SECONDA PARTE III. ESPRESSIONE E COMUNICAZIONE ATTRAVERSO IL DI-SEGNO |
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III. 1. I linguaggi e il segno III. 1. 1. Il problema del segno nella coscienza semiologica Ogni linguaggio, qualsiasi sia la sua natura, serve a comunicare; questo avviene attraverso i segni presenti nei linguaggi stessi. “Il segno è una realtà sensibile la cui funzione è di evocare un’altra realtà alla quale si riferisce”, questo, ci viene detto da Jan Mukařovský [1], proprio perché sia chi emette il segno sia chi lo riceve, lo possa comprendere. Ogni segno umano, a prescindere dalla sua natura, quindi, è comunicativo, perché può trasmette un’emozione, un ricordo, uno stato d’animo: nella pittura questa capacità è decisamente evidente, perché ogni elemento dell’opera d’arte, ogni suo singolo segno, sia esso pittorico o grafico, può avere un valore comunicativo. A volte questi segni si congiungono per rendere l’opera stessa nella sua totalità, ma ognuno di essi può anche essere indipendente dal soggetto rappresentato, perché ogni singolo segno è un mezzo espressivo che comunica un suo mondo a prescindere da cosa esprime in se l’opera nella sua globalità. Il soggetto rappresentato nell’opera d’arte, comunque, ha sempre un valore determinante e non bisogna mai dimenticare, come ricorda Mukařovský, che “la vera natura del soggetto è di essere un’unità di senso e non una copia passiva della realtà”[2], fondamentale nelle stesse rappresentazioni reali o naturalistiche. Come il soggetto è fondamentale, a livello naturalistico, lo è anche per la rappresentazione nell’opera di Van Gogh, che incarna i propri diversi stati d’animo nelle immagini della natura che tenta di riprodurre per avvicinarsi alla verità e, questa sua quotidiana lotta per portare la natura sulla tela, la racconta come sempre a Theo: “Avevo notato che i tronchi giovani erano solidamente radicati nel terreno, e ho cominciato a dipingerli con il pennello, ma poiché i tocchi si confondevano a mano a mano con l’impasto del suolo, ho premuto allora direttamente il tubetto sulla tela. In un certo senso sono felice di non aver imparato a dipingere”, inteso qui come tecniche pittoriche accademiche, perché con esse, forse avrebbe imparato “a trascurare un effetto del genere”[3], in altre parole, trascurare lo spettacolo della natura di fronte ai suoi occhi; ma è proprio con il suo istinto nel riprodurre la luce del mondo, che poteva rappresentare in modo così diretto ed espressivo la natura. Pennellata dopo pennellata, tocco dopo tocco, segno dopo segno, si accingeva a riportare nelle sue opere ciò che lo attraeva, trascrivendolo nel suo linguaggio, comunicando con questo il suo fervore artistico. E’ così che “la sua pittura si distinse nettamente da quella degli Impressionisti, risultando molto più moderna: per la prima volta l’opera d’arte servì per esprimere sentimenti estremi, di pietà o di terrore, non per descrivere una generica sensazione di piacere o i frutti di una ricerca formale”[4]. Non a caso proprio con la sua tecnica tipica, una modalità di segno e stesura del colore energica e tesa, Van Gogh ispirò soprattutto il primo Espressionismo, quello della Brücke, fondato nel 1905 a Dresda da Kirchner, Bleye, Heckel e Schmidt-Rottluff. Rimane però complesso poter accostare completamente la ricerca semiologica all’arte, proprio per la molteplicità dei segni sia interni all’opera che esterni. Finché “il carattere semiologico dell’arte non sarà stato sufficientemente illuminato, lo studio della struttura dell’opera d’arte resterà necessariamente incompleto” questo perché, “senza indirizzo semiologico, il teorico sarà sempre incline a considerare l’opera d’arte come una costruzione puramente formale, o anche come il riflesso diretto sia delle disposizioni psichiche, o magari fisiologiche” del fautore dell’opera d’arte, “sia della realtà distinta espressa dall’opera, sia della situazione ideologica, economica, sociale e culturale”[5]. C’è, quindi, una certa difficoltà ad applicare una lettura semiologia alle opere di Van Gogh, perché qualsiasi testo inerente alle analisi pittoriche o grafiche dei suoi lavori è sempre influenzato dal riflesso incondizionato della sua vita, dai sentimenti, dai suoi disagi, dal suo carattere, così in contrasto con la sua società, dalle sue esperienze e dalla sua salute mentale. A questo punto ci si pone una domanda: davvero sono troppi questi fattori esterni per un’analisi semiotica