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IV. IL BIANCO E NERO PER VAN GOGH

 
 

 

IV. 1. Disegnatore “al suo meglio”

IV. 1. 1. “L’origine di tutto è il disegno”[1]

 Se Van Gogh, “iniziò la carriera artistica come disegnatore e non come pittore fu per una scelta precisa e voluta”[2], infatti, cominciò realmente a dipingere solo dopo qualche anno di approccio e studi con il disegno. Secondo lui, infatti, la strada più giusta è quella di esercitarsi prima con il disegno perché “è più facile passare dal disegno alla pittura che viceversa, cioè fare dei dipinti senza averne disegnato prima gli studi necessari”[3] secondo lo stesso Vincent, “l’origine di tutto è il disegno”.

È ovvio, ad ogni modo, che questa strada era necessaria per arrivare al colore e ai dipinti, l’uno compensa, determina e coinvolge l’altro reciprocamente, ma non bisogna mai scordarsi che i disegni devono essere ammirati per se stessi e non in modo inferiore rispetto ai dipinti.

Ci dice Pellegrini in relazione proprio ad una raccolta di disegni di Van Gogh, “colore, vento, sole, terra, poesia, umanità e amore, fino alla disperazione riempivano le tele e i disegni di Vincent”[4], inscindibilmente assieme si completano: è un errore sottovalutare i disegni; conoscendo l’opera di Van Gogh solo dal punto di vista pittorico, ignorando quindi i disegni, si procede con una grande lacuna, perché anche con essi “l’espressività raggiunge (…) le maggiori vette della tensione” e “i disegni non sono fatti (solo) di volumi, di massa, di chiaroscuri; sono costituiti da luce, aria e colore, malgrado siano eseguiti a bianco e nero”.

 

IV. 1. 2. “Disegnare è un po’ come scrivere”[5]

Il processo di apprendimento del disegno richiese una dura pratica e una costante applicazione, come sempre, da parte di Van Gogh ed essi stessi illustrano tale processo evolutivo, fatto di delusioni come di successi.

“Disegnare è un po’ come scrivere. Quando si impara a scrivere da bambini sembra impossibile riuscire un giorno ad esserne veramente capaci (…) ciononostante tutti, a tempo debito, ci riescono. Io sono convinto che si deve imparare a disegnare così come viene, con la stessa facilità con cui si scrive; si devono avere le proporzioni chiare nella mente e si deve imparare a guardare in modo tale da poter riprodurre a proprio piacere” qualsiasi soggetto e dimensione.

Le difficoltà sono molte perché non sempre riusciva a vedere nei disegni quello che avrebbe voluto che fosse, ma sapeva che, tali difficoltà, non si potevano superare “al primo colpo”; “in realtà io non penso molto alle difficoltà, proprio perché se si incomincia a preoccuparsi per queste, si fa in fretta a perdere la chiarezza delle idee e a rimanere confusi. Un tessitore che deve lavorare con tanti fili e tesserli uno dentro l’altro non ha tempo di filosofare sul come facciano ad intrecciarsi, ma è invece così immerso nel suo lavoro da non pensare, ma da agire ed è più preoccupato del fatto che tutto possa funzionare perfettamente piuttosto che del fatto di volerne dare una spiegazione”[6].

La velocità e la praticità cui aspirava nel disegnare, arrivò però solo ad Arles nel 1888, quando lo stesso Van Gogh ebbe la sensazione di aver raggiunto la rapidità desiderata. Solo qui, si sentiva più padrone del suo disegno, grazie al sud che secondo lui somigliava all’oriente, grazie all’influenza dell’arte giapponese: “I giapponesi disegnano in fretta, molto in fretta, come un lampo di luce, perché la loro sensibilità è più sottile, i loro sentimenti più semplici. Sono qui solo da pochi mesi, ma dimmi un po’, avrei potuto fare il disegno delle barche in un’ora a Parigi? Neanche con il quadro di prospettiva, mentre questo è fatto senza misurare, lasciando correre la penna”[7].

Van Gogh era sempre conscio del conflitto fra un’accurata costruzione della composizione da una parte, e la velocità del disegno, che d’altra parte si augurava. Lui “è l’artista dell’andamento fluido, la concentrazione sui piccoli particolari non rientrava nella sua natura”[8], ma sapeva che una lunga e intensa pratica con il disegno lo avrebbe fatto “disegnare alla velocità del lampo e, a disegno completato, di dipingere alla velocità del lampo”[9].

