Enrico Euron: L'arpa dei Celti
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Enrico Euron: “L’arpa dei Celti” – Storia dell’arpa e degli arpisti in Irlanda – Trauben – ISBN 88.87013.89.6 – Prezzo € 15.49 

Testo e intervista di Alfredo De Pietra

 “L’arpa dei Celti” di Enrico Euron, pubblicato da Trauben, è uno di quei libri che ha il pregio della chiarezza sin dalle sue prime pagine, o meglio ancora sin dall’introduzione: l’arpa irlandese è per molti versi oggi abbinata in modo indissolubile ai vari “celtismi” che popolano il pianeta, ma a prescindere da ciò è anche – storicamente – il simbolo dell’Irlanda.

Ora, lo sforzo di Euron nelle pagine di questo volume è proprio quello di “raccontare” la storia di questo strumento in un viaggio lungo quasi duemila anni, viaggio che parte dalla mitologia irlandese per poi spostarsi sul piano dell’affascinante, tragica storia dell’isola verde: uno strumento musicale, certo, ma evidentemente ben particolare, se è vero che accompagna la vita e le leggende degli irlandesi in modo così importante da tanto tempo. E proprio per questo motivo, ci sembra voler dire Euron, sarebbe necessario sfrondare l’arpa irlandese dalla gran massa di significati aggiuntivi (del tutto posticci) che oggi tanti – e per i più svariati motivi – tendono ad assegnare a questo strumento.

Chiarezza, quindi: chiarezza anche sul nome. Perché, fa rilevare giustamente Euron, c’è una notevole confusione anche sul termine “arpa celtica”. Cos’è un’arpa celtica, alla fine? Arpe irlandesi e scozzesi sono abbastanza differenti tra loro, per non parlare dell’arpa gallese, che a differenza delle altre monta tre file di corde invece di una. E, per finire, viene nettamente ridimensionata l’importanza “storica” dell’arpa bretone, simbolo in realtà di un desiderio di collegamento con il substrato comune alle altre regioni celtiche, e il cui repertorio è in realtà quasi interamente ispirato alla musica tradizionale irlandese.

Di arpa irlandese – e non celtica – si tratta quindi in questo volume, e particolarmente interessanti risultano i capitoli “Tra mito e storia”, “Il Medioevo” e “I secoli di gloria”, in cui l’evolversi dello strumento viene visto in parallelo dapprima alla letteratura mitologica irlandese e poi con lo svolgersi delle travagliate vicende storiche d’Irlanda.

Naturalmente un testo dedicato all’arpa irlandese non può prescindere dalla presentazione del musicista più importante in assoluto in quest’ambito, l’arpista cieco Turlough O’Carolan, e dell’avvenimento che segnò, nel 1792, un momento fondamentale nella storia dello strumento-simbolo d’Irlanda, ovvero il Belfast harp festival, evento organizzato con lo scopo di mantenere in vita, e tramandare, la tradizione musicale gaelica: anche questi argomenti vengono affrontati da Euron con competenza e completezza.

Il resto è storia (relativamente) recente, con la giusta conclusione sui “Nuovi orizzonti” di uno strumento affascinante, legato sì al passato di un’isola, ma che continua a sedurre sempre nuove schiere di appassionati.

Un bel libro, in definitiva, che non dovrebbe mancare nella biblioteca dell’appassionato di musica irlandese, a prescindere che suoni l’arpa o meno.

La fama di Enrico Euron è strettamente correlata alla sua grande esperienza musicale e alla conoscenza dell’affascinante Celtic harp, che ancora oggi per molti versi viene identificato come “strumento celtico” per eccellenza: non a caso, come ben sanno i nostri connazionali che sempre più numerosi scelgono l’Irlanda quale meta turistica, la sua immagine è presente su una delle facce delle monete irlandesi, simbolo “storico” della cultura dell’isola di Smeraldo.

