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Alessandro Baricco
Data di pubblicazione: 28/04/03


Riportiamo di seguito il post scriptum di Alessandro Baricco a "Partita spagnola" (la cui scena iniziale è disponibile qui) e pubblicato sulle pagine de La Repubblica.

È in realtà una sorta di prova generale di "Novecento" con diverse analogie piuttosto curiose. Scritta a quattro mani con Lucia Moisio negli anni Ottanta la sceneggiatura viene pubblicata soltanto ora .

La genesi delle storie è misteriosa, e forse perfino non importante. Ma certo sapere da dove vengono certe idee è una cosa che incuriosisce. È la domanda tipica dei lettori: ma come l´è venuta in mente quell'idea lì? In genere non so rispondere, ma è vero che in qualche modo le storie fanno una strada, nella nostra mente, a volte anche lunga: e ricostruire pezzi di quella strada non è forse completamente vano. Per cui aggiungo questa piccola nota, per dare cronaca di un curioso cammino che mi è accaduto di fare.

Non so se qualcuno, leggendo, se n´è accorto: ma Partita spagnola racconta una storia che poi io ho effettivamente riscritto: quando ho scritto Novecento. Giuro che non ci avevo mai pensato: mi è venuto in mente, dopo anni, quando ho ripreso in mano la sceneggiatura per cercare di capire se era effettivamente il caso di pubblicarla. Leggevo, e a un certo punto ho incominciato a capire e a trovare indizi uno dopo l´altro. Alla fine leggevo solo per trovare pezzi di Novecento, lì dentro. Era una specie di gioco.
Se ci pensate, il cuore della faccenda è lo stesso: c´è uno che sa fare una cosa da dio e, per assurdo, la fa in una situazione nascosta, protetta e confinata. E la fa per un numero di anni irragionevole, come un gesto da cui non riesce a uscire. Guarda caso, in entrambe le storie il protagonista è un musicista: il più grande cantante, il più grande pianista. Le situazioni sono completamente diverse (una corte settecentesca per Farinelli, un transatlantico degli anni '20 per Novecento): ma il succo è quello. È molto simile, anche, l´apparato di spiegazioni che vengono offerte per un simile assurdo. In entrambe le storie il narratore lascia la cosa piuttosto in sospeso: non ci sono spiegazioni forti per motivare quel che accade: il genio confinato sta lì un po´ per destino, un po´ per scelta, non è chiaro. In entrambe le storie c´è un momento in cui qualcuno inchioda il protagonista con le spalle al muro e gli chiede, tout court, perché resta lì, perché non scende dalla nave, perché canta sempre e solo quelle quattro Arie: sia Novecento sia Farinelli non rispondono. Non hanno una risposta, o, se c´è l´hanno, non pensano di doverla pronunciare. In un certo senso il loro destino si consuma nel vuoto di una sospensione, dove la mente del lettore (dello spettatore, visto che sono teatro e cinema), può vagolare, godendosi quell´incerto dondolio che, spesso, genera ciò che chiamiamo poesia.

Una simile idea si può declinare, è ovvio, in mille modi diversi. Però mi colpisce come, ad esempio, in entrambi i casi io abbia cercato la stessa geometria minima per fare da sostegno alla storia: nella sua reclusione, il genio ha un compagno di cella, un amico. Il trombettista, per Novecento, e Scarlatti, per Farinelli. Guarda caso sono entrambi musicisti, con tutta la complicità che ne consegue. Sono due spalle, e, tecnicamente, sono trattate esattamente da spalle. Sempre un gradino sotto, miti e simpatici, vagamente fallimentari, con una certa leggerezza. Se mi credete quando vi dico che scrivendo Novecento non ho mai pensato a Partita spagnola (neanche me la ricordavo più, posso aggiungere un particolare che la dice lunga sulla genesi sotterranea di quello che scriviamo: i due amici, in entrambe le storie, si incontrano la prima volta, da soli, quando uno dei due si è perso: il trombettista vagola per la nave durante una tempesta, si perde, e incontra Novecento. Farinelli vagola per il palazzo reale, si perde, e incontra Scarlatti. A ruoli invertiti, è la stessa situazione. Vedete che testa che abbiamo...

Potrei aggiungere che Novecento è orfano e Farinelli è un castrato: le loro storie nascono da una ferita originaria. Ma questo già mi puzza un po´ di critica semiologica, e mi dà fastidio. Più divertente mi sembra annotare che entrambi, a un certo punto, sostengono un duello: Farinelli con un trombettista (guarda caso...) e Novecento con un altro pianista. Così, tanto per rendere conto di tutto. E già che ci sono, mettiamoci anche che la costruzione del teatro sul fiume Tago mi ha ricordato molto il Crystal Palace di Castelli di rabbia: grande sogno che finisce, in tutt´e due i casi, in una solenne, e immaginata, catastrofe, con distruzione spettacolare del palazzo.

Cosa significa tutto ciò? Quasi nulla; probabilmente, ma intanto scoperchia un processo sotterraneo che può aiutare a capire come nascono, in noi, le storie. Se avessi scritto Partita spagnola tre mesi prima di Novecento, si tratterebbe di pura officina, della normale procedura di affinamento di un artigiano. Ma qui la cosa è più interessante, perché tutto ciò era assolutamente involontario e inconsapevole. Dal che si può forse imparare che il tempo passa ma le storie restano, hanno un cuore che continua a pulsare anche quando le lasciano scivolare nella dimenticanza, ed è un cuore che al momento giusto rispunta fuori e può andare a vivere in qualsiasi altro corpo troviamo per lui: e che alla fine solo quel cuore è veramente importante: è la ragione per cui quella storia è nata nella nostra mente, è il tratto unico e irripetibile e necessario del gesto creativo: tutto il resto essendo bellissimo ma ordinario lavoro da artigiani, sublime rammendo, straordinaria normalità. Mestiere.

Voilà. È quanto volevo raccontare. Mi sembrava una storiella curiosa. Che, tra l´altro, mi suggerisce due debiti di riconoscenza. Il primo è per tutti quelli che NON hanno prodotto Partita spagnola: se fosse diventato un film non avrei mai scritto Novecento, e non scrivere Novecento sarebbe stata una cosa orrenda. Il secondo debito è per Lucia: adesso si scopre che le devo anche un po´ della preistoria di Novecento. La lista si allunga...

La Repubblica, 28 aprile 2003