Vincent era convinto che solo il continuo esercizio poteva portare, al momento giusto, a creare in base all’abitudine e a non dover più avere bisogno di andare alla ricerca di qualcosa d’altro, infatti sperava “di riuscire a fare il maggior numero possibile di studi, perché questo è il seme da cui poi nascono i disegni”[10]; è evidente che per lui fare degli studi era come seminare e quindi fare disegni è come raccoglierne i frutti. Fondamentali per lui erano sia gli studi disegnati che i disegni definitivi derivati da questi, dopotutto è la stessa distinzione che farà anche in seguito tra gli studi e quelli definitivi dei dipinti. Si comprende più facilmente questa distinzione in un passo del saggio critico di Pickvance in cui afferma che “i disegni presentano un loro complesso sistema grafico che trasmette differenti messaggi in codici analogici (…) sistemi grafici che non sono fini a se stessi; essi sono adattati all’obiettivo del disegno e alla sua destinazione, e Van Gogh ha sempre fatto una distinzione tra un rapido schizzo dal vivo e un disegno concepito ed eseguito con maggior deliberazione”[11], distinzione quindi tra étude e tableau, come nei suoi lavori pittorici.

 

IV. 1. 3. Fonti d’ispirazione per i soggetti rappresentati

Una delle ambizioni dell’artista era di diventare un illustratore di riviste: fin dall’infanzia aveva condiviso, con il fratello Theo e la sorella Wil, la passione per la collezione di illustrazioni, sia semplici illustrazioni fatte per le riviste, sia riproduzioni di opere d’arte esistenti. In seguito, parla nelle lettere di queste illustrazioni che lo affascinano tanto, anche con il suo amico e collega Anton van Rappard; Vincent ci fa percepire questa passione, per questi disegnatori, che rappresentano proprio la gente comune “è sempre lo stesso ed unico sentimento, nobile e vigoroso e al quale si continua a ritornare”[12], questa passione e collezione lo incoraggiano per il suo lavoro: “in tutta questa gente vedo un’energia, una forza di volontà ed una mente aperta, integra, viva che stimola”[13], infatti, lo stimolano proprio come fonte d’ispirazione per i suoi soggetti.

Perché nessun soggetto era troppo umile per Van Gogh e grazie a quelle illustrazioni, maturò la sua attenzione per i soggetti di vita quotidiana, che cercò di elevare al di sopra del loro livello aneddotico, per dar loro un’importanza, che permettesse a chiunque di entrare nel loro reale spirito rappresentato, come era accaduto del resto, a lui stesso, per le illustrazioni che aveva ammirato.

Le illustrazioni delle riviste furono una fonte di ispirazione per Vincent, non solo per i soggetti, ma soprattutto per la tecnica in bianco e nero che lo attraeva moltissimo: “in molti casi il bianco e nero è un metodo necessario per poter mettere sulla carta in un tempo relativamente breve effetti che, in qualsiasi altro modo, perderebbero qualcosa di quello che io chiamo spontané”; é convinto, infatti, che quei disegni sarebbero stati meno toccanti e carenti di significato se fossero stati dipinti.

Inoltre, afferma: “c’è qualcosa di virile, di violento nel bianco e nero che mi attrae moltissimo”[14] e questa sorta di spontané e di forza espressiva la porterà indiscutibilmente anche nella sua opera grafica.

 

IV. 2. I materiali per rendere il bianco e nero

IV. 2. 1. Cosa usava Van Gogh per disegnare

Purtroppo la tecnica usata da Van Gogh per disegnare è stata trattata raramente negli studi a lui dedicati. Ma perché tutto questo? In fondo lo stesso Vincent si preoccupava molto dei mezzi e delle tecniche che poteva usare, come sempre, le sue lettere ce lo raccontano: la matita, il carboncino, il gessetto nero, il gessetto litografico, il gessetto italiano, gli inchiostri. Questi i suoi materiali, i mezzi espressivi che lo affascinavano perché sapeva che lo avrebbero aiutato ad ottenere, fino in fondo, quello che voleva rappresentare.

La disattenzione verso i mezzi e le tecniche usate nei disegni da parte degli studiosi di Van Gogh evidentemente è avvenuta non per disinteresse verso di essi, ma per la difficoltà ad identificarli, sia ad occhio nudo e sia con lenti d’ingrandimento, anche perché spesso Vincent usava tecniche miste; gli errori di identificazione delle tecniche per il disegno sono frequenti, perché è facile scambiare, ad esempio, il gessetto nero per il carboncino o la matita e, addirittura, nelle descrizioni delle stesse opere, presenti alle mostre dedicate ai disegni, a volte, si fa riferimento a dei mezzi che, al tempo di Vincent, non erano nemmeno a disposizione.