Euron giunge tuttavia all’arpa celtica solo in un secondo tempo della sua carriera musicale: inizia a studiare musica giovanissimo, diplomandosi in Organo e Composizione Organistica presso il Conservatorio “G. Verdi” di Torino, e specializzandosi successivamente in musica medioevale, studiando tra l’altro con Marco Ambrosini del celebre Clemencic Consort.

Le sue composizioni per organo cominciano a essere apprezzate, e in parallelo si sviluppano le sue attività di concertista e di direttore d’orchestra (Harmonia Mundi di Torino). La passione per la musica medioevale è sempre più forte, e così Euron intraprende gli studi di Etnomusicologia presso la Facoltà di lettere dell’Università di Torino. Ed è probabilmente a questo punto che scatta in Euron l’interesse per la musica celtica, e più specificamente per le sonorità dell’arpa celtica.

La prima a essere esplorata è la musica bretone: Euron studia arpa celtica con il celebre Myrdhin, e ben presto partecipa con successo a prestigiosi concorsi, come il “Trophee International Carolan e il Trophee International Aiwan”.

Pur non dimenticando la Bretagna, è l’Irlanda la tappa successiva del suo percorso musicale, con maestri della Belfast Harp Orchestra quali Emer McLaverty e Míchael Rooney. In seguito, il “trittico” di studi si completa con la Scozia, al fianco della grande Savourna Stevenson.

Il nome di Enrico Euron è, già in questa fase, un punto di riferimento per gli studiosi di arpa celtica, non solo in Italia: l’Associazione Musicale di Collegno gli offre la cattedra di arpa celtica, e in Irlanda si piazza secondo alla prestigiosa “O’Carolan Harp Competition”.

Viene pubblicato il suo “Metodo per Arpa Celtica” in due volumi, e sempre più spesso l’arpista è impegnato in conferenze e seminari sul suo strumento e sulla storia della musica irlandese.

Verso la metà degli anni Novanta si assiste a una nuova svolta della sua carriera musicale: viene formato il gruppo Tùatha Dé Danann, con lo scopo di eseguire il repertorio tradizionale irlandese con un approccio storico-filologico. Euron abbandona a questo punto definitivamente la musica classica per concentrarsi definitivamente sull’attività concertistica con i Tùatha Dé Danann e sui sempre più numerosi seminari e conferenze, ormai indirizzati principalmente a docenti e diplomati in arpa.

Viene pubblicato il volume “L’arpa dei Celti”, un vero e proprio trattato monografico sulla storia dell’arpa celtica. I concerti con i Tùatha Dé Danann si contano ormai sul numero delle centinaia, e ad essi Euron affianca anche performance nella formula del duo arpa-chitarra insieme al chitarrista folk Mario Picca.

Gli ultimi anni vedono tra l’altro Enrico Euron nel ruolo di docente del corso sperimentale di perfezionamento in arpa celtica presso il Conservatorio di Castelfranco Veneto (2002) e del Corso internazionale di Alto Perfezionamento in arpa celtica presso l’Accademia Musicale Romana, e la partecipazione, in qualità di ospite, alla tournee italiana dei Chieftains (2003).

I suoi primi strumenti sono stati l'organo e il clavicembalo. Cosa l’ ha spinto verso l'arpa celtica, c'è qualcosa che ha fatto scattare qualcosa all'improvviso, o è stato un lento innamoramento?

