studio della chitarra classica, studio che tutt’oggi lo stesso Renbourn sottolinea come fondamentale per l’evoluzione di tutta la sua carriera successiva. Durante gli anni dell’adolescenza (siamo alla fine degli anni ’50) Renbourn rimane colpito sia dalla moda dello skiffle (genere musicale che impazza nell’Inghilterra di quel periodo, e che consiste in un’amalgama di blues, bluegrass e folk americano), sia dai grandi chitarristi blues americani (Leadbelly, Big Bill Broonzy, Josh White). Il giovane John abbandona la scuola e comincia a girare per l’Inghilterra, andando a vivere in un barcone ancorato lungo il Tamigi. Agli inizi degli anni ’60 Renbourn si iscrive al Kingston College of Art, frequentato tra gli altri anche da musicisti come gli Yardbirds, Eric Clapton e Sandy Denny. Il Rhythm’n’blues prende il posto dello skiffle, e anche questa esperienza, sia pure per un breve periodo, diventa parte del patrimonio musicale del giovane John, che in seguito ritorna a Londra. Durante alcune esibizioni al Roundhouse di Soho, John conosce la cantante blues e gospel americana Dorris Henderson, con cui incide due LPs. Iniziano le prime apparizioni televisive, durante le quali John incontra il bassista Danny Thompson ed il batterista Terry Cox, entrambi futuri Pentangle, e all’epoca nel gruppo di Alexis Korner. Sempre in quel periodo (1963-64) Renbourn si imbatte in Bert Jansch; tra i due nasce un buon feeling musicale e personale, che li porterà ad una lunga serie di esibizioni in duo. Entrambi sono, tra l’altro, fans accaniti di Davey Graham, che in quel periodo suona con Alexis Korner, diventando popolarissimo con la sua “Anji”. Inizia l’interesse di qualche etichetta discografica per il cosiddetto British Folk: il duo Renbourn-Jansch registra per la Transatlantic Records il famoso Bert and John. Sempre in quel periodo inizia il connubio artistico con la cantante Jacqui McShee, specializzata, oltre che in folk americano, anche nelle canzoni tradizionali britanniche, il che spinge John ad approfondire gli approcci chitarristici di Davey Graham ed a rielaborare le proprie prime esperienze in tema di musica medievale. L’unione artistica tra John, Bert e Jacqui diventa sempre più stretta, cementata da decine e decine di concerti nei club di Londra, come il leggendario Les Cousins di Greek Street. In uno di questi concerti, in comune con il gruppo di Korner, viene chiesto a Danny Thompson ed a Terry Cox di unirsi a John, Bert e Jacqui: è la nascita dei Pentangle. Il nome del gruppo proviene dallo stemma presente sullo scudo di Sir Gawain, nella storia del Cavaliere Verde. La musica del gruppo risente delle varie esperienze dei cinque componenti, con un largo spazio per l’improvvisazione. Il primo disco, The Pentangle, è distribuito in America dalla Warner Bros. Nel 1968 il gruppo va in tour negli States, suonando anche alla Carnegie Hall, al Newport Folk Festival ed ai due Fillmore, East e West, insieme a mostri sacri del pop come James Taylor ed i Grateful Dead. Negli anni a cavallo tra i ’60 ed i ’70 i Pentangle sono molto attivi in sala d’incisione. L’ultimo album del gruppo è Solomon’s Seal, a detta di Renbourn il migliore del gruppo in assoluto. In quegli anni il cosiddetto folk revival conquista la Gran Bretagna ed in seguito l’Europa, e la chitarra diventa, per svariate ragioni, lo strumento simbolo di quel periodo. Anche per questi motivi John pubblica alcuni libri per chitarra, relativi ai suoi brani, e si dedica ad alcuni album in cui la chitarra gioca un ruolo fondamentale (The Hermit, Black Balloon e Nine Maidens). Nello stesso periodo John inizia a suonare con Stefan Grossman, con cui registra due album in studio ed un doppio live. Una compilation di questi duetti, Keeper of the Vine, è stata di recente ripubblicata dalla Shanachie Records. Successivamente John si dedica in misura maggiore alla musica tradizionale suonando con Tony Roberts, Jacqui McShee, Sue Draheim ed il percussionista indiano Keshav Sathe. Questa è la formazione (curiosamente senza nome: il nome The John Renbourn Group viene imposto dalla casa discografica) che incide i due LP A Maid in Bedlam e Enchanted Garden, oltre al Live in America che ottiene una nomination per i Grammy, per la