Gli studiosi che si sono cimentati in questa analisi spesso, come Ronald Pey, si sono dovuti concentrare solo su alcuni disegni, i più rappresentativi di Van Gogh e analizzarli attraverso il microscopio (fino a cinquanta ingrandimenti), proprio per distinguere dettagliatamente le varie tecniche nel particolare, infatti “a forte ingrandimento essi appaiono spesso con forme caratteristiche (…) le linee a matita, ad esempio, brillano come metallo; il gessetto italiano contiene un ammasso di cristalli rilucenti, scuri, bianchi e limpidi; e le linee del carboncino appaiono come se fossero ‘esplose’, spargendo intorno gli innumerevoli piccoli aghi neri ed abbaglianti che le circondano”[15].

Spesso e per lungo tempo è accaduto che si desse per scontato che i materiali usati da Vincent fossero gli stessi dei giorni nostri, ma nelle ricerche fatte per la commemorazione dei cento anni dalla sua morte si notò che i materiali da lui usati erano molto spesso diversi dagli attuali e quindi non si poteva generalizzare su una tecnica o l’altra apparentemente usata dall’artista.

Come ci fa intendere Pey, per riconoscere le caratteristiche è stato necessario prendere in esame i documenti che riguardavano la composizione dei materiali usati nel disegno del secolo scorso, consultando brevetti d’invenzione, trattati di chimica e libri di ricette del tempo, che, uniti alle informazioni desunte dalle stesse lettere dell’artista, hanno dato un quadro completo delle sostanze dei suoi disegni.

 

IV. 2. 2. La matita

Uno dei primi mezzi usato da Van Gogh per avvicinarsi all’arte è la matita[16]. Cominciò prima ad usare quella della Faber[17], ma la sostituì presto con la matita da carpentiere, che usò nel periodo dei disegni dell’Aja. Era affascinato da quest’ultima, per la mina grossa che gli permetteva al meglio di esprimere le proprie impressioni, la scelse sulla scia e l’esempio degli antichi maestri, come Dürer e Michelangelo, che, secondo lui, non potevano disegnare con le Faber ma solo “con un pezzo di grafite naturale (…) probabilmente molto simile ad una matita da carpentiere”[18].

Nell’estate del 1883, scoprì però “una specie di matita Faber” che era più morbida e di qualità migliore delle “sue” matite da carpentiere, secondo Vincent, essa produceva un “nero meraviglioso” che poteva usare per i grandi studi.

 

Figura  1 Uomo dell’ospizio con lungo cappotto e bastone, L’Aja 1882

 

La straordinarietà di Van Gogh, nella sua tecnica grafica, sta nei suoi tentativi per riuscire ad eliminare il luccichio metallico e lo spandersi della matita sul foglio attraverso vari agenti di fissaggio; arrivò alla conclusione che solo il latte, diluito ad acqua, riuscisse a tanto ed inoltre rendeva le linee a matita di un aspetto “singolare e intensamente nero”. Un esempio di questa singolare soluzione si può notare nel disegno “Uomo dell’ospizio con lungo cappotto e bastone” (fig. 1), fatto interamente a matita morbida su carta spessa da acquerello. Interessante è l’alone sottile intorno alla figura dell’uomo, che ci attesta l’utilizzo del latte, diluito ad acqua, come fissativo del disegno, che al microscopio appare come uno strato oleoso di polvere bianca.

 

IV. 2. 3. Il carboncino

Van Gogh usò spesso il carboncino come sfondo ad altre tecniche dei suoi disegni (fig. 2), ma lo usò anche per gli schizzi; lo usava quando aveva già in mente dei soggetti da dipingere, volendosi esercitare su schizzi a carboncino di grande formato.

 

Figura  2 Statuetta in gesso - Parigi 1886

 

Come sempre, da autodidatta, consultò libri sull’argomento e fu incoraggiato ad usare il carboncino anche dal cugino Anton Mauve, grande maestro della scuola dell’Aja, ma si accorse che non era facile usarlo in modo esatto: i suoi progressi erano lenti e spesso Van Gogh perdeva la pazienza ma come sempre perseverò.

Ciò che lo scoraggiava maggiormente era che il carboncino si cancellasse facilmente, facendogli perdere l’effetto che voleva rendere, quindi doveva lavorare con cura e attenzione estrema, anche se, non era nel suo stile usare con cura i mezzi per disegnare, soprattutto perché rallentava il suo lavoro e l’ansia di produrre.