del segno? La risposta è decisamente affermativa; è quindi palese che possano far allontanare dalla coscienza semiologica, proprio perché non aiutano a far riconoscere e comprendere l’esistenza autonoma e il dinamismo. Un fine, questo, reso tale solo con il punto di vista semiologico che potrebbe aiutare i teorici o gli amatori d’arte nella percezione effettiva del segno, proprio come avviene anche negli altri campi della cultura. All’atto pratico, ovviamente, ci si può rendere conto che in una singola opera d’arte vi sono molteplici segni, figuriamoci in un’intera serie di opere così intense e numerose come quella di Van Gogh[6]; mi chiedo, se sarà mai possibile una vera e attenta e singola lettura semiologia del segno, in un’opera pittorica, univoca, senza in qualche modo farsi influenzare dalla travagliata esistenza dell’artista, invece di concentrarsi solo sulle opere e i segni presenti in esse. Se mai potrà essere fatta una lettura semiologica definitiva e completa, è anche vero che ci si può avvicinare molto. Infatti, un aiuto verso il segno che comunica Vincent con i suoi lavori, ci può essere dato esclusivamente dalle riflessioni che emergono dal suo linguaggio verbale, perché, proprio dal suo epistolario, avuto con amici, colleghi e familiari, emergono queste riflessioni, le ispirazioni, le influenze, i motivi delle sue scelte e di ciò che voleva comunicare. E’, solo attraverso la compensazione del linguaggio verbale-scritto delle lettere, alla novità del suo tratto difficile da comprendere dalla società dall’ora, quindi, che emerge quel segno comunicativo dell’opera d’arte, proprio descrittoci da Mukařovský all’inizio del paragrafo; di seguito vedremo come e perché ci può aiutare questo accostamento verbale-scritto al segno dell’opera dell’artista, per poi vedere più da vicino se il segno grafico di Van Gogh può essere avvicinato, e, in che modo, a quello pittorico.
III. 1. 2. Il rapporto tra linguaggio verbale e linguaggio pittorico E’ proprio nel rapporto fondamentale tra linguaggio verbale e quello pittorico che ci si può accostare incredibilmente alla lettura semiologica dell’opera d’arte e dei suoi segni. Per comprendere ulteriormente quest’intervento e soluzione riguardo la semiotica anche in rapporto ai segni nell’opera di Van Gogh, ci si può rifare ad un passo molto importante tratto dagli scritti di Leonardo da Vinci, riguardo la descrizione che emerge nel proprio studio sui movimenti dell’acqua, dell’aria, di vortici e cadute d’acqua: “Risaltazione, circulazione, revoluzione, ravoltamenti, raggiramento, risaltamento, sommergimento, surgimento, declinazione, elevazione, cavamento, consumamento, percussione, ruinamento, discenso, impetuità, retrosi, urtazioni, confregazioni, ondazioni, rigamenti, bollimenti, ricascamenti, ritardamenti; scatorire, versare, arrivesciamenti, riattufamenti, serpeggianti rigori; mormorii, strepidi; ringorgare, ricalcitrazione, frusso e refrusso, ruine, conquassamenti; bàlatri, spelonche delle ripe, rivertigine, precepizi, revesciamenti, tomulto, confusioni, ruine tempestose, equazioni, equalita, arazione di pietre, urtamenti, bollori, sommergimenti dell’onde superfiziali, retardamenti, rompimenti, dividimenti, aprimenti, celerità, veemenzia, furiosità, impetuosità, concorso, declinazione, commistamento, revoluzione, cascamento, sbalzamento, corrusione d’argine, confuscazioni”[7]. Sono termini, aggettivi, parole, attributi, alcune neoformazioni, dedotte dall’empito nomenclatore di Leonardo che porta nel linguaggio verbale, l’ansia di apprendere la natura, appagando la sua necessità rappresentativa, lì dove la rappresentazione statica del disegno non arriva. Sicuramente una bellissima descrizione delle forze inconfondibili della natura del movimento di un corso d’acqua. E’ come se, attraverso l’espressione verbale di questa elencazione mirabolante di termini, si avesse il contatto visivo e tangibile dei movimenti di questo elemento, quasi fosse davvero non più necessaria la descrizione pittorica. Con queste parole è palese il nesso tra visività e realtà concreta. “Si attua con la mente il processo metaforico, che collega e trasferisce, proprietà del linguaggio verbale e che ne è natura profonda, che lo unisce al movimento continuo del pensiero”, questo ci dice Claudio Scarpati riguardo al brano di Leonardo, facendoci dedurre la possibilità di collegare il linguaggio verbale all’immagine visiva reale e tangibile, proprio attraverso la scomposizione