Vincenza
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Si fa fatica ad
immaginare che il “Diavolo” in quel dicembre caldo molto più caldo degli
anni passati , in quel dicembre, dicevamo, del
1985 potesse trovare piacevole sostare in un anonimo paesino dal nome di
un famoso santo e in atmosfera natalizia per giunta, la quale come si sa rende
tutti più buoni e comprensivi, più fedeli
e più tolleranti.
A Daniele fu preparato un soave e bianchissimo lettino,
curato e ben fatto nei minimi particolari in una stanzetta dal gusto spartano
con pochi mobili, e che, in genere, avrebbe dovuto essere quella degli ospiti.
Ancora una volta ringraziò per la cortesia e diede a tutti la buona notte, poi
si rinchiuse nella camera. Diavolo
era finalmente se stesso e cominciò a rimuginare su quelle cose e su quelle
persone con cui era entrato in contatto e dovette riconoscere di sentirsi
piuttosto stanco, come se quell’aria e quell’atmosfera avessero avuto il
potere di snervarlo “Sono abituato a ben altro, ci mancherebbe!-
ma non si convinse e continuò a dirsi- figuriamoci se un branco di
sprovveduti sempliciotti possono mettermi
in crisi- e pensò ancora- combatto con la miscredenza e il cinimo degli uomini,
con la raffinata intelligenza dei metropolitani così disincantati, con
l’insensibilità dei mistici, con l’ottusità degli scienziati, non mi farò
scalfire l’anima da questa brava gente”. Si mise a letto e si addormentò
come un sasso, al risveglio l’indomani dovette anche ammettere che da tempo
non gli accadeva una cosa del genere, forse non gli era mai successa. Per non
spaventarsi dovette sforzarsi di pensare al programma in quel suo nuovo giorno a
S.Marco.
Decise di vestirsi in maniera sobria credendo che in tal
modo la curiosità della gente sarebbe stata più contenuta, poi l’ansia
cominciò ad impadronirsi di lui creandogli qualche problema. Soprattutto in previsione del giro che Luisa gli aveva
promesso di fargli fare per conoscere i suoi amici. Luisa era particolarmente
attraente: quel rossore sulle gote, quegli occhi grigi, rotondi e brillanti,
forse per tutte le aspettative riposte nell’evento Daniele a S.Marco.
Giovanni era un ragazzo amico di Luisa sin dalle scuole
elementari e col quale ella non aveva mai avuto un rapporto così particolare,
ma non c’erano mai stati scontri fra di loro, ecco, forse perché Luisa non
gli dava grande importanza, ma, per l’occasione, fu il primo “banco di
prova” la conoscenza del primo sanmarchese, chiaro. Diavolo trovò il ragazzo
piuttosto scialbo: nemmeno l’aspetto fisico era accettabile! Magro, rachitico
come da tempo non se ne vedevano più, un ragazzo dall’aria spersa e triste
come se avesse seri problemi ad aver voglia di vivere nonostante la sua giovane
età. Troppo depresso, Giovanni apparteneva a quella parte dei sanmarchesi
“aspiranti suicidi”, ma Diavolo non poteva certamente incuriosirsi per
costoro, erano gli altri che lo interessavano, i pettegoli, i maligni,
gl’invidiosi, quelli attaccati ala vita, insomma e che avevano reso ragazzi
come Giovanni inservibili, emarginati, da buttare. Sapeva però, guardando lo
stato della vittima Giovanni, che doveva quindi esserci una categoria di
individui, se non addirittura tutta la popolazione, i perniciosi.
Queste persone hanno il culto dell’essiccazione della
massa cerebrale altrui, portandoti alle soglie della morte, facendoti perdere
autonomia, padronanza e gestione di te. “Ma
come?- richiese D.- come poteva avvenire tutto ciò?”