“Il carboncino costituiva un ostacolo anche nella realizzazione dei dettagli nel disegno: è difficile tracciare linee minute con una sostanza che si rompe facilmente e richiede una grande abilità da parte dell’artista”, dice Pey. Ma la situazione d’approccio con il carboncino migliorò con la scoperta di un agente di fissaggio, che gli diede la possibilità di lavorare con altri materiali nello stesso schizzo.

Questa tecnica non la considerò mai un mezzo ideale per i suoi lavori, preferiva sempre usare la “matita da carpentiere”. A tal punto che spesso rielaborò gli schizzi a carboncino con altri mezzi grafici, come il gessetto italiano e l’inchiostro da stampa.

Aveva la conoscenza di un tipo di carboncino impregnato di olio che lo avrebbe aiutato e facilitato nel rendere gli effetti del segno che desiderava, Vincent sapeva che gli avrebbe prodotto una linea nera, liscia e vellutata, ma la sua costante era che agli inizi della carriera di un artista non si doveva ricorrere a mezzi che producono troppo facilmente effetti gradevoli e a proposito di questo, ci dice Pey: “voleva raggiungere un’assoluta padronanza della tecnica del disegno, senza alcun trucco” o facilitazione, Vincent, voleva che “la bellezza dovesse (non) prendere forma dal materiale” [19] che usava, ma da se stesso.

 

Figura  3 Nudo femminile, seduto - 1886

 

Si conoscono pochi schizzi eseguiti unicamente a carboncino e ne è un esempio “Nudo femminile, seduto” (fig. 3), l’effetto delle ombre è il risultato del tratteggio fatto a carboncino e rifinito con lo sfumino; qui si nota anche la sua difficoltà a disegnare i dettagli con questo mezzo, infatti, sia le mani che i piedi sono tracciati maldestramente senza forme ben dettagliate. Questa difficoltà, ad esempio, negli stessi disegni a matita non è presente, come si può facilmente notare confrontandolo con “Uomo dell’ospizio con lungo cappotto e bastone” (fig. 1).

 

IV. 2. 4. Il gessetto nero

Van Gogh ripeteva spesso nelle lettere che usava un gessetto nero, detto comunemente Conté, a volte in forma di bastoncino e talvolta fissato nel legno come una matita. Nonostante lavorasse spesso all’aperto, con questo mezzo, come ad Etten e all’Aja, pensava che non era molto adatto per lavorarci alla luce diretta e abbagliante del sole, con cui non riusciva a capire fino a che punto avesse ottenuto il nero da lui voluto. Preferiva, infatti, usare la grafite della matita all’aperto, perché più grigia, e, poteva essere resa più scura in seguito, magari ombreggiandola con la penna e l’inchiostro.

Altre problematiche non lo rendevano soddisfatto dell’uso del Conté, come nella qualità troppo dura del gessetto che produceva graffi e che senza supporto in legno era troppo piccolo per essere tenuto in mano, ma dopotutto anche questo supporto lo disturbava perché il gessetto, in questo modo, si rompeva facilmente. Non lo soddisfaceva a pieno nemmeno il tratto ottenuto: un nero troppo uniforme, un effetto che Van Gogh vedeva come qualcosa di “morto o simile al ferro”[20].

Pey ci fa notare che, Van Gogh, per aumentare l’effetto del gessetto nero “talvolta bagnava il disegno per poi lavorare sulle parti oscure come se dipingesse (le faceva ‘scorrere’), ed infine ‘toglieva di nuovo la luminosità’ (…) raschiava via il gessetto dalle parti chiare”. Quindi la maggior parte dei disegni in cui appare il gessetto nero, sono lo stesso rifiniti con altri materiali e sono per lo più paesaggi, mentre i principali soggetti dei disegni in cui usava solo questa tecnica erano studi di figure, di braccia, gambe, mani e piedi.

“Contadina chinata, vista da dietro” (fig. 4) è un esempio di disegno eseguito con gessetto nero: si può notare sfumato in diverse parti per ottenere il chiaroscuro ed è stato poi fissato con il latte. Pey ci racconta che al microscopio il velo di latte sopra l’immagine “appare come un superdiluito”, applicato con un pennello e “l’alone oleoso che circonda la figura ne segue in gran parte il contorno esterno e si può vedere in modo particolarmente chiaro, ad occhio nudo, tra la testa e la mano dove appare come una linea verticale”, ma pare che non usò questo suo agente di fissaggio su tutta la superficie del disegno, lasciando scoperte alcune parti, come la piega all’estrema sinistra, i tratti nella parte alta del foglio, che appaiono leggermente più scuri rispetto alle parti coperte dal latte.