dinamica della natura e analitica dell’espressione verbale: ciò che l’artista vede è la realtà. Anche Cesare Segre, ci aiuta in tal senso, perché con riferimento a questa espressività descrittiva di Leonardo, afferma che “non si tratta di dare corpo ad un astratto, bensì di rendere visibile (perciò pittorico) l’invisibile, di rappresentare ciò che, per il suo movimento e la sua trasparenza, parrebbe irrappresentabile”[8] e le sublimi parole di tale artista, indice di un forte senso e segno espressivo, rendono illustre una descrizione particolarmente intensa, dal punto di vista visivo e la possibilità, fondamentale, attraverso tutta questa “cascata” di termini, di interrompere, fermare il movimento e renderlo visibile. Il movimento, le turbolenze naturali, sono immolate nel tempo attraverso l’elencazione verbale, come dopotutto può avvenire nella rappresentazione sia grafica che pittorica dell’arte, che, a sua volta e a suo modo, rende ugualmente visibile l’irrappresentabile. E’ qui che si giunge al punto d’incontro tra linguaggio verbale e grafico-pittorico, come segno anche indelebile, perché, ricordando Heidegger[9], non bisogna scordare che l’enunciazione dei contenuti può trascinare con se e completare quello delle forme. Lo stesso Leonardo, come ci riporta Scarpati, scriveva: “Se quella (la poesia[10]) spaventa i popoli con le infernali fintioni, questa (la pittura) colle medesime cose in atto fa il simile”[11]. Il linguaggio verbale-scritto e grafico-pittorico indubbiamente, qui si intersecano, si sovrappongono; uno compensa e completa l’altro vicendevolmente e tutto questo risulta inevitabilmente evidente attraverso il suo epistolario anche dall’opera di Van Gogh.
III. 1. 3. Linguaggio verbale in Van Gogh Theo intuì l’importanza delle lettere del fratello Vincent, lo comunicò anche in una lettera alla madre del settembre del 1890, dopo la morte del fratello; intuì che avrebbero dato un fondamentale supporto per un’analisi più approfondita sia della sua vita sia della sua opera, dicendo che, la raccolta delle lettere, “Sarebbe davvero un libro prezioso se riuscisse a rivelare tutto quello che Vincent ha pensato, pur rimanendo sé stesso”[12]. Theo, purtroppo, non riuscì nel suo intento di pubblicarle, visto che seguì Vincent nella morte dopo circa sei mesi, ammalandosi gravemente e dando segni di squilibrio dopo la perdita dell’affezionato fratello, morì il 25 gennaio 1891. Fu la moglie di Theo, Johanna, dopo un’accurata ricerca e ordinazione cronologica, delle numerosissime lettere[13], che le pubblicò molti anni dopo; era intenzionata a far conoscere Vincent prima per la sua opera: “sarebbe infatti stato ingiusto nei confronti di Vincent creare un interesse attorno alla sua personalità prima che l’opera cui aveva dedicato la vita avesse avuto quel riconoscimento che meritava”[14], la cognata quindi pensò bene che la conoscenza dell’opera dell’artista doveva essere inizialmente estranea dalle sue parole e riflessioni più intime. Fu un gesto importante questo, perché è evidente che l’epistolario sia ormai l’unico testamento di Vincent che possa aiutare completamente, amatori d’arte e storici dell’arte, a comprendere più a fondo la sua opera e ovviamente la sua esistenza. Lo stesso nipote dell’artista[15], figlio di Theo, nell’introduzione alla pubblicazione completa delle lettere dello zio, è convinto di questo, infatti scrive che “nell’epistolario di un artista, la maschera è molto più trasparente che (…) nei suoi quadri: perciò, esse sono tanto più interessanti” e ancora riguardo a quello che scrisse lo zio, “discusse argomenti diversissimi. Scrisse della propria vita e delle proprie opere”, perché il lettore, attraverso le sue parole, potrà seguire man mano “la sua evoluzione spirituale” e capire che dedicò tutto se stesso e le sue energie all’arte. Il figlio di Theo afferma che “le lettere sono un completamento dei dipinti di Vincent come lo sono i numerosi schizzi”[16] presenti in esse; entrambi, lettere e opere, sono frutto della stessa mente e non è possibile separarle, perché sarebbe come separare un artista, come uomo, dalla sua opera, perché l’epistolario ci fa apparire Vincent nella sua interezza. Le lettere, come linguaggio verbale di Van Gogh, sono una testimonianza fondamentale e, ci aiutano quindi, come completamento della visione e comprensione dell’opera e della comprensione stessa della sua vicenda che non avrebbe trovato quest’espressione chiara senza le stesse opere.