categoria Folk Music. Agli inizi degli anni ’80 John sente il bisogno di tornare a studiare musica, e pertanto frequenta per tre anni il rinomato Dartington Music College (nel Devon), uscendone con un diploma di composizione ed orchestrazione, ma soprattutto, per sua stessa ammissione, con una profonda conoscenza di molti generi musicali a lui sino allora poco familiari, il che influenza (sempre stando a dichiarazioni dello stesso Renbourn) il suo successivo approccio alla musica: John sostiene infatti che attualmente predilige la composizione (per gruppi vocali e strumentali) di brani in cui la chitarra può anche essere assente, e anche al di fuori dell’ambito del folk. Tornando alla storia, nel 1987 John suona insieme a Maggie Boyle, Steve Tilston e Tony Roberts al Central Park di New York, e da quell’esperienza scaturisce il CD Ship of Fools, per l’etichetta Flying Fish. Altre esperienze di quegli anni, con Archie Fisher ed Isaac Guillory, non hanno portato a riscontri discografici, a differenza della collaborazione con il suo vecchio amico Robin Williamson: è il CD Wheel of Fortune, che ancora una volta ottiene una nomination per il Grammy. Anche questa volta purtroppo John non riesce a vincere il Grammy in questione (a tal proposito John afferma scherzando che chiamerà il suo prossimo gruppo “John Renbourn and the Grammy Losers”, ovvero “John Renbourn e gli sconfitti del premio Grammy”…). Questi ultimi anni hanno visto una certa stasi nella produzione discografica di John Renbourn, per sua stessa ammissione, non a causa di mancanza di materiale o per scarso interesse da parte dell’industria discografica: stando a Renbourn il problema è anche come presentare il nuovo materiale, dal momento che le sue idee musicali sono oggi molto diverse dagli anni del folk revival. Attualmente John è sotto contratto per cinque CD con la Shanachie dal 1997. Il primo di questi CD, pubblicato nella primavera del 1999, è l’ottimo “Traveller’s Prayer”, ricco di brani di musica tradizionale irlandese. John, se lei è d’accordo vorrei passare in rassegna le varie “fasi” della sua carriera artistica. Prendendo in esame le varie situazioni musicali in cui si è imbattuto in questi decenni, vorrei un pensiero, una considerazione per ciascuna di queste realtà. Inizierei dalla sua adolescenza, quando lei iniziò gli studi di chitarra classica. Rimane qualcosa di quegli studi, di quell’approccio classico? “I miei studi classici si limitarono, come spesso avviene, all’armonia e al contrappunto. Presi anche lezioni di chitarra classica, ma solo successivamente. In fondo sia l’armonia che il contrappunto rappresentano il punto di partenza per poter sviluppare un qualsiasi arrangiamento musicale; le lezioni di chitarra classica mi hanno dato invece la tecnica strumentale di base.” Musica medievale, skiffle, blues, folk americano, rhythm’n’blues, musica folk inglese, musica celtica: nel corso degli anni lei si è interessato a tutti questi generi musicali. Ma è stato un lungo processo evolutivo che l’ha portata a sperimentare in tutti questi àmbiti musicali, o coltivava tutte queste forme musicali sin dai suoi anni giovanili? “Tutti i vari tipi di musica da lei citati sono stati per me fondamentali, e tutto avvenne in un periodo di tempo abbastanza limitato. Nel 1957-58 lo skiffle era molto popolare, ed all’epoca avevo 14 anni. Lo skiffle mi ha portato direttamente a fare conoscenza con il blues, il folk americano e il rhythm’n’blues: gli stessi ragazzini che facevano parte dei gruppi di skiffle, dopo pochi anni li potevi ritrovare tutti a suonare nelle band di rhythm’n’blues. Lo stesso Alexis Korner all’inizio suonava skiffle, e fu uno dei primi a formare una band “elettrica” in Inghilterra. E fu proprio Alexis a incoraggiare alla musica, tra gli altri, l’allora giovanissimo Davey Graham. Sempre durante gli anni dello skiffle arrivò in Inghilterra la fama di molti chitarristi acustici americani: Big Bill Broonzy, Josh White, Jessie Fuller, Brownie McGee e Rambling Jack Elliot: tutti questi musicisti ebbero un grande impatto sui chitarristi inglesi. Feci conoscenza con la musica medievale negli anni della scuola: il mio insegnante di musica era un appassionato di musica medievale, e gli piaceva parlarne