 

Figura   4 Contadina chinata, vista da dietro - Nuenen, 1885

 

IV. 2. 5. Il gessetto litografico

Proprio perché Van Gogh sperò di poter lavorare come illustratore, fece regolarmente dei disegni, che Theo avrebbe dovuto far vedere a degli editori. Illustratore che, ovviamente, intendeva doversi impadronire della tecnica di stampa litografica, con cui venne a contatto quando si trovava all’Aja.

Il gessetto usato per disegnare sulla pietra litografica lo aveva colpito particolarmente a tal punto che lo voleva provare anche su carta e bastò poco che fu preso totalmente da questo mezzo, ne era “impegnato, anima e corpo, (…) a farne un mezzo utile e adatto”[21].

Questo materiale è oleoso e rende impossibile la cancellazione dei tratti dalla carta, impedendo le correzioni, ma Van Gogh pensò bene prima di tratteggiare il soggetto con la matita da carpentiere, lo fissava con il latte ed infine lo rielaborava con il gessetto litografico che gli aderiva meglio del gessetto Conté; a volte lavorava con questo mezzo, anche su un disegno di gessetto nero bagnato, per rendere un particolare nero non definito e preciso; infine, per evidenziare le parti più chiare, nel disegno a gessetto litografico, usava un colore bianco opaco e per quelle più scure, spesso, aggiungeva tratti di pennello, di penna o d’inchiostro.

Purtroppo è molto difficile riconoscere quali disegni effettivamente siano stati eseguiti con il gessetto litografico, perché a distanza di più di un secolo dalla loro esecuzione il gessetto in questione cambia d’aspetto, rispetto ad un paragone con quello fresco, solo un’attenta analisi chimica su un campione potrebbe aiutare in tal senso, infatti, Pey ci fa notare che al microscopio “una linea fresca di gessetto litografico ha un’apparenza del tutto diversa da quella che presentano le linee del disegno ormai centenario di Van Gogh: la prima mostra ’scaglie’ caratteristiche semi-dritte, mentre nel disegno di Van Gogh il gessetto asciugandosi ha formato una massa solida quasi uniforme”.

 

Figura   5 Testa di pescatore con cappello da pioggia - Aja 1883

 

Questo mezzo è usato ad esempio in “Testa di pescatore con cappello da pioggia” (fig. 5) e Pey ci fa notare che sulla carta per l’acquerello ha disegnato a matita il viso e sono stati “rinforzati con l’inchiostro” gli occhi e il naso, poi, ancora nel viso, nel cappello e nella giacca “sono lumeggiati con il bianco” e “la giacca ha una profondità ancora maggiore” ottenuta con una sorta di pittura nera, probabilmente acquerellata.

 

IV. 2. 6. Il gessetto italiano

“Il gessetto italiano è ricco di suoni o toni”[22] un entusiasmo da parte di Van Gogh, verso questo materiale unico, descritto usando toni lirici, rispetto ad altre tecniche, e, ancora: “Direi quasi che questo gessetto capisce quello che gli chiedi, ascolta con intelligenza e ubbidisce, mentre il Conté è indifferente e non è disposto a collaborare” e ancora “è come se ci fosse anima e vita”, comparando questa “anima” del gessetto italiano con quella di un gitano tanto da suggerire di poterlo chiamare “gessetto gitano”.

Vedeva davvero, in questo gessetto, maggiori qualità rispetto al Conté, soprattutto per il colore ottenuto, descritto come “caldo e speciale nero” e “il colore di una terra arata in una sera d’estate”; non faceva graffi e permetteva di ottenere diversi piani di sfumature, anche attraverso delle cancellature, eseguite attraverso la mollica del pane.

L’effetto non graffiante è un’osservazione sorprendente da parte di Van Gogh, come ci fa notare Pey “a quei tempi la qualità di questo materiale era assai scarsa[23]” per questo era caduto in disuso, ma è evidente che ne aveva trovati alcuni di alta qualità.

Per le ombreggiature più scure e quindi per i forti contrasti, nonostante le numerose possibilità di sfumatura che gli offriva il gessetto italiano, Vincent, usò il gessetto litografico e spesso rifiniva i disegni con carboncino, inchiostro di penna, nero di seppia o inchiostro da stampa.

Entusiasta di questo materiale, però, fu un po’ limitato nell’usarlo, perché, anche se, un mezzo conosciuto, non era facile trovarlo e soprattutto reperirlo di buona qualità.