III. 2. Il segno e disegno nel linguaggio di Van Gogh III. 2. 1. La comunicazione dei veri sentimenti L’arte grafico-pittorica si esprime attraverso i suoi segni; attraverso la capacità dell’artista di percepire e trasmettere quello che ha dentro, tramite la rappresentazione del suo mondo interiore nelle sue opere. Perché, come afferma Segre “le immagini che fanno da tramite, per l’artista, fra percezioni e realizzazioni pittoriche (…) sono già parti di una sintesi del mondo operata dalla sua soggettività” [17]. Attraverso il linguaggio impercettibile e spontaneamente fluido, Van Gogh, esprime la natura delle cose che vuole comunicare; come volesse mettere in evidenza ciò che nella realtà appare nascosto e insondabile, cercando di farlo percepire anche ad un fruitore inconsapevole. Per lui era fondamentale questa fluidità del linguaggio grafico-pittorico, quasi fosse linguaggio verbale o scritto, perché voleva essere talmente padrone del suo disegno, segno e pittura, in modo naturale, come se stesse scrivendo parole e frasi, addirittura come se stesse parlando con ogni suo segno, come se ognuno di essi fosse espressione e parola che comunicasse e facesse pensare, chi si trovava di fronte ad esso. In una lettera[18] al fratello Theo del febbraio del 1888 si trova un passo fondamentale che fa comprendere maggiormente la funzione che Van Gogh attribuiva ai segni: “… tutti troveranno che lavoro troppo velocemente. Non ci credere. Se non è l’emozione, la sincerità del senso della natura che ci conducono a se queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora senza accorgersi del lavoro, e che talvolta le pennellate vengono giù una dopo l’altra e i rapporti di colore come le parole in un discorso o in una lettera” e ancora “per il lavoro mi sento la testa completamente libera, e i colpi di pennello vengono e si succedono concatenati”; di nuovo, quando era totalmente preso dall’ispirazione nel suo periodo più florido di Arles in riferimento ad un suo disegno disse: “a Parigi avrei seguito in un’ora il disegno dei battelli?… questo è fatto lasciando correre la penna”[19] (vedi fig. 1).
Figura 1 Barche da pesca sulla spiaggia a Saintes-Maries - Arles, 1888
Segni come parole, discorsi come un disegno o un quadro. Tutto questo è fondamentale per il fine di Vincent, che è comunicare, nel miglior modo possibile, rappresentando ciò che risulta irrappresentabile a chi non riesce o ignora quella sua percezione. “Uno si sente anche meno solo, perché pensa <<E’ vero che me ne sto seduto qua solo, ma mentre siedo qua silenzioso, forse il mio lavoro sta parlando ad un amico e chiunque lo vede non avrà il sospetto che io sia senza cuore>>”[20], questo era fondamentale per Vincent, sapere che prima o poi qualcuno avrebbe apprezzato il suo modo di esprimersi, le sue rappresentazioni e che il suo carattere difficile non voleva dire che non avesse la sensibilità di comunicare quello che aveva dentro attraverso la sua opera, perché lui ce la comunica in ogni suo segno, in ogni suo disegno, in ogni suo quadro: “…vorrei dimostrare attraverso la mia opera che cosa si trova nel mio cuore di un tale eccentrico, di una tale nullità” e ancora “sia nella figura che nel paesaggio, io vorrei esprimere non più qualcosa di sentimentalmente malinconico, ma un profondo dolore”[21], attraverso la verità che lo circondava. La verità proprio come ricerca continua della rappresentazione della natura, che è evidente anche nelle parole di Vincent di questa lettera:
“Mi sono sistemato un foglio bianco davanti al punto che colpisce la mia attenzione, guardo quello che ho dinanzi agli occhi, e mi dico: questo foglio bianco deve diventare qualcosa; torno a casa insoddisfatto, lo metto da parte, e quando mi sono un po’ riposato vado a guardarlo in preda ad un’angoscia indefinibile. Sono sempre insoddisfatto, perché ho ancora troppo nitido nella mente il ricordo di quello stupendo angolo di natura”[22].
