"Incominciamo con i brand. Nella polemica contro il loro
potere si fondono due critiche distinte: la prima è più
circostanziata: le grandi marche fanno affari sfruttando il lavoro
dei paesi poveri. Come sempre, è meglio partire da una domanda
elementare: è vero? Devo sintetizzare, e così abbozzo una
risposta: sì, è vero, anche se una certa propensione a non farsi
troppe domande e a concludere sbrigativamente le indagini è
rilevabile in tutti i tentativi di dare una descrizione
dei fatti. La faccenda è probabilmente più complessa di quanto
piaccia pensare, ma in definitiva non è errato affermare che
molte multinazionali producono enormi profitti anche in virtù del
fatto che le loro merci sono prodotte, nei paesi più poveri, a
costi bassissimi, in certo modo illogici, e probabilmente
immorali.
Seconda critica: i grandi brand si sono impossessati
dell’immaginario collettivo, lo gestiscono a loro piacimento e
trasformano gli individui in consumatori lobotomizzati. Dato che
nessuno sbarra loro la strada, la loro presenza è ormai talmente
invasiva da farli individuare come il vero Potere, assai più
efficace, capillare e onnipresente dei poteri politici, religiosi,
o civili. Com’è ovvio, qui l’obiezione suona più irrazionale
ed evanescente. Ma, va detto, non è campata per aria. Una bella
ricostruzione di tutta la faccenda la potete trovare
effettivamente nel fortunato libro di Naomi Klein, No logo:
leggete le prime duecento pagine e vi farete un’idea. Abbastanza
lucidamente vi si raccontano i fatti, puri e semplici. Non tutto
sarà vero o ben compreso, ma se solo metà di quello che c’è lì
dentro fosse reale, ce ne sarebbe già abbastanza per crederci.
Ora: di fronte a fatti del genere l’istinto, ovviamente, è
quello di puntare i piedi e resistere. Muro contro muro, e poi si
vedrà. Come sempre accade, per semplificare la lotta si
irrigidiscono le definizioni delle parti in conflitto: il
complesso mondo del brand viene riassunto in pochi tratti
deprecabili, e demonizzato; e la gente viene riassunta come un
unico indistinto animale aggredito, indifeso e destinato a
soccombere. Ma, ancora una volta, conviene chiedersi: è davvero
così? Possibile che la passione civile ci induca a uno sguardo
così semplificatore da vedere un puro e semplice duello là dove,
com’è evidente, accade un incrocio assai più complesso e
difficile da comprendere? Possibile.
Un esercizio da fare sarebbe quello di prendere quei fatti e
guardarli da vicino, e provare a pensarli da capo. Senza
pregiudizi, possibilmente. E con un certo coraggio, anche. Se ne
vedrebbero delle belle. Ad esempio: si ricomincerebbe a vedere
questo semplice assurdo, oggetto di una delle più spettacolari
rimozioni del nostro tempo: noi pensiamo le cose peggiori dei
grandi brand, eppure ce ne serviamo senza nessun problema.
Curioso, no? Se non siete dei militanti no global, è probabile
che abbiate delle scarpe Nike o Adidas, che fumiate Marlboro o
Philip Morris, che portiate i vostri bambini a vedere i film della
Walt Disney, che mangiate da McDonald’s e che in questo momento
abbiate addosso delle mutande Calvin Klein. Cerco di dirlo in modo
più esatto: è probabile che alla gran parte di noi il mondo
allestito sulla rete delle grandi marche non sembri affatto un
luogo inumano, ma al contrario, un mondo vivo, in qualche modo
ricco, e comunque interessante da abitare. È abbastanza normale
che ci appaia come un mondo sostanzialmente libero, una specie di
giostra su cui saliamo quando vogliamo, scendiamo quando vogliamo,
saliamo pensando Che boiata, scendiamo pensando Torno domani.
Dobbiamo concludere che siamo ormai così lobotomizzati da non
capire più niente? Sarebbe comodo. Ma temo che la verità sia
diversa.