e suonarla, anche se non faceva parte del curriculum scolastico, e a dire il vero questo genere non era per nulla popolare, a quei tempi. Il revival del folk inglese iniziò poco tempo dopo, in parte anche come conseguenza del successo dello skiffle. La gente cantava le canzoni tradizionali nei club e nei retrobottega dei pub. I giovani chitarristi cercavano disperatamente di partecipare a questo revival di musica tradizionale, ma gli appassionati di musica folk li respingevano per una serie di motivi, spesso del tutto privi di senso. Comunque grazie al folk revival era finalmente possibile ascoltare molte belle canzoni del passato, e anche alcuni brani strumentali. Il termine “musica celtica” infine fece la sua comparsa solo molto tempo dopo, o per lo meno non ricordo assolutamente di averlo sentito, a quei tempi. E fin dall’inizio apparve come un termine suggerito dal marketing discografico…” Scusi, ci può spiegare meglio il senso di ciò che ha appena detto? Perché i chitarristi avevano queste “difficoltà”? In che senso il “popolo del folk” non li accettava, li emarginava? “I revivalisti inglesi pretendevano che le canzoni della tradizione fossero eseguite nel modo che essi intendevano come “tradizionale”: in altri termini le canzoni dovevano essere cantate senza alcun accompagnamento. Non arrivavano a capire che la maggior parte dei vecchi cantanti non possedevano alcuno strumento, e che se solo fossero stati capaci di suonare avrebbero fatto uso di un accompagnamento con grande piacere ed entusiasmo. Solo alcuni strumenti, come le bone e gli spoon, erano consentiti, perché considerati “della tradizione”, ma tutti gli altri erano quasi banditi. E la chitarra era considerata il peggiore degli strumenti musicali, sia perché non era uno strumento “inglese”, sia perché la chitarra era associata al mondo della pop music e infine perché in genere i giovani chitarristi portavano i capelli lunghi e spesso andavano vestiti in modo pittoresco, eccentrico… Lo so, Alfredo, oggi tutto ciò può sembrare assurdo, quasi incredibile, ma le assicuro che era quello il clima che si respirava agli inizi degli anni ’60. Addirittura molti giovani chitarristi, per fuggire da questo stato di cose, iniziarono a peregrinare per l’Europa, in genere verso il sud della Francia, se non oltre, e anche questo contribuì allo sviluppo di alcune nuove idee musicali. Ma il dispotismo dei “puristi” li tenne lontani dal circuito del folk revival ancora per molto tempo, e l’accompagnamento ad opera di un chitarrista poteva ascoltarsi solo in alcuni locali “alternativi” come ad esempio Les Cousins. Fortunatamente oggi la mentalità non è più così ristretta, in parte per un’evoluzione naturale, ma soprattutto grazie alle registrazioni di Davey Graham alla chitarra, che accompagnava la folk singer Shirley Collins. Ancora una volta, fu proprio Davey Graham a tracciare la strada…” Ecco, John, lei ha appena citato, per la seconda volta, la figura del grande Davey Graham. Si direbbe che lei nutra una grande ammirazione nei confronti di questo grande chitarrista… “Secondo me non si parlerà mai abbastanza dell’importanza di un artista come Davey Graham. Davey è stato presente in ogni momento evolutivo della musica di questi decenni, ed ha mostrato a tutti noi la strada da seguire. Le varie fasi del suo sviluppo artistico possono essere seguite sui suoi dischi, ma purtroppo le sue incisioni riescono a presentarci solo in piccola parte l’importanza e l’impatto della sua musica, specie dal vivo. A questo proposito vorrei segnalare ai lettori di Keltika che di recente è stato ripubblicato lo splendido disco di Davey Graham After Hours, registrato dal vivo nel 1965. Davey è ancora oggi in attività…Alfredo, se mi permette, non sarebbe una cattiva idea contattarlo e intervistarlo, tutti noi che suoniamo in qualche modo “Celtic guitar” riconosciamo in Davey il nostro faro, il più importante esempio e maestro. Senza Davey il mondo della Celtic guitar di certo non si sarebbe sviluppato in questo modo, e anzi arrivo anche a pensare che forse non sarebbe neppure nato…” John, riprendiamo con la sua carriera: che ci dice dell’esperienza in duo con Bert Jansch? Parliamo del 1963-64… “Bert scese una sera da un autobus