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Alessandro Baricco
Data di pubblicazione: 11/05/00
La Repubblica

BARCELLONA - La corrida è anche musica di parole che suonano come poesia. Manoletina (nome soave ma passo rischiosissimo, con la muleta passata dietro la schiena, invenzione di Manolete), el natural (il modo più diretto di toreare, secondo molti la quintessenza della corrida), el quite del toro (portare via il toro ai picadores, prima che lo sfianchino troppo), indulto (succede di rado, ma succede: il toro è valoroso, la folla chiede la sua vita e il torero la concede: toro indultado. Se ne esce vivo e torna a i suoi pascoli). 

Una di queste micropoesie recita così: adorno. Niente a che vedere col filosofo tedesco. L'adorno è un passo tradizionale fatto con qualche variante spettacolare: "adornato" con qualche drittata irresponsabile o molto ruffiana. Per i puristi l'adorno è una cosa volgare. Hemingway lo odiava. El Juli, il ragazzino prodigio, il Mozart del toreo, lo adora.

Il suo primo passo che vedo è, appunto, un adorno. Il ginocchio per terra è gratuito: è rischio senza ragione. Ma è un imprinting: per il pubblico e per il toro. Il ragazzino ha qualcosa in mente: che nessuno si illuda. Il toro carica. El Juli lo aspetta. Mezza tonnellata di rabbia nera attraversa l'arena, sfiora in velocità il ragazzino in ginocchio, finisce in un frullare di capote giallo e viola da cui esce con niente davanti e nella testa, niente. Il ragazzino è ancora in ginocchio e butta indietro la testa come se non avesse fatto nient'altro negli ultimi quarant'anni. Tutti in piedi. Olè.

In una corrida i toreri sono tre. E sei i tori: due per uno. Il quinto, qui a Barcellona, era per José Tomàs. Lui è uno dei migliori. Se lo vedi fuori dall'arena sembra un giovane bancario per cui il pattino è già canottaggio. Nell'arena è un cultore del purismo: le sue sono sequenze di pose statuarie, apparentemente inattaccabili dalla furia del toro. Lui, il ginocchio per terra, non lo metterebbe mai. Ma l'eleganza è assoluta, impressionante l'esattezza, e enorme il coraggio. La posizione dei piedi, lo sguardo, la curvatura del bacino, tutto è studiato al millimetro, come una coreografia. Balla, lui. Usa la forza del toro come propellente, come pretesto per trovare posizioni e figure indimenticabili. Ogni memoria di combattimento è cancellata. E il fantasma della morte (sua o del toro) completamente oscurata: c'è, c'è in ogni momento e in ogni passo, ma la bellezza di quella danza lo fa dimenticare. Veder lui toreare ti aiuta a credere a ciò che tutti i toreri dicono: non si torea contro il toro, ma con il toro. Non è un combattimento, è una danza. E la si fa in due. Se si vuole, è questo il segreto della corrida: che è, di base, un combattimento, e spesso purtroppo un macello puro e semplice, e che pure, dal cuore di quella lotta deduce, alle volte, una danza, con l'assurda pretesa di trasfigurare la bestia, il sangue, l'uomo uccisore e tutto in una icona di bellezza purissima, antica. Non è che la corrida sia, a priori, atroce o sublime: può essere tutto. Quel che si può dire è che è un orrore grottesco che alcuni toreri tramutano in spettacolo sublime. Se ci pensi bene è la stessa cosa che puoi dire, sostituendo cantante a torero, se parli di un'opera seria di Rossini, o di una romanza di Puccini.

Josè Tomas è appunto uno di quei toreri. E lì, a Barcellona, al quinto toro, indovina tutto. Sparisce il combattimento, è danza pura. Animale e uomo sempre più vicini, fino a diventare i due elementi di un unico movimento. La pelle nera, il sangue scuro, i riflessi del traje , le corna, le assurde scarpette da ballo che il torero porta ai piedi, la spada e la muleta: sulla carta non c'è nessuna possibilità di mettere insieme roba del genere. Lì, diventano un solo, bellissimo mostro della fantasia, che volteggia al ritmo di se stesso. Poi, dato che quando è sublime la corrida lo è fino all'eccesso, entra in scena la morte. Che storia, eh? Venti minuti per danzare la meraviglia e per uccidersi.

Il torero ferma il toro davanti a sè. Accascia la muleta a terra per fargli abbassare la testa. Fissa gli occhi in un punto preciso, tra le scapole dell'animale. Lentamente alza la spada fino ad allinearla allo sguardo. C'è una sequenza preparatoria di due posizioni, sempre uguale, per tutti. Il resto è occhio, sangue freddo e fortuna. Il punto in cui uccidi è grande come una moneta da 500 lire. E c'è una sola strada per arrivarci: passa molto vicino alle corna. Per questo, entrar a matar è difficile, e di rado lo si vede fare bene al primo colpo. Il più delle volte è uno strazio che non finisce mai, sei sette tentativi con la spada che entra nel punto sbagliato o rimbalza via, e il pubblico che inizia a ululare senza pietà, la faccia del torero che diventa terrea, il toro che non vuol morire, un orrore.

Josè Tomas ferma il toro, allinea la spada allo sguardo, salta incontro alle corna e sferra il colpo. Dritto nella moneta da 500 lire. La spada affonda fino all'elsa. Il toro stramazza. Per quanto possa sembrare orribile, tutta la gente salta in piedi e incominciano a fiorire ovunque fazzoletti bianchi che sventolano, e sembra la partenza in un transatlantico, e invece è solo un'arena intera che dice grazie, grazie per quella danza e per quella morte veloce, grazie e onore a quell'uomo. Due orejas, per lui, che nel gergo tribale della corrida significa quasi il massimo del premio.

