Dubliners
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The Dubliners: 40 Years (Baycourt Records BAYCD 070)

È decisamente un periodo di anniversari “pesanti” per la musica irlandese: solo alcuni mesi fa prendevamo in considerazione l’album che celebrava i 40 anni di attività musicale dei Chieftains, ed eccoci questa volta in presenza di una ricorrenza “gemella”. Anche i Dubliners infatti hanno appena compiuto il loro quarantennale di musica insieme, ed ovviamente anche nel loro caso si imponeva la pubblicazione di un disco che celebrasse degnamente un traguardo così importante. Eccoci quindi a commentare questo gustosissimo 40 Years, album esemplare per impostazione, presentazione e scelta del materiale proposto.

Quelli che in seguito sarebbero diventati i Dubliners iniziarono a suonare per proprio diletto nell’O’Donoghue pub nel 1962, e il nucleo iniziale consisteva allora in Ronnie Drew, Ciarán Bourke, Barney McKenna e Luke Kelly. Anche il nome della band era differente: The Ronnie Drew Ballad Group. A questi musicisti si unirono in seguito Bob Lynch e John Sheahan, e tutto ebbe inizio da lì: il gruppo iniziò a suonare stabilmente all’Abbey Tavern di Howth, e il pubblico, dublinese inizialmente, irlandese in seguito, iniziò ad entusiasmarsi di fronte al sanguigno stile di questi musicisti. Iniziò ad imporsi la necessità di un nome di maggiore “presa”, e fu Luke Kelly a proporre “The Dubliners”, anche perché proprio in quei giorni era immerso nella lettura dell’omonima opera di James Joyce. Certo, a quei tempi era difficile immaginare tutto quello che sarebbe successo in seguito, e il successo internazionale colse i Dubliners quasi impreparati: si narra ad esempio che quando, nel 1967, il loro “Seven Drunken Nights” raggiunse il 5° posto nella hit parade britannica e fu chiesto ai Dubliners di partecipare alla trasmissione televisiva “Top Of The Pops”, Ronnie Drew continuò per un certo tempo a chiedersi se questa fosse una notizia positiva o negativa!

Una cosa è certa: ai Dubliners va l’enorme merito di avere portato le ballad irlandesi al di fuori del mondo (peraltro naturale) dei pub e dei folk club irlandesi, riuscendo a proporle a livello planetario, con la dignità attribuita alla migliore musica popolare.

Certo, non tutto è stato rose e fiori: in tutto questo tempo i Dubliners hanno dovuto fronteggiare la morte di ben tre dei loro membri, oltre ad una serie di variazioni e rimaneggiamenti nella formazione, ma tuttavia essi continuano, ancora oggi, a mantenere una freschezza e una integrità difficile da immaginare in musicisti di questa età: i Dubliners continuano a girare il mondo suonando nei più grandi auditorium, e il loro successo continua, incurante del tempo e delle mode che cambiano.

40 Years, quindi, 40 anni, come il titolo di questo ottimo album. Tornando a The Wide World Over, il CD celebrante l’analogo anniversario dei Chieftains, più di qualcuno (e noi tra questi) ha criticato la scelta di una mera riproposizione, con pochissimi inediti, di brani già presenti in altri CD, e per giunta sempre con famosi artisti ospiti a celebrare l’anniversario di Paddy Moloney & Co. Ebbene, la scelta dei Dubliners si mostra diametralmente opposta. 40 Years è infatti composto da venti brani, ben dodici dei quali sono stati registrati nei primi mesi del 2002. Per l’occasione, anzi, all’attuale formazione dei Dubliners, composta da Barney McKenna, John Sheahan, Paddy Reilly, Seán Cannon ed Eamonn Campbell, si sono riuniti i vecchi “compagni di viaggio” Ronnie Drew e Jim McCann, a contribuire a costruire un bilanciato cocktail di materiale nuovo, riarrangiamenti ed echi del passato. Alcuni dei più importanti successi del passato (“Raglan Road”, “The Town I Loved So Well”, la già citata “Seven Drunken Nights”) non potevano d’altra parte mancare, ma il filo che unisce queste incisioni, talvolta risalenti anche a trent’anni addietro, alle più recenti, dimostra che che il talento dei Dubliners, sia come musicisti che come entertainer, è ancora immutato e forse, se possibile, migliora con il passare del tempo. 

                                                                                  Testo di Alfredo De Pietra

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