La verità è che siamo solo blandamente lobotomizzati. Siamo
lucidi, quando partecipiamo alla grande festa, lo facciamo con il
cervello innestato, con una parte del nostro cervello che non
possiamo sminuire, ma dobbiamo se mai capire."
Scarpe
Per capirci meglio, potete provare a fare un giochetto. Dovete
avere un po’ di pazienza e ascoltare una piccola storia. Quando
io ero piccolo (si parla della fine degli anni sessanta) c’era
un giorno in cui si andava a comprare le scarpe da ginnastica. Il
negozio in cui si andava era lo stesso negozio in cui si
compravano le galosce o le scarpe della domenica, solo che in un
angolo aveva il minuscolo reparto delle scarpe da ginnastica. Di
solito era un po’ defilato, comunque lontano dalle vetrine. Era
molto piccolo. Stava al resto del negozio come l’ora di
ricreazione a una giornata di scuola dai preti.
A quei tempi, dovendo comprare una scarpa da ginnastica, la scelta
era praticamente circoscritta fra: Superga beige e Superga blu.
Cioè: nella mia famiglia si usava così. In realtà delle altre
possibilità, almeno teoricamente, c’erano. I più fighi e/o
ricchi compravano le mitiche Adidas, tre strisce sul lato, suola
sagomata, rinforzi davanti e dietro. Ne esistevano tre o quattro
tipi: mi ricordo che io andavo matto per una che si chiamava Rom.
Adidas Rom. O era Room? Non so. Comunque ci andavo matto. Ancora
più elitarie erano le Puma, che avevano in pochissimi, e che
erano guardate con grande rispetto ma anche con una punta di
diffidenza (erano considerate le rivali delle Adidas, e questo non
deponeva a loro favore). Infine c’erano le All Star, ma davvero
rarissime: attirava il fatto che ci fossero anche rosse, ma
sostanzialmente erano considerate da grulli, era difficilissimo
trovarle, e praticamente le avevano solo quelli che giocavano a
basket. Al di sotto di questo olimpo, c’era il mare indistinto
delle patacche. Erano scarpe dai nomi spiritosi tipo Tall Star,
Luma, Addas. Ci provavano. Senza pudore, sfoggiavano le mitiche
strisce sul lato: solo che erano quattro, o due. Costavano poco, e
le vendevano al mercato. Comprare le scarpe al mercato era strano
perché ti ritrovavi in calze in mezzo alla strada. Insomma,
dovendo comprare le scarpe da ginnastica, a quei tempi la scelta,
a voler essere generosi, era limitata a sette, otto modelli.
Va anche ricordato che le scarpe da ginnastica si mettevano quando
si andava a far ginnastica, e in nessun’altra occasione (perché
rovinarle?). In casa c’erano le pantofole, e per camminare c’era
altra roba. Non ricordo di aver mai visto mio padre con le scarpe
da ginnastica (e giuro che era un tipo abbastanza sportivo: a me
sembrava molto simile a Kennedy, a parte Dallas, e Marilyn). Non
ricordo nemmeno di aver mai visto un mio idolo dello sport
sfoggiare le stesse scarpe che avevo io nei piedi: erano due
universi separati, e neanche mi immaginavo potessero comunicare.
Aggiungo un particolare agghiacciante. Quando compravi le scarpe
da ginnastica, la signora del negozio ti regalava una pallina di
gomma.