Mostrare, comunicare la natura e i sentimenti dei soggetti rappresentati, in un linguaggio grafico-pittorico diretto come quello verbale (scritto e orale), ma universale grazie all’arte, questa è la sua ossessione. “L’arte è l’uomo sommato alla natura”[23], con questa espressione Vincent dà una propria definizione dell’arte e si può accostare anche come una sorta di summa della propria opera. Davvero fondamentale, in lui, è “la capacità di tradurre sulla tela le pulsioni vitali della natura, arricchendola con la propria umanità”[24]. Proprio in riferimento a due suoi disegni[25] (fig. 2 - 3), del dicembre del 1882, dice, rispetto al soggetto rappresentato, che “se ha del sentimento e dell’espressione, è perché io stesso li sento”[26], quindi è fondamentale per lui rappresentare ed esprimere, non tanto la forma, ma, riportare il sentimento che gli evocavano quelle figure che andava a rappresentare, per farle percepire a chi osserverà le sue opere.
Figura 2 Uomo che legge seduto – L’Aia, 1882
Figura 3 Preghiera prima del pasto - L'Aia, 1882
Vincent parla della sua idea principale che lo porta all’arte: lavora per la verità e il reale perché il segreto di un buon lavoro, secondo lui, sta “nella sincerità dei sentimenti”[27], che lo portano a produrre, ad essere vicino alla natura e in una delle lettere del luglio 1880, perché sono di questo periodo i suoi primi veri approcci con l’arte, attraverso il disegno, dice: “… il mezzo migliore per conoscere Dio (come verità), sia quello di molto amare. Ama quell’amico, quella persona, quella cosa, ciò che vuoi, tu sarai sulla buona via per vedere dopo più chiaro (…) amare con un alta e seria simpatia intima, con volontà, con intelligenza, e bisogna sempre operare per comprendere di più, meglio e prima” [28]. In modo d’avvicinarsi così indissolubilmente, umanamente alla verità. Anche quando il suo segno più tardo sarà tormentato, convulso e sarà difficile capire quale sia il soggetto rappresentato (vedi fig. 4) si avrà sempre l’impressione di entrare nell’essenza profonda della realtà.
Figura 4 Strada a Saintes-Maries – Arles, giugno 1888
III. 2. 2. Van Gogh e il suo segno La grande innovazione di Van Gogh sta proprio nel fatto che abbia riportato alle origini il linguaggio pittorico. Chi si accorge di ciò, scopre la natura di un primitivo, che non riesce ad uniformarsi al suo tempo, inoltre, è evidente la sua difficoltà a raggiungere la sua vocazione, tarda a configurarsi; infatti, cominciò seriamente a lavorare per la sua arte solo a ventisette anni. Van Gogh ha uno spirito attento e capace a risalire al di là delle definizioni stilistiche, al dato di natura, al movente della figurazione. Il suo accostarsi al fatto espressivo non ha niente che somigli ad una scelta elettiva di personalità affini, infatti nelle sue rappresentazioni predilige gli strati sociali più bassi. Guarda tutto con la curiosità dell’apprendista, un osservatore nato e attento che fa nascere un soggetto da lui rappresentato, unico, con un’impostazione elementare, ruvida, che sembra però sprigionare, in modo decisamente emozionante, appunto l’intima verità. Sa che approfondendo l’arte al tempo stesso approfondirà la vita. L’artista che s’andava tenacemente formando, giorno dopo giorno, grazie ai suoi mezzi espressivi era davvero “un poeta colmo fino a traboccare del sentimento tragico della vita”[29]. Alessandro Parronchi nel suo saggio[30] evidenzia che nell’opera di Van Gogh emerge al meglio il significato tragico della realtà proprio attraverso la primordiale ruvidezza del suo segno che, tra l’altro, apre la strada, per l’arte, ad un realismo che esalta l’essenza stessa dell’essere umano e