proveniente da Edinburgo in compagnia di Robin Willamson, erano i primi anni sessanta. Ci incontrammo in uno dei pub/club dalle parti di Soho…non Les Cousins, no…non penso, perché a quei tempi ancora non era aperto…più probabilmente The Scots House, o Bunjies, o Ken Colyiers, o un posto del genere. Iniziammo a frequentare questi locali, insieme ad altri musicisti come Les Bridger, The Young Tradition, Beverley…anche a Bert piaceva molto la musica di Brownie McGee e di Davey Graham, e così iniziammo a suonare insieme. All’epoca entrambi ascoltavamo spesso gli LP di Alexis Korner e di Davey, e amavamo i pezzi di Graham, come “Anji” e “Train Blues”. Iniziammo ad incidere alcuni brani una sera, in un piccolo studio di registrazione in Denmark Street, di cui qualcuno si era procurato le chiavi. La piccola casa discografica indipendente Transatlantic acquistò quelle registrazioni semplicemente perché le vendemmo a un prezzo molto basso, e quello fu l’inizio… Quando Les Cousins aprì, io e Bert suonavamo spessissimo lì, e ciò portò all’idea di espandere le nostre idee chitarristiche nell’ambito di una band che comprendesse Danny Thompson e Terry Cox, che all’epoca suonavano con Alexis Korner.” Spesso capita, a chi non ha vissuto direttamente quelle esperienze, di pensare a quegli anni, a quei locali, come Les Cousins, un po’ come al Birdland ed agli anni di Miles Davis e John Coltrane per quanto riguarda l’epoca d’oro del jazz… “In un certo senso, sì…dalle parti di Soho fiorirono verso la merà degli anni ’60 alcuni locali alternativi. Come le ho già detto la maggior parte dei club di revival tradizionalista era inavvicinabile per noi chitarristi. Così il panorama della musica “alternativa” iniziò a comprendere i chitarristi di fingerpicking e di flatpicking, i blues singer ed i cantautori. Tutto era centrato intorno al club Les Cousins, situato al seminterrato di un ristorante in Greek Street. Erano molti i grandi musicisti che si esibivano lì: Sandy Bull, Spider John Koerner, Jackson C. Frank…era un periodo splendido per la creatività e per gli scambi di idee.” Gli anni dei Pentangle: cosa ha significato per lei il successo di quel periodo? “I Pentangle all’inizio erano semplicemente una band che si divertiva a fare jam session al Les Cousins. La Transatlantic all’inizio era molto scettica sull’opportunità di registrarci come gruppo: preferivano continuare con il duo Renbourn & Jansch. Così prendemmo un manager – o per meglio dire un manager iniziò a prendersi cura di noi – e iniziammo con i tour e le registrazioni. Il successo cui lei si riferisce, in realtà era per me un viaggiare senza soste, un’incredibile confusione di facce e di camere di hotel e un’infinita serie di scadenze, decise esclusivamente dal nostro manager. Lo vuole sapere? È stato un vero sollievo quando è finita…” Poi venne il John Renbourn Group. Personalmente ritengo A Maid In Bedlam uno dei migliori dischi che abbia mai ascoltato… “Quando l’esperienza con i Pentangle terminò, decisi che non mi sarei più fatto manipolare dalle leggi del business. Andai a vivere in campagna, e acquistai una vecchia fattoria…ma dopo breve tempo mi ritrovai a formare una nuova band, spinto anche dal fatto che il mio vecchio amico, e musicista, Tony Roberts era un mio vicino di casa. La musica che suonavamo era volutamente più “pastorale” e rilassata, rispetto a quella dei Pentangle, ed inoltre era bello poter suonare di nuovo insieme a Jacqui McShee, con cui i rapporti sono sempre stati ottimi, ancor prima dell’epoca-Pentangle. Sarebbe bello oggi tornare a lavorare in un contesto simile. Il vero problema è mettere insieme i musicisti e riuscire a organizzare il tutto.” Al John Renbourn Group fecero seguito i tuoi “guitar album”: The Hermit, The Black Balloon e Nine Maidens: qui probailmente l’influsso della musica celtica è più significativo… “Durante gli anni di attività con i Pentangle, continuando con quella serie infinita di tour, rimasi abbastanza al di fuori del mondo della chitarra acustica. Solo all’inizio degli anni ’70 mi resi conto del gran numero di ottimi chitarristi che nel frattempo erano “sbocciati” un po’ in tutto il mondo, e dell’importanza – in questo senso – del nostro cosiddetto British style. Decisi