Daniele chiese a Luisa se gli abitanti fossero in aumento o in
decremento, ella non riuscì a rispondere, perché effettivamente non lo sapeva,
disse che durante l’estate e le feste c’era un aumento notevole “per
quelli che lavorano fuori” e con questa strana definizione prese il ragazzo
sotto braccio portandolo in prossimità di una vecchia casa dall’aspetto di
dimora del signorotto del paese. Intendiamoci:
il signorotto di quel paese non è che avesse maggior blasone dell’esser
medico o avvocato o maestro o prete del paese stesso, ma ciò era bastante per
elevarlo sugli altri e conferirgli un ruolo di effettivo dominio, in virtù del
quale era onorato e rispettato come un tempo si faceva a chi deteneva un titolo
nobiliare. Entrando nel portone di quella casa, Daniele sentì l’esigenza di
conoscerne i proprietari, o meglio gli abitanti, voleva sapere subito se si
trattasse subito di “perniciosi”. Sulle prime rimase deluso, ma si interessò subito al
comportamento gentile e formale che gli fu rivolto, anche se si trattava di
amici di Luisa. Si sentì guardato
e osservato e talora velatamente interrogato anche se in maniera completamente
diversa da quelli conosciuti precedentemente e notò che la maggior cultura e
ricchezza di queste persone, la maggiore vivacità dialettica, camuffassero ogni
evidente curiosità per il nuovo arrivato. Ma ciò che maggiormente lo
tranquillizzò sulla vera natura di quelle persone fu l’atteggiamento di
Luisa, troppo impegnata a fissarli soprattutto quando raccontava di D. e del
modo in cui lo aveva conosciuto (il
racconto massicciamente aggiustato e addolcito di fantasie e commenti esagerati
ed entusiastici). D. ancora una volta era perplesso se dover considerare questa
gente come “semplice”
oppure, nonostante tutto, vista la persistenza nel restare così, seppur
circondati da un mondo artificioso e sofisticato, non avessero conosciuto una
sapienza e una complessità tali da aver concluso essere superiore a quello che
D. con certezza definiva modernità. S.Marco, essendo piccolo paese agricolo,
era abitato da gente che praticava l’autarchia familiare, ovverosia che,
all’interno della propria famiglia era in grado di provvedere a tutti i generi
necessari per vivere riuscendo a riservare anche una porzione per la vendita e
ricavarne il contante necessario per il pagamento di tasse, luce, telefono e
vestiaro ( quest’ultima voce riguarda soprattutto i giovani). Tutti
eccessivamente parsimoniosi per quanto riguarda il danaro, avevano la mania di
depositarlo alla posta, i vecchi in particolar modo che per se stessi compravano
soltanto le medicine quando esse non erano prescrivibili. Uno stretto controllo
reciproco che veniva in tutti i modi possibili rendeva la privacy inesistente
per ognuno, e pare che se qualcuno volesse per esigenze un po’ diverse alla
media dei paesani, sfuggire al controllo, diventava immediatamente un “tipo
sospetto”.
Quando, per esempio, avveniva che le donne munite di patente
e di auto potevano sbrigare autonomamente fuori del paese commissioni e faccende
varie, erano delle donne sospette. Avveniva, inoltre, alle persone che avevano
ideali spirituali o che solamente volessero praticare della filantropia,
avveniva per chi avesse deciso di diventare una personalità senza il loro
benestare, avveniva semplicemente per chi pensava che i fatti propri fossero
appunto una faccenda propria e di nessun altro. A proposito delle persone più
riservate, esse a contatto con i sanmarchesi, lo diventavano molto e molto di più
per reazione naturale. C’è da dire che contro di essi veniva fatta una vera e
propria guerra senza nessuna esclusione di colpi, dalla provocazione, alla
diffamazione, alla calunnia, approfittandosi del fatto che tipico di questo tipo
di persone è di non uscire allo scoperto per difendersi o smentire, nel
frattempo, anzi, egli è l’unico che non ha nessun modo di sapere quanto sia
grande la nuvola denigratoria che gli sia stata configurata, si troverà quindi
ad avere a che fare con una diffidenza e mal disposizione nei suoi confronti
anche nel momento in cui andrà a comprare il pane dal salumiere poiché, si sa,
“la diceria” è sempre decuplicata dal momento della sua prima esposizione.
Ma la persona riservata, ben presto emigrerà di fatto o con gli interessi da
quell’ambiente. Le vere vittime di quel paese sono i giovani che per la loro
stessa natura spodestano i vecchi, e
questo, non tollerato da costoro, combattono con forza d’animo di guerrieri.
Giunse alle orecchie di D. una storia allucinante che narrava di una convivenza
tra figlia sposata con un bambino e madre anziana. Quest’ultima riuscì ad
imporre alla figlia di non avere altri figli durante tutto l’arco della loro
convivenza, e appena la povera ragazza fu nuovamente incinta, senza nemmeno
dirlo alla madre, trovò casa e se ne andò da quella materna nonostante
versasse in condizioni di indigenza. Questa
è una storia accaduta quando si credeva che la gente fosse più bonaria e
tollerante ed è anche la prova di una tradizione maligna tramandata di
generazione in generazione e si è consolidata attraverso il rancore e il
risentimento. Il risultato di ciò è l’invecchiamento dei giovani prima di
aver vissuto la propria vita soggiogati in un timore continuo degli altri che
sono stati figli di altri e che precedentemente si erano già fatti del male.
L’odio e il pregiudizio degli antenati si riflette sugli eredi, e gli eredi
stessi si sentono predestinati a fare la fine dei propri avi. Forse si potrebbe
spiegare così il senso della vita dei sanmarchesi che diventa così esistenza
coatta e prigioniera sempre legata comunque al paese anche quando se ne è
usciti, il risentimento per le brutte esperienze d’infanzia si porta addosso
ovunque e in età adulta si trasforma in desiderio di rivalsa nei confronti di
un paese che non ha dato nulla e
per il quale non c’è posto per la speranza che al proprio ritorno esso possa
essere cambiato. Ma quel paese deve essere lo stesso che si è lasciato perché
la vendetta deve aver luogo e così si ricomincia da capo e si apporta nuovo
risentimento rigeneratosi nei ricordi, rinforzatosi con la lontananza fisica.
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