Il gessetto italiano usato da Van Gogh era generalmente di colore nero-brunastro e Pey ci riferisce che sotto il microscopio appare abbastanza spento e secco, mentre a volte presenta una sorta “di dentellatura e il materiale contiene piccolissimi cristalli di forme diverse, privi di colorazioni o tendenti al bianco”.

 

Figura   6 Mensa dei poveri – Aja 1883

 

Queste caratteristiche sono ben evidenti in “Mensa dei poveri” (fig. 6), dove si nota “la calda tonalità del gessetto italiano”[24]; per ottenere il massimo effetto di chiaroscuro in alcuni particolari, come lo sportello centrale, è evidente che abbia applicato con forza uno spesso strato di gessetto, mentre alcune parti sono state lumeggiate con il bianco, come la cuffia della ragazza di fronte, il contorno della donna dietro lo sportello o il bambino in braccio sulla sinistra.

 

IV. 2. 7. Gli inchiostri 

Era abitudine di Van Gogh nei suoi primi momenti di impatto verso la sua carriera artistica di iniziare i suoi disegni a penna, prima con uno schizzo a matita, da cui poteva prendere forma anche tutto il disegno e poi rielaborava il tutto con l’inchiostro e, come di sua abitudine, poteva aggiungere anche altri materiali, per ravvivare il disegno con contrasti di chiaroscuro o anche attraverso dei gessi colorati.

Vincent preferiva usare mezzi che potevano tracciare dei segni e linee larghe, come si è visto in precedenza, è per questo che non ci sorprende che spesso combinava l’uso di una penna sottile con l’inchiostro autografico, detto anche oleoso, che gli dava un flusso spesso: “Le penne molto sottili come le persone molto eleganti sono spesso sorprendentemente inutili”[25], questo pensava Van Gogh, proprio perché, a differenza di queste ultime, i tratti, magari più morbidi e intensi, della penna d’oca, erano molto più affini ai suoi gusti. Fin dal periodo di Etten cominciò ad usare e ad apprezzare la penna a cannuccia, appunto, con il suo largo tratto, che gli divenne poi inseparabile negli anni successivi.

Inizialmente considerò i suoi disegni a penna una sorta di preparazione per le future acqueforti che aveva in mente di fare in futuro. Per questo tipo di disegni principalmente si ispirava con i lavori di Millet, da libri di esempi e ovviamente dai soggetti della natura. Ma con il tempo, gli scopi dei suoi disegni a penna maturarono da semplici esercizi a studi preliminari per i suoi dipinti.

Vincent, ci fa sempre notare Pey, “trovava che lo studio di un soggetto da dipingere poteva essere fatto più dettagliatamente con la penna che con la pittura (e) a questo studio ne seguiva un secondo fatto con la pittura per le impressioni cromatiche”[26].

Ci fu però una nuova evoluzione in Francia. Infatti, faceva spesso schizzi a penna basati su dipinti già terminati, per dare un’idea dei lavori che stava facendo ai suoi corrispondenti.

Gli inchiostri da lui più usati sono di colore nero o marrone: il primo d’inchiostro indiano, autografico o quello da stampa; l’altro probabilmente d’inchiostro ferro-gallico, nero ma non resistente alla luce, di poca qualità e poco costoso, in genere usato per la scrittura. Non è sempre giusto però ridurre questa tonalità al solo inchiostro mutato con il tempo, perché in molti studi, ad esempio, della natura cercava di riprodurre, come Van Gogh stesso dice, “l’effetto del chiarore e dell’imbrunire – il momentaneo stato d’animo della natura” e per rendere questo effetto usava spesso sostanze di colore bruno come il nero di seppia o l’inchiostro marrone, come lui stesso fece notare a proposito di alcuni disegni.

Non vi sono nella mole dell’opera dei disegni di Van Gogh esempi di esclusivo utilizzo di penna o di inchiostro, ma si tratta sempre di disegni a tecnica mista, un esempio ne è il disegno a penna “Un seminatore”[27] (fig. 7): è stato prima tracciato a matita, bagnato e rielaborato con del colore, con della pittura verde sotto il contadino, a destra sull’orizzonte, e, dalla pittura grigia, che da un effetto di lumeggiatura sul colletto e i polsini della camicia del seminatore.

 

Figura  7 Il seminatore – Etten 1881

 

Interessante è anche il riferimento al disegno “Montmajour”[28], disegnato, su un veloce schizzo preliminare, con inchiostro indiano e due cannucce di dimensione diversa, in cui Pey ci fa notare che vi è la mancanza totale di linee continue, solo tratti a penna molto brevi di diverso spessore. Vincent voleva sicuramente che “la direzione dei segni della penna mettesse in risalto la forma di tutto ciò a cui intendeva dare una particolare espressione”, accentuando magari le parti più scure con il pennello.