“Non credo di avere già raccontato come mi sono avvicinato all’arpa celtica sulle pagine di una rivista. Risale agli anni successivi al termine dei miei studi musicali, quando ti senti proiettato nel mondo che hai sempre sognato, quello dei concerti, delle conferenze, del lavoro con l’orchestra. Ma  nel mio animo aleggiava una insoddisfazione latente, legata al mondo musicale “accademico”: io che avevo iniziato il Conservatorio con la convinzione profondamente romantica (e profondamente ingenua) che il mondo della musica fosse fatto per l’appunto di musica, di poesia, di dolcezza, di sentimenti…mi ero ritrovato in una sorta di giungla di invidie, prevaricazioni, raccomandazioni, superbie. E questo non mi andava giù, non era quello che sognavo. Poi un formalismo che non sopportavo: già ogni volta che indossavo lo smoking ed il papillon per dirigere o per suonare ad un concerto d’organo mi sentivo a carnevale, quello non ero io. Hai un bel dire che l’abito non fa il monaco, io proprio non mi ci trovavo…mi sembrava di rinnegare il mio animo…E se solo un vestito mi dava questi problemi può immaginare tutto il resto…Mettiamo questo, insieme all’amore per la musica antica, per le tradizioni popolari europee, per l’Irlanda, per le leggende su eroi, fate e folletti…il passo è breve. Già nei miei studi di musica medioevale avevo avuto modo di utilizzare l’arpa diatonica. Quando ho trovato in un negozio una piccola arpa celtica fatta a mano…è stato amore a prima vista! Da quel giorno è cominciata una lunga, bellissima storia fra me e la musica irlandese, ricca di emozioni, soddisfazioni, colpi di scena, ma anche di studio, fatica e momenti difficili. È una storia che sembra un po’ una fiaba dei tempi antichi…ma richiederebbe un capitolo a parte…”

Da quanto scrive pare che lei avverta il bisogno di sfrondare l'arpa celtica da tutta una serie di sovrastrutture, di elaborazioni mentali di vario genere che in questi ultimi decenni l'hanno resa popolare al di là del fatto che si tratta di uno strumento musicale…

“So che a volte do l’impressione del razionalista freddo, del ricercatore disincantato, ma non è così. Quando sono in Irlanda vago per i boschi in cerca del Piccolo Popolo. Ho passato quasi tre anni in una foresta della Bretagna ospite di un uomo saggio e misterioso, che con il nostro metro definiremmo un Druido; sono vissuto con i nomadi del Sahara, per penetrare il silenzio del Deserto; e questo qualcosa vuole dire. Il problema è che trovo triste e meschino cercare di rendere seducente qualcosa che lo è già per propria natura. Che bisogno c’è? Voglio dire, non mi innamoro di una ragazza perché si è messa il rossetto: a me interessa la ragazza, altrimenti tanto varrebbe baciare una confezione di rossetto. Il discorso è lo stesso: perché devo trovare ad ogni passo persone che ti presentano l’arpa celtica non per la sua bellezza intrinseca, per la magia del suo suono, per il fascino della sua storia, ma devono fartela piacere facendo leva su qualche cosa d’altro? O che –all’estremo opposto –  devono sminuirla come la “parente povera” dell’arpa grande, e quindi farla vivere alla sua ombra? Spesso questo avviene per mascherare carenze personali, nel senso che per suonare l’arpa devo saperlo fare – specie oggi, dove i termini di confronto si chiamano Grainne Hambly, o Mairie Ni Chathasaigh – mentre per blaterare di presunti aspetti esoterici dell’arpa –lasciando intendere che la so suonare, ma non è il caso, è più importante quello che sto dicendo – mi basta una buona parlantina. Sono queste le sovrastrutture che vorrei fossero eliminate. Poi va tutto bene: anche io mi sento in un altro mondo, quando suono qualche aria che ha a che fare con le fate…Credo che l’atteggiamento migliore sia quello che il mio insegnante di organo mi ha ripetuto per tanti anni, quando filosofeggiavo sulle melodie dei corali di Bach. Mi guardava in silenzio, aggrottato, poi mi diceva lapidario: “Basta spiegarmi cosa vuoi fare. Suona! Fammelo sentire con le note. Così capirò cosa vuoi dire, e soprattutto capirò se sai cosa stai dicendo. Suona!”

E questo lo dico soprattutto per me stesso, ancora oggi…”

In definitiva secondo lei, cosa c'è di realmente "magico" nell'arpa celtica, grazie a cosa riesce ad attirare tanta attenzione da parte della gente?

“L’arpa celtica ha la stessa voce che avrebbe la nostra anima se potesse cantare. È tutto qui. E per inciso credo sia anche la stessa voce che ha il Mondo, se sapessimo ancora ascoltarlo…” 

Come vede lo scenario attuale di questo strumento, in Europa?