quindi di iniziare a lavorare su alcuni pezzi per chitarra, che potessero dare un qualche contributo in tal senso. The Hermit fu il primo album, e deve il suo nome al fatto che la casa discografica pensava che fossi diventato un eremita, vivendo in una fattoria in aperta campagna. Ero entusiasta della musica di Alex De Grassi in America, di Dan Ar Bras in Bretagna, di Pierre Bensusan in Francia, e di tanti altri ottimi chitarristi. Ha ragione, in questi dischi mi sono trovato spesso a costruire brani partendo da materiale originale risalente alle tradizioni celtica e inglese: naturalmente si tratta di una musica per me molto stimolante, e per di più perfettamente adattabile alla chitarra, specialmente per quanto riguarda la musica per arpa celtica ed alcuni pezzi originariamente per liuto, vihuella e orpharion. John, negli anni ’80 lei è andato a studiare composizione e orchestrazione in un importante college di musica: come mai? Ed è vero che a seguito di quell’esperienza attualmente lei predilige la composizione di musica che non prevede necessariamente la presenza della chitarra? “Lei sta parlando del Music College di Dartington, nel South Devon. Il college è situato lungo la riva di un fiume, molto vicino alla mia abitazione di allora. Decisi di andare a frequentarlo perché era un corso di altissimo livello, ma anche perché…avevo una barchetta, e mi affascinava l’idea di arrivare al college in barca! Ma purtroppo non sempre riuscivo ad arrivarci, perché l’unico approdo era proprio di fronte a un pub, per cui…più di una volta non arrivavo a presenziare alle lezioni…mi fermavo prima… Comunque, in seguito al mio periodo di studi a Dartington ho iniziato a comporre diversi brani: nella maggior parte dei casi si trattava di idee musicali che prescindevano dalla presenza di un particolare strumento. La sfida, ma anche l’aspetto più stimolante del processo compositivo sta, a parer mio, esattamente nello sviluppo di un’idea musicale, e la scelta della strumentazione viene solo in un secondo tempo, e può essere anche un fatto secondario. Certo, mi capita qualche volta di provare alcune composizioni direttamente sulla chitarra, ma nella maggior parte dei casi sarebbe necessario un lavoro di riadattamento, se non di riduzione, troppo spinto per una trasposizione realistica per chitarra.” Cosa ci dice dell’esperienza Ship Of Fools? “Dopo un certo periodo di intervallo lavorativo, fui invitato a suonare in America, ma mi chiesero di portare un gruppo con cui partecipare a un grande concerto al Central Park (non ricordo esattamente l’anno). Steve Tilston (recentemente ospite di uno degli ultimi numeri di Keltika – n.d.r.), un mio vecchio amico e collega degli anni del periodo Transatlantic, suonava all’epoca insieme a Maggie Boyle, eccezionale cantante e flautista originaria del Donegal. A questa band si unì anche Tony Roberts, e tutti insieme andammo a New York. Ricordo perfettamente che la mattina del concerto iniziò a piovigginare, e alcuni (cosiddetti) amici ci telefonavano augurandoci “una buona doccia”. Al momento di salire sul palco l’acqua continuava a cadere, e un grosso nuvolone nero ricopriva l’intero Central Park. Il primo nostro pezzo era “Hal-An-Tow”, una vecchissima song usata per propiziare l’arrivo del sole, risalente alle festività precristiane che celebravano il raccolto. Bene, non ci crederà, ma appena iniziammo a suonare, le nuvole cominciarono a diradarsi e il sole iniziò a splendere! Erano tutti stupefatti, e noi per primi. Decisamente un’ottima partenza! Eravamo stati ingaggiati solo per quell’unica data, ma alla fine registrammo un album doppio per la Flying Fish.” John, il suo ultimo CD, lo splendido Traveller’s Prayer è stato pubblicato nel 1999. I suoi fan vorrebbero un Renbourn più presente nei negozi di dischi… “Il vero problema è che sono praticamente sempre in giro per concerti, e ciò mi rende difficile concentrarmi sulle registrazioni e sulla musica, che pure continuo a comporre qui a casa. In realtà dovrei rimanere in stand-by per un po’ di tempo, in modo continuativo. Ho anche provato a lavorare su un pezzo alla volta, per registrarlo solo alla fine, quando tutto è a posto: è un processo molto lento, ma attualmente è l’unica possibilità. In