Il
soggiorno di Satana || Noia
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Vincenza nacque a S.Marco poco più di trent’anni fa, in un momento in cui la gente lavorava anche di notte nelle campagne del luogo, tutti presi a far quel salto di qualità, visto che si profilava un grande boom economico a causa dell’incremento del mercato ortofrutticolo che sempre più cercava strade d’esportazione verso i paesi esteri, come mai prima d’ora. Insomma, in una terra dove fino ad allora si coltivava per il latifondo, o al massimo a mezzadria, le singole famiglie contadine s’avviavano a diventare piccole imprese agricole. I piccoli proprietari, quelli che, intendiamoci, avevano la casa di proprietà e uno o al massimo due ettari di terra, sentendosi soddisfatti dei propri averi e superiori a qualsiasi colono della zona, non sfruttavano la loro terra e la loro forza lavoro solo per le proprie esigenze senza investire in quei piccoli frutteti come invece facevano gli affittuari, mezzadri o coloni che fossero, che sempre più investivano nelle terre dei loro padroni impiantandole in tal modo che diveniva difficile per i proprietari riprendersele senza un enorme riscatto di pagamento piante e spese varie che equivaleva a ricomprarsele. Ma ritornando a Vincenza, dicevamo, nacque in un contesto pregnante di queste premesse ove lotte quotidiane di arrivismo economico, gelosie verso il prossimo a tutti i livelli videro trionfatori tutti quelli che fino a quel momento avevano sofferto di invidia verso quei piccoli proprietari che da alcuni secoli non avevano poi tanto bisogno di lavorare per campare, verso coloro che non pagavano affitto e avevano di che mangiare, mentre quelli che le terre e le case le detenevano erano costretti a lavorare, oltre che per loro, per i padroni, senza avere la possibilità di riuscire a far niente di proprio. All’epoca i prodotti della terra non avevano tanto mercato e questo fino a quando, appunto, si trovò adolescente Vincenza, figlia di persone che non avevano mai dovuto tribolare granché se non per altre faccende, infatti lavorava soltanto il padre, avendo la casa di proprietà dotata di un bell’orto ove si sarebbero potuti piantare svariati alberi da frutto. Oggi Vincenza, trentacinquenne, vive nella stessa casa ormai semicadente e senza nessun miglioramento o abbellimento, con gli stessi mobili di allora e il suo bell’orto attaccato da piante selvatiche, a parte due alberi che a giugno forniscono poche e scadenti ciliegie che vengono di mala voglia raccolte. Vincenza lotta per mantenersi, ma non è in grado di darsi da fare, ogni suo tentativo è inconsistente, non avendo avuto una adeguata preparazione familiare al lavoro; perché ha sognato il principe azzurro; perché ha creduto che la sua angelica bellezza fosse eterna ed unica; perché crede di saper vestire e sapersi comportare in società; perché considera i suoi paesani, di cui spesso ha bisogno, rozzi e volgari. Vincenza ha vissuto a lungo con la sua vecchia madre che, se pur malata e malandata, come tutto l’universo di Vincenza, ha dovuto sbrigare per la figlia commissioni e faccende per le quali ella, non in grado di uscire per il paese senza una lunghissima preparazione per abbigliarsi, si contentava di mandare la madre letteralmente brancolando, una figura patetica che procedeva appoggiandosi ai muri delle case costituendo sempre motivo di raccapriccio per chi la vedesse. Vincenza era troppo egocentrica per capire e quantificare che la bella figura fatta apparendo agghindata e imbellettata non offuscasse l’apparizione penosa della madre, giocoforza, “faccendiera di casa”. Ma Vincenza a sua discolpa s’era inventata una malattia mentale che serviva a farla stare meglio e a fugare l’ombra su ogni possibile responsabilità e che a diciotto anni le valse per farla sentire diversa dagli altri, condizione alla quale lei su ogni cosa aspirava. Le continue delusioni sentimentali, alle quali andava incontro come una saetta, rinforzavano questa convinzione perché la sua educazione le imponeva terribilmente il giudizio della sua condotta morale, e nelle sue relazioni la povertà della realtà, rispetto alle aspettative iniziali, non riuscivano a farla sentire ripagata ed era perciò più opportuno proclamarsi matta. In ciò Vincenza fu aiutata anche dai familiari che, avallando le sue esternazioni di follia, temendo a loro volta l’onda e la vergogna per un giudizio morale che sarebbe piovuto anche su di loro che li avrebbe incolpati di un qualcosa nei confronti della ragazza. Il paese, d’altro canto, vedeva nella ragazza un caso clamoroso rispetto alla normalità e amava la follia di Vincenza, ciò per alimentare il filone che avrebbe rotto la noia delle notizie quotidiane. La follia di Vincenza, infatti, faceva notizia di per sé senza bisogno che ci fossero forti interessi dettati dall’avversione di qualcuno nei suoi confronti o in quelli della sua famiglia. Vincenza sa adesso che non è matta e che ha passato la sua giovinezza costruendo questa strana armatura. Il suo rifiuto degli altri avveniva senza che si prendesse il disturbo di approfondire la conoscenza di nessuno, giacché era volata su un piedistallo senza aver salito scale né averle discese. La morte del padre non ebbe l’effetto di riportarla con i piedi per terra, anzi maggiormente la trascinò in vaneggiamenti e fantasie che mitizzarono la figura paterna. Di contro precipitò la stima per la madre da lei spesso maltrattata e vituperata fino al punto in cui rimarrà ossessionata dai sensi di colpa nel momento della dipartita della vecchia. Riscatterà la tanto condannata figura materna nel momento in cui sola, avrà tempo per riflettere su se stessa e ne sentirà forte la mancanza che, concretamente, Vincenza non mitizzerà forse perché troppo avanti negli anni per non cercare di sopportare il suo dolore in riserbo.
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