 

“Lo vedo bene, molto bene. In molte nazioni europee l’arpa celtica è insegnata, suonata, ha un nutrito pubblico. E non mi riferisco soltanto all’Irlanda, o alla Scozia, ma penso alla Francia, alla Germania, alla Svizzera. Mentre sono deluso – solo per quanto riguarda l’arpa celtica, per il resto sono un grande innamorato – della Bretagna. A parte alcuni fulgidi esempi, e penso a Stivell, a Myrdhin, mi sembra che si equivochi molto sullo strumento. Ricordo con tristezza un concerto al quale partecipai un paio di anni fa in Bretagna: eravamo una decina di arpisti, invitati da tutta Europa, c’era Grainne Hambly per l’Irlanda, Phamie Gow per la Scozia, un bravo arpista dalla Germania, io per l’Italia, Myrdhin per la Bretagna… ed un gruppo di cinque o sei arpiste famose, di cui taccio per educazione i nomi, che dovevano rappresentare la crema dell’arte arpistica bretone. L’ho vissuto come un grande concerto fino al momento in cui, dopo che ciascuno di noi aveva eseguito un paio di brani da solista, è toccato a loro. Una per una hanno snocciolato un repertorio che niente aveva a che vedere con l’arpa celtica. Brani che sarebbero stati decenti su un’arpa classica e in un contesto classico, tecnica classica, retorica classica (grandi glissati in tutte le direzioni, noia mortale nei tempi di danza, percussione su quelle povere tavole armoniche, e via così…). Niente di male, ciascuno suona come vuole; ma non può poi dire di portare avanti la tradizione e sentirsi orgoglioso erede degli arpisti irlandesi dei secoli passati! Che tristezza… soprattutto per la protervia mostrata da questa gente…” 

E in Italia?

“Le faccio solo due nomi, che secondo me riassumono tutta l’arpa celtica italiana e ci fanno magnificamente figurare con i colleghi stranieri: Vincenzo Zitello e Stefano Corsi. Non aggiungo altro, bisogna sentirli per innamorarsi della loro musica e della loro carica umana.

Poi un nutrito sottobosco di più o meno benintenzionati dilettanti e di – spesso, non sempre –   malintenzionati insegnanti…ma non voglio ripetere cose già dette nell’articolo che compare su questo numero. Poi passo per cattivo e perfido, che forse è anche vero, ma a volte la passione parla per me. Quando ami una donna, perché ad essa hai dedicato la tua vita, difendi il tuo sentimento con le unghie e coi denti, ti esponi in prima persona, giochi tutto te stesso…e ti arrabbi se qualcuno ne parla male, soprattutto se avviene senza motivo…e così è per me con l’arpa celtica, che peraltro, rispetto ad una donna, ha l’enorme vantaggio di poter essere zittita, basta posarla…”

Non c'è secondo lei il rischio che si tratti di uno strumento che guarda un po' troppo verso il passato, verso la tradizione? In altre parole, secondo lei qual'è il futuro dell'arpa celtica?

“Non c’è niente di male a guardare verso il passato, pur camminando verso il futuro. La forma sintattica e lessicale che ha usato nella sua domanda appartiene per lo meno al diciottesimo secolo: ma lei l’ha usata, io l’ho capita e il pubblico la leggerà. Io suono musica di trecento anni fa e chi mi ascolta ne viene ammaliato. Non è merito mio, io sono un tramite. I sentimenti di un musicista ormai polvere erano gli stessi che provo io mentre suono, che prova lei mentre ascolta.

L’amore, la serenità, lo stupore, il dolore ed il pianto sono universali… altrimenti non potremmo mai farci affascinare da Carolan o da Beethoven. Il musicista crea un filo sottile fra uomini di mondi e di epoche diverse, e quel filo è fatto di sentimenti resi manifesti dalla musica.