Appoggiato alla barrera, El Juli, guarda. Non deve fargli molto piacere tutto quello. Qualcuno gli sta rubando l'arena. Ha ancora un toro a sua disposizione. E far dimenticare quella danza non sarà facile. Aspetta che il casino finisca, e che si apra il toril. L'animale con cui dovrà danzare è enorme e luccica di un nero spettacolare. Mentre i peones lo distraggono, El Juli guadagna il centro dell'arena, si toglie la montera, il caratteristico copricapo nero dei toreri, e la posa sulla sabbia: che vuol dire: questo toro è dedicato a voi. ****

Prima c'è il capote, poi c'è la muleta. Il capote è un cappa enorme, che pesa come una valigia e che sfavilla di giallo, su un lato, e di viola, sull'altro. Il torero la usa all'inizio, quando il toro è ancora in forze, carica con una corsa lunga, e la danza è una questione di velocità e potenza. Poi il toro inizia a stancarsi, il picador e i banderilleros gli hanno ferito i muscoli della schiena, lui perde sangue ed è costretto ad abbassare la testa. Allora arriva il momento della muleta. Piccola, color granata, tenuta tesa dalla spada, nascosta sotto la stoffa. Lì diventa un lavoro di centimetri. Il toro non ha la forza di una corsa lunga, e se tu sei un artista lo puoi lusingare fino a fartelo girare intorno, sempre più vicino - non c'è più nessuno nell'arena, in quel momento, solo tu e il toro, ed è una gara a rosicchiare millimetri, a spegnere spazio tra te e lui, a condensare tutto quel che può accadere, morte compresa, in un fazzoletto di sabbia. Tutto molto lento, come succedesse sott'acqua. Anomalo spettacolo.

El Juli, lui è un genio del capote. Il suo sesto toro lo aspetta in ginocchio di fianco alla barrera. Veronica en rodillas, per chiamarla col suo nome. Riesce a metà, perchè il toro scompone la sua corsa e riesce a strappare via il capote. Poi si ferma, si gira, vede El Juli, lo punta. Non è che in quei casi puoi fare molto altro che scappare. Vedo El Juli scappare, ma lo fa in un modo che sembra una provocazione, per il toro. Lo lascia avvicinare, lo illude, poi schizza sulla barrera, al sicuro. Riprende il capote, si rimette in ginocchio e provoca il toro allo stesso passo di prima. Pericoloso: i tori imparano in fretta. Veronica en rodillas numero 2. Olè.

Perché a 17 anni è considerato il numero uno lo capisco qualche minuto dopo. Sono entrati i piacadores: di solito a quel punto il torero si sistema a guardare sperando che facciano un buon lavoro, cioè che gli fiacchino il toro. El Juli rimane vicino, studia la situazione, studia il toro, e poi ferma il picador, quando ancora non ha nemmeno iniziato il suo lavoro. Gli è venuta un'idea: e per ballarla ha bisogna di un toro integro. Con un cenno spedisce un peone dall'altra parte dell'arena ad attirare il toro e portarlo via dai picadores. Prende il capote e si porta nel centro dell'arena. Il peone fa il suo dovere, il toro si ritrova dalla parte opposta ai picadores a incornare assi di legno. El Juli lo chiama. Il toro si volta. Non c'è sangue sulla sua schiena, e la testa è alta, alte le corna. È una carica lunga, almeno venti metri. El Juli lo aspetta, immobile come una statua in una chiesa. Solo quando l'animale è a un paio di metri, il capote si spalanca a sfarfallare in alto, e intorno, El Juli ci scompare dentro, c'è un macchia gialla e viola che volteggia nell' aria, ci si tuffa dentro l'animale nero, ci scivola via il ragazzino divino, l'unico rumore è una specie di frullare d'ali, poi la statua strappa nell'aria un gesto di sprezzo e mentre il toro si perde nel nulla l'arena salta in piedi senza sapere esattamente cosa ha visto, ma ben sapendo che non se lo dimenticherà mai.

Poi ho visto El Juli fare di tutto per far dimenticare il semidio che lo aveva preceduto, compreso mettere lui stesso le banderillas, chiaro segno di famelica voglia di divorarsi tutta l'emozione possibile in un'arena. Poco purismo, molto senso dello spettacolo, straordinaria intensità, coraggio da ragazzino (un matto completo, per parlarsi chiaro), ruffianerie varie, classe sfrontata. Per la cronaca, le orejas se l'è giocate al momento di matar. Non ha trovato al primo colpo la moneta da 500, e da lì è stata un uccisione goffa, prolungata e penosa. Come un tenore che fa tutto da dio e poi stecca l'acuto finale. Qualcuno dei suoi ha accennato lo stesso a fargli fare un giro d'onore portandoselo sulle spalle: inferocito, lui li ha mandati in mona e si è fatto il suo giro a piedi, scuotendo la testa, e masticando amaro. Fiori e ovazioni su di lui, ma il ragazzino sapeva di aver perso, e non dev'essere una cosa che gli succede sovente. Josè Tomas, alla fine, se n'è uscito in trionfo dalla porta principale dell'Arena, come vuole la tradizione per chi ha vinto. El Juli se n'è scivolato via, imbufalito, dalla porta normale. Prima o poi, ci puoi scommettere, si ritroveranno uno di fianco all'altro in un'arena. Quel giorno, quell'arena non sarà un posto qualunque. (2. Fine)

La Repubblica, 11 maggio 2000
Nota: a seguito della pubblicazione di questi due articoli sulla Corrida, Baricco fu piuttosto duramente "attaccato" da alcuni lettori de La Repubblica; potete leggere qui la sua replica, pubblicata pochi giorni dopo.

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Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001