La cosa agghiacciante è che quello era un evento, era una cosa
che ricordavi per settimane, era una cosa che raccontavi. Era
quello un mondo in cui se il negoziante ti regalava una pallina di
gomma, tu lo raccontavi in giro. E un’altra cosa. Agghiacciante
anche quella. Mi ricordo che dato che tutti avevano le Superga, e
insomma in palestra giravamo tutti con le stesse scarpe che
sembravamo dei cinesi, a parte i due o tre privilegiati con le
Adidas o le Puma, ma erano pochi, gli altri erano tutti uguali –
insomma mi ricordo che alcuni di noi, quelli più originali, un po’
ribelli, quelli un po’ più svegli, non la digerivano ’sta
cosa che fossimo tutti uguali, e allora, per cercare di essere
diversi, per sconfiggere la monocultura della scarpa, decidevano
di ribellarsi, e quello che facevano precisamente era: disegnare
qualcosa con una biro sulle loro Superga. Magari una piccola
scritta. O cuoricini, fiori, cose così. Era quello un mondo in
cui, per inventarti le tue scarpe, quello che potevi fare era
disegnartele con la biro. Bene.
E adesso un bel salto nella macchina del tempo. Immaginatevi di
avere un figlio di una dozzina d’anni e di portarlo a comprare
le scarpe da ginnastica. Gennaio 2002. Non c’è bisogno che ve
la racconti io. Potete benissimo ricostruirvi la scena da soli. Ma
guardatela bene, guardatela tutta. Il tipo di negozio, le facce
dei commessi, la musica che c’è, i colori, i manifesti sulle
pareti, le scritte in inglese, le cose che non sono scarpe e che
pure vendono lì dentro, il sorriso di Michael Jordan, o di
Ronaldo, o di Baggio, o della Kournikova, le centinaia di scarpe
che stanno attaccate alle pareti, le decine di idee diverse di
scarpa che stanno appese lì, la presenza rassicurante delle mezze
misure (36 e mezzo, finalmente), il sedile su cui vostro figlio si
siede per provare le scarpe, lo specchio in cui si guarda, le
calze che comprate in sovrappiù perché sono appese alla cassa e
lui le vuole, la scatola dove mettono le scarpe nuove, il
sacchetto, la faccia di vostro figlio che se ne esce con le sue
scarpe nuove. Già che ci siete date anche un’occhiata ai vostri
piedi. Probabilmente: scarpe da ginnastica. Siete un padre (una
madre) con le scarpe da ginnastica. Mio padre era Kennedy, ma non
era così.
E adesso, un bell’esercizio: avanti e indietro, con la macchina
del tempo, tra il bambino con la pallina di gomma e quello del
2002. Avanti e indietro. Un po’ di volte. Fine dell’esercizio.
Innestare il cervello. Pensare. Domanda: che nesso c’è tra
quello che in questo momento avete in testa e il vostro disprezzo
per il consumismo, il vostro sdegno per le fabbriche in cui quelle
scarpe sono prodotte, e la vostra allergia ai brand? Auguri.
Fornitori
C’è la scritta levi’s sulle fabbriche che producono i jeans
in Indonesia? No. Sono fabbriche della levi’s? No. Per usare le
parole di Naomi Klein (il mitico No logo), quelli che negli usa
erano posti di lavoro "vengono rimpiazzati da qualcosa di
totalmente diverso, ‘ordini’ da commissionare a un fornitore,
che li può girare a sua volta ad almeno dieci sub-fornitori, i
quali possono trasferire una parte di questi contratti a una rete
di lavoratori a domicilio che portano a termine il lavoro nelle
cantine e nei soggiorni di casa".
Alla fine di questa catena è logico immaginare qualcuno che
lavora davvero per una cifra scandalosa, in condizioni scandalose,
e con un’assenza di diritti scandalosa. Ma è anche vero che
ogni anello della catena prende il suo tornaconto, e che la cifra
iniziale viene spolpata, per strada, a poco a poco. In altri
termini, non è più possibile dire tout court che la levi’s
sfrutta dei lavoratori: sarebbe corretto dire, piuttosto, che una
certa politica della levi’s contribuisce ad allestire un sistema
di produzione in cui le possibilità di arrivare allo sfruttamento
del lavoro di qualcuno sono di nuovo reali, dopo che le si era
neutralizzate nel mondo occidentale con la moderna legislazione
sul lavoro."
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