Questo è il grande mistero della musica, il motivo della sua immortalità. Quindi dove sta il problema? E così per il futuro: quello che oggi per me è sperimentazione sull’arpa fra duecento anni, nell’utopistica ipotesi che qualcuno suoni qualche mia composizione, farà nascere ad un giornalista la stessa domanda ed un arpista risponderà nello stesso modo…io sarò da un pezzo polvere, ma i miei sentimenti rivivranno in quel musicista, davanti a quel pubblico…ed il gioco continuerà…D’altra parte esiste una cospicua avanguardia, che usa l’arpa celtica per esplorare nuove possibilità. E non mi riferisco ai patetici tentativi di trasportare l’arpa classica sull’arpa celtica, dicendo poi di voler rinnovare il repertorio. No, ogni strumento ha il suo cammino, unico ed irripetibile. E non c’è niente di male nel miscelare le cose, se questo diventa arte e non pasticcio. Voglio dire, ascoltando alcuni brani di Carolan vi si trova tutto il pathos delle slow air tradizionali irlandesi e la forma stilistica di un Vivaldi, così come se si analizzano le opere di Mussorgsky c’è tutta la scuola sinfonica ottocentesca miracolosamente in equilibrio con la tradizione popolare russa…Per quanto mi riguarda solitamente sono considerato uno storico dell’arpa celtica, un tradizionalista, uno che si dedica alla musica antica, e sicuramente è vero. Ma nell’intimità del mio studio mi diverto a collegare distorsori e rack di effetti all’arpa, filtro il timbro per “snaturarla”, cerco di armonizzare un reel con un accompagnamento mutuato da Chick Corea o da Benny Goodman… Un giorno forse queste cose vedranno la luce del sole. Sarà un problema? Penso, spero di no, sarà il mio contributo alla musica. Non tradizione, ma sulla tradizione un piccolo passo verso un nuovo orizzonte. Provi ad ascoltare quello che è riuscito a fare Vincenzo Zitello con l’arpa celtica. Anche lui affonda le sue radici nella musica tradizionale, e molte volte questo è evidentissimo. Eppure ha aperto una strada verso orizzonti totalmente nuovi, ed estremamente interessanti. O ascolti un CD di Phamie Gow. Questi sono esempi bellissimi di futuro dell’arpa celtica.” 

Andando a lei, oltre a questa collaborazione con “Keltika” e alla tua attività di insegnamento, quali sono i suoi progetti futuri in campo musicale?

“Tanti, forse troppi. Ho già accennato al mio sogno di creare un corpo insegnante qualificato ed in qualche modo “certificato”, grazie al corso che ho in Conservatorio (e che diventerà secondo il nuovo ordinamento un corso di laurea); in questo modo spero venga soddisfatta almeno in parte la richiesta di chi vuole studiare seriamente la musica tradizionale irlandese. Poi voglio lavorare con il gruppo di arpe celtiche che è nato appunto all’ombra dei corsi già tenuti. L’abbiamo chiamato Celtic Harp Ensemble ed è una realtà tanto inedita quanto ricca di potenzialità. E ci sono i Tuatha De Danann, che hanno ancora molte cose da dire; c’è il duo arpa-chitarra che ho messo su con il musicista Marco Picca, nel quale crediamo molto…e sembra che i riscontri ci diano ragione…

Ci sono in vista due incisioni, diversi lavori all’estero, collaborazioni con artisti italiani di spicco… ma è presto per parlarne, vedremo…Come vedremo se andrà in porto una certa idea di tournee con un quartetto d’archi, dove si metteranno a confronto versioni classiche e tradizionali degli stessi brani musicali. E mi aspetta l’Irlanda, spero presto: dopo la collaborazione con i Chieftains e la mancata – per un soffio – collaborazione con Ritchie Blackmore, quello dei Deep Purple, sento il bisogno di confrontarmi con musicisti stranieri, per aprire nuovi orizzonti…Come vede le idee sono tante, il tempo un po’ meno. Ma cercherò di usarlo bene…”