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Alasdair Roberts – Farewell Sorrow Testo di Alfredo De Pietra La faccia pulita della folk music Eccentrico, enigmatico, melanconico, Alasdair Roberts si è recentemente imposto all’attenzione di pubblico e critica con l’album Farewell Sorrow, che presentiamo questo mese ai lettori di “Keltika”. In Gran Bretagna cè già chi parla di disco dell’anno… Di Alastair Roberts sono state dette molte cose, negli ultimi mesi, in seguito all’uscita dell’album, per molti versi rivoluzionario, Farewell Sorrow, pubblicato dalla casa discografica inglese Rough Trade (http://www.roughtraderecords.com/): innanzitutto si è detto che a guardarlo, non si direbbe affatto un musicista. Un insegnante, forse, o un impiegato di banca, o magari un giovane medico…26 anni, capelli corti, alto, magro, timido anche, ma non dietro a un microfono a cantare le sue canzoni di fronte a centinaia di persone. Il “Glasgow Herald” lo ha definito “la faccia pulita della folk music”. Quel che è certo è che leggendo le altre recensioni di questo suo secondo album solistico, i critici sono per lo più concordi su un dato di fatto: ad un primo ascolto si rimane quasi sconcertati: le canzoni sono quasi naif, apparentemente di una semplicità sconvolgente (solo apparentemente, però: provate a vedere l’astrusità delle accordature per chitarra usate da Roberts…); anche i titoli – e i testi – sono diretti, in modo assolutamente innovativo. Nessuno spazio all’elaborazione poetica, ma titoli come “Mi sono innamorato”, oppure “Sono andato a caccia”, o ancora “Sono giovane” sono francamente abbastanza inusitati, converrete. E poi: la strumentazione (piano, chitarra acustica, basso e batteria), scarna all’inverosimile, con gli interventi degli strumentisti limitati al massimo, contribuisce in modo determinante a un vago senso di angoscia che prende inizialmente l’ascoltatore. Ma soprattutto la voce di Alasdair Roberts, una voce del tutto particolare, con una timbrica finora assolutamente inedita: flebile, esile, melanconica, quasi lamentosa, apparentemente sempre in bilico sulla tonalità e sul tempo della canzone. Insomma, più di un motivo per etichettare il giovane cantautore scozzese come “enigmatico ed eccentrico”, come ha fatto il mensile specializzato britannico “Folk Roots”, che qualche mese fa gli ha dedicato copertina e articolo principale, sbilanciandosi alla fine a ritenere Farewell Sorrow uno dei migliori album dell’anno. Sì, perché questo disco incuriosisce e affascina poco alla volta, ma con il tempo conquista. Alasdair Roberts è per molti versi un figlio d’arte: suo padre, il chitarrista Alan Roberts, deceduto un paio di anni fa, era uno dei molti musicisti scozzesi che avevano trovato un’accoglienza entusiastica nella Germania degli anni Settanta. Lì nacque Alasdair, che tornò tuttavia con la famiglia in Scozia all’età di due anni. Il padre smise di occuparsi di musica a livello professionale e si dedicò all’importazione di birra dalla Germania, e il giovane Roberts iniziò ad ascoltare musica, da Vivaldi ai Beatles ai Doors. Iscrittosi all’Università di Glasgow, iniziò in lui a farsi avanti l’idea di una carriera in campo musicale: assieme ad alcuni amici diede vita alla formazione Appendix Out, che comprendeva, oltre a lui, il violinista (al basso per l’occasione) Dave E. While, la violoncellista Louise D. e la batterista Eva Peck: una formazione abbastanza eccentrica, considerato che spesso nei loro dischi facevano capolino strumenti come clarinetto, dulcimer e cornamusa ungherese (!). Terminata l’esperienza con Appendix Out, venne pubblicato il primo album solistico di Roberts, The Crook Of My Arm, che presentava esclusivamente interpretazioni solistiche di canzoni tradizionali. Per converso, Farewell Sorrow è invece composto da brani originali, tutti a firma Roberts, ma anche in esso l’amore per la musica tradizionale si può cogliere da diversi indizi: se il brano “Join Our Lusty Chorus” comprende al suo interno frammenti di una vecchia canzone del Sussex interpretata dalla Copper Family, in “Carousing” riecheggiano momenti di un brano originario del Northumberland, e lo stesso titolo della canzone che abbiamo scelto a presentare ai lettori di “Keltika” questo album veramente eccezionale, ovvero “When A Man’s In Love He feels No Cold” (“quando un uomo è innamorato, non avverte il freddo”), è tratto da una song dell’Ulster nell’interpretazione di Paddy Tunney. In altri termini Roberts ha la particolarità di inserire frammenti di vecchi classici all’interno delle proprie composizioni ma – si badi bene – senza far assolutamente uso di campionatori: inusuale, ma soprattutto geniale! “Tutto quello che faccio – si schermisce Roberts – è solo cercare di fare cose che mi interessano, sperando che siano di interesse anche per altre persone. Prima di Farewell Sorrow non avevo mai composto brani di tipo narrativo. Solo, sentivo il bisogno di più umanità nelle mie canzoni, di una maggiore interattività. E poi, in sala d’incisione, ho cercato di fare in modo che fosse una specie di disco dal vivo, in presa diretta”. Neanche può essere ancora definito un musicista professionista, Roberts, che continua a occuparsi di informatica e ricerca universitaria, e che sorride quando gli si pronunciano parole come “carriera artistica”. Ma che ha anche chiaro dove lo porterà la sua prossima avventura discografica: “Di certo un disco molto diverso da Farewell Sorrow, che rimane concettualmente molto legato alla “canzone”. No, ultimamente sono molto più attratto dal “suono”, quindi vorrei fare un album più…certo, mi rendo conto che è un termine pericoloso nel campo della musica folk, ma…insomma, un album più sperimentale”. Alasdair Roberts si ripromette quindi di stupirci ancora; con la sua faccia pulita e con le sue idee musicali tanto innovative non ci stupiremmo se fosse proprio lui, una delle stelle emergenti della folk music scozzese. |