Traveller’s Prayer sono riuscito a introdurre alcuni pezzi originariamente non scritti per chitarra, e l’album ha avuto complessivamente un buon successo. Attualmente ho un contratto a lungo termine con la Shanachie Records. Il catalogo Shanachie è di ottimo livello, e sono molto contento di farne parte. L’idea è di realizzare una serie di CD molto diversi tra loro, quasi a indicare i differenti aspetti della mia musica.” Sì, ma in definitiva quanto tempo dovremo aspettare per il suo prossimo CD? “Un buon numero di pezzi sono già stati registrati, e nei prossimi mesi spero di poter passare più tempo in studio di registrazione…” E allora, John, questo suo piccolo segreto riguardante la Sicilia: quasi nessuno sa dell’esistenza di due brani di John Renbourn dedicati alla Sicilia, “Bella Terra” e “Palermo Snow”. Quando e come nascono questi due pezzi? “Molti anni fa conobbi Reno Brandoni, e mi fermai con lui per un certo periodo di tempo in Sicilia. Un periodo veramente splendido, al punto che composi un pezzo per chitarra dedicato al ritorno di Reno a casa dopo un lungo tour. Mancava il titolo, e ricordo che mentre attraversavamo con il traghetto lo Stretto di Messina, Reno continuava a mormorare sottovoce, tra sé e sé: “Bella terra…”, guardando lo splendido panorama che si poteva ammirare dalla nave. Nacque così “Bella Terra”, un titolo perfetto per una tune nata in quel particolare ambiente. Il secondo pezzo, “Palermo Snow”, nacque quando Giuseppe Leopizzi mi invitò a venire a suonare a Palermo. Era l’inverno del 1991, e alla vigilia del mio arrivo un’intensissima nevicata era caduta su Palermo: a memoria d’uomo nessuno lì ricordava tanta neve. Ricordo che le colline erano tutte innevate, e l’aria era piacevolmente fresca e frizzante. I palermitani guardavano questo spettacolo trasognati e increduli, la neve ricopriva le strade, e tutto pareva svolgersi al rallentatore: un’atmosfera veramente magica…” Parliamo di accordature aperte per chitarra. Lei è un maestro indiscusso nell’uso di queste accordature alternative, e recentemente sono sempre più numerosi le voci critiche nei confronti dell’uso delle accordature aperte; lo stesso Pierre Bensusan, solo alcuni mesi or sono, ci diceva che verosimilmente avrebbe raggiunto gli stessi risultati anche mantenendo la normale accordatura. “La maggior parte degli strumenti a corda si è avvalsa storicamente dell’uso di un certo numero di accordature differenti: il liuto ne aveva alcune, e così anche la chitarra. L’accordatura “normale” di una chitarra è diventata lo standard solo verso la fine del diciassettesimo secolo: era perfetta per gran parte della musica dell’epoca, in genere le composizioni di tipo armonico che sono continuate sino a tutto il diciannovesimo secolo. È però un’accordatura che si presta poco all’esecuzione della musica modale dei secoli precedenti (la musica medievale), della musica folk e della musica classica contemporanea. Il vero punto fondamentale, quando si suona un qualsiasi strumento, è far sì che la musica sgorghi in tutta la sua vitalità e bellezza, e non ci si deve fare costringere in inutili restrizioni. Per tornare, ad esempio, a “Palermo Snow”, da un punto di vista melodico e armonico si tratta di un brano in re minore con la sesta minore e la settima maggiore; se avessi usato l’accordatura standard, le due corde basse (mi e la) sarebbero risultate inutili e ridondanti. Ecco perché ho preferito, per questo pezzo, una accordatura Re-La-Re-Sol-Si bemolle-Mi, che consente alla composizione di respirare, di prendere il volo in modo nettamente migliore.” Per finire, John, qual è secondo lei il futuro della musica acustica per chitarra? Oggi quasi tutta la musica passa attraverso un computer, e forse la chitarra è uno strumento non più alla moda come sino a qualche anno fa… “Non mi preoccupa il fatto che gran parte della musica si avvalga dell’informatica: un vero musicista riesce a creare musica con qualsiasi cosa, anche con un computer. E di certo non mancano i giovani chitarristi di sicuro valore. A questo punto potrei fare un lungo elenco di ottimi chitarristi, ma forse è meglio rimandarlo ad una prossima intervista per Keltika…”
Intervista di Alfredo De Pietra Copyright © New Sounds 2000 |