 

IV. 2. 8. Le tecniche miste per i suoi obiettivi

È molto interessante il fatto che Van Gogh usasse i vari materiali da disegno in modo singolare e soprattutto originalissimo. Cominciò ad usarli in modo tradizionale per impararne il loro effetto grafico, “ma con l’intenzione di scoprirne le segrete azioni specifiche e tutte le loro caratteristiche”[29] questo ci dice Pey concludendo il bellissimo saggio sui materiali dei disegni.

Vincent era soprattutto interessato a rendere nel miglior modo possibile il chiaroscuro; per fare questo, spesso, prese in esame i diversi materiali che usava in un disegno, uno accanto all’altro, a tal punto che fu in grado di superare i limiti specifici di ciascuno di essi e trasmettere la potenza naturale ed espressiva dei soggetti rappresentati, sia essi siano paesaggi o figure umane.

Per Van Gogh la possibilità di usare le varie tecniche assieme divenne fondamentale, perché così riusciva a compensare un materiale che non lo soddisfaceva introducendone un altro: un modo di lavorare che era una consuetudine per lui, infatti, non è un caso che la maggior parte dei suoi disegni fossero a tecnica mista.

È evidente nelle varie ricerche affrontate da Pey che il materiale preferito da Vincent per migliorare i suoi disegni era l’inchiostro da stampa. Praticamente lo univa a qualsiasi altro materiale che usava per il disegno e in genere per migliorare la sua fluidità, perché pastoso, lo mescolava con la trementina, “diluendolo molto per colorare, o un poco meno per mescolarlo con un colore e ottenere un grigio, spesso usato come colore coprente”[30]; preferiva usare questo materiale, perché gli permetteva di rendere un effetto più intenso, come piaceva a lui, cioè più scuro e nero.

Per quanto riguarda la carta che utilizzava, preferiva disegnare sulla carta di colore naturale che, secondo Vincent, “ha qualcosa del colore del cotone e del lino greggi”[31], perché poteva usarla direttamente senza usare altre soluzioni grafiche per diminuirne il probabile riflesso bianco; secondo Vincent “se si disegna sul bianco si deve per forza applicare un colore spento sull’intero foglio prima di iniziare” nel proprio lavoro. Ma nelle preferenze di materiali di Van Gogh, spesso si trovava ad usare anche tecniche insolite; ad esempio, “dopo aver applicato un colore opaco e aver disegnato con mezzi grafici asciutti neri o colorati, ‘graffiava’ con la penna ad inchiostro dove gli sembrava necessario, e inoltre lumeggiava il disegno cancellando certe parti o ritoccandole di nuovo con un colore chiaro opaco”, come ci fa intendere Pey, questi interventi forzati di Vincent spesso erano criticati, perché troppo forti, ma come sempre seguiva il suo istinto, perché anche quei tratti erano necessari per rinvigorire il suo disegno. Vincent sapeva quello che voleva rappresentare, cioè sapeva cosa voleva rendere sul suo foglio: luci e ombre per rendere vivo il disegno, e, grazie al suo modo originalissimo di sperimentare le varie tecniche riusciva a formare il suo linguaggio grafico, pieno di tratti energici, di tutte le sfumature del nero fino ad arrivare al bianco colore o al chiaro del foglio, segni pieni di forti contrasti chiaroscurali che hanno reso le sue opere grafiche colme di vivide masse, di energia, di vita immolata nel tempo.

Ma ora, degli esempi grafici, per comprendere meglio il modo di Van Gogh di intendere le tecniche miste e ancora una volta per percepire visivamente il linguaggio del suo disegno attraverso le sue scelte tecniche.

“Fienile con il tetto coperto di muschio” (fig. 8) è un disegno che si può classificare pienamente come esempio delle tecniche miste, infatti è complesso e decisamente interessante per i materiali utilizzati. Pey ci riferisce che Vincent “usò dapprima la matita e la penna a inchiostro, sovrapponendo quest’ultimo alla matita e viceversa” e, a proposito del cielo: “è stato dipinto a matita (morbida) sfumata e tratteggi a penna e inchiostro, poi bagnato, così che le linee tracciate ad inchiostro sono praticamente scomparse e ne sono rimaste soltanto i segni della penna sulla carta”.

La tonalità dello sfondo risulta scura, perché “ottenuta con largo uso della matita, penna e inchiostro marrone, e spruzzi di inchiostro nero” che hanno reso quasi impossibile notare i dettagli, gli stessi materiali sono usati per gli alberi. Alcune zone, come quelle del contadino centrale e a destra della fascina sono accentuazioni scure, fatte a pennello con l’inchiostro nero. È, da notare, che le parti chiare del cielo sono, in realtà, prive di colore, sarebbero dovute ingiallire in modo uniforme con l’invecchiamento della carta, ma sembra, da alcune ricerche, che si siano alterate per colpa dei residui della colla applicata nel retro del foglio perché sicuramente precedentemente attaccato su un supporto.

 

Figura  8 Fienile con il tetto coperto di muschio – Etten, 1881

 

Un altro interessante esempio è “Sien con sigaro, seduta per terra vicino alla stufa” (fig. 9), che Van Gogh ha tenuto su una tonalità esclusivamente grigio-chiara. Disegnato e elaborato con una matita morbida, “ha dilavato con l’acqua la giacca di Sien dopo averla disegnata a matita e l’ha poi di nuovo resa scura, sempre a matita, ottenendo un colore uguale a quello della carta”[32], la stessa tecnica per rendere incisivo il muro di sfondo, mentre il bianco tra la stufa e le mani della donna “lo ha fatto a gessetto sul quale poi ha di nuovo lavorato a matita”; il colore scuro dei capelli, ancora ritoccati a matita, della stufa e dello sfondo lo ha applicato con un pennello, forse con inchiostro a stampa diluito.

 

Figura  9 Sien con sigaro, seduta per terra vicino alla stufa – L’Aja, 1882

 


 

[1] Vincent Van Gogh, Tutte le lettere di Vincent Van Gogh, Silvana, Milano, 1959, lettera 290.

[2] Johannes van der Wolk, Ronald Pickvance e E.B.F. Pey, Vincent van Gogh Vincent van Gogh: drawings, Rijksmuseum Kroller-Muller, Otterlo, 1990 (trad. it.: AA.VV., Vincent van Gogh - Disegni, Mondadori – De Luca, Milano – Roma, 1990, pag. 15); catalogo della mostra, fatta in Olanda, nel centenario della morte di Van Gogh.

[3] Gogh, op. cit., lettera 188.

[4] Enrico Pellegrini,  Dodici disegni di Vincent Van Gogh, , Quaderni di Studio, 1° ed., Torino, 1965,  pag. 3, anche nelle citazioni a seguire.

[5] Gogh, op. cit., lettera 232.

[6] Gogh, op. cit., lettera 274

[7] Gogh, op. cit., lettera 500; riguardo la velocità del disegno, con la differenza tra battelli e barche, cfr. con nota 19 e figura 1 capitolo III.

[8] Van der Wolk, Pickvance, Pey, op. cit., pag. 16.

[9] Gogh, op. cit., lettera 223.

[10] Gogh, op. cit., lettera 144.

[11] Van der Wolk, Pickvance, Pey, op. cit., pag. 24.

[12] Gogh, op. cit., lettera R13.

[13] Gogh, op. cit., lettera R16.

[14] Gogh, op. cit., lettera R20.

[15] Van der Wolk, Pickvance, Pey, op. cit., pag. 28.

[16] Per approfondire vedere Gogh, op. cit., lettere 187, 195 e R37.

[17] “Bella e costosa” secondo Van Gogh, in Van der Wolk, Pickvance, Pey, op. cit., pag. 29.

[18] Lettera di Van Gogh in Van der Wolk, Pickvance, Pey, op. cit., pag. 29.

[19] Ibidem, pag. 30.

[20] Ibidem, pag. 31.

[21] Ibidem, pag. 32.

[22] Tra virgolette, anche successive: Van der Wolk, Pickvance, Pey, op. cit., pag. 33.

[23] “Tante piccole pietruzze, di colore discontinuo”, Van der Wolk, Pickvance, Pey, op. cit., pag. 33.

[24] Van der Wolk, Pickvance, Pey, op. cit., pag. 33.

[25] Ibidem,pag. 34.

[26] Ibidem, anche per la citazione successiva.

[27] Ispirato da un lavoro di Millet.

[28] Vedi figura 3, capitolo I.

[29] Van der Wolk, Pickvance, Pey, op. cit., pag. 39.

[30] Van der Wolk, Pickvance, Pey, op. cit., pag. 38.

[31] Ibidem, anche per citazioni seguenti.

[32] Van der Wolk, Pickvance, Pey, op. cit., pag. 39, anche per citazione seguente.

 

 
 

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