del paesaggio. E’ proprio vero, come dice Parronchi, “cozzava sempre, il suo segno nel pieno di una materia solida in cui la luce penetrava scoprendo analiticamente i dettagli”, in fondo lo stesso Vincent in una lettera dice che amava “…dipingere una oscurità che malgrado ciò ha la sua luce”[31], amava quindi “piétiner sur place”[32], sviluppare in asprezza di segno, in luce cruda, piuttosto che occuparsi di scene idilliache e totalmente pacate o irreali, questa era la sua ricerca della verità, attraverso la luce della verità: è rendersi conto nelle figure che ci ha dato, che, ovviamente lasciando da parte gli autoritratti e certi ritratti più tormentati e sconvolti, sono creature vive, reali. Parronchi dice che sono “come personaggi di cori eschilei, rispetto ad una tragedia che non turba la loro serenità profonda, ma che passa sopra di loro come un vento solenne”, questa è la luce che emana il suo segno, come si può vedere sia in una delle sue prime opere pittoriche come “I mangiatori di patate” (fig. 5), sia in un opera più tarda come “L’italiana” (fig. 6). Ci si rende davvero conto, di fronte all’opera di Van Gogh, come ci lascia intuire ancora Parronchi, che l’incanto delle sue rappresentazioni non sono, seppur con la loro acutezza e ruvidità del segno o la purezza del colore, l’opera primitiva di un incapace, ma il lavoro sensibile e instancabile di un essere capace, attraverso i mezzi della sua arte, di rendere la vera essenza dei suoi soggetti.
Figura 5 I mangiatori di patate – Nuenen, Aprile 1885
Figura 6 L’italiana – Parigi, 1887
III. 2. 3. Disegno e colore Vincent raramente espresse giudizi di valore sulle proprie opere, sia grafiche che pittoriche, ma spesso accadeva che le descrivesse dettagliatamente, parlando del soggetto rappresentato, in modo molto espressivo e comunicativo, come in questo passo di una sua lettera in riferimento ad un disegno:
“Ha dentro dei colori stupefacenti: le dalie sono di color porpora ricco e cupo; la doppia fila di fiori è da una parte rosa e verde, e dall’altra arancione con appena un po’ di foglie. Al centro, una piccolissima dalia bianca e un piccolo melograno con dei fiori di un vivido arancione rossastro, con dei frutteti verdi-giallognoli. Il suolo grigio, le alte canne, cannes, verdi-blu, l’albero di fico verde smeraldo, il cielo azzurro, le case bianche con le finestre verdi e i tetti rossi, splendente di sole nel pieno mattino, e di sera immerso nell’ombra proiettata dagli alberi di fico e delle canne”[33] (vedi fig. 7)
Figura 7 Il giardinetto del cascinale, visto verticalmente - Arles 1888
Come un incanto di parole che sostituiscono la pittura, passo facilmente associabile alla figurazione verbale-scritta di Leonardo, trattata nei paragrafi precedenti. Si chiede Ronald Pickvance[34], a proposito di questo passo di Vincent, in rapporto con il disegno: “può un disegno in bianco e nero diventare un surrogato del dipinto, non perché contiene tutti quei ‘colori’, ma perché comunica il ‘colore’?” e continua “colore come un’emanazione astratta dell’intricata rete dei segni della cannuccia provenzale mossa con gesto sinuoso. Colore che evoca l’intensa calura provenzale e quella limpida meravigliosa atmosfera, quell’aria spesso così particolarmente tangibile, quel folgorante chiarore, nell’occhio nordico di Van Gogh costantemente ammaliato”, legame quindi inscindibile tra bianco e nero, grafismo, colore, pittura e parole, che portano all’espressione totale della sua opera. Inoltre, “il rinvio stilistico tra dipinto e disegno, il confronto immediato fra l’impasto della pennellata e i tratti semplificati della cannuccia, la ‘traduzione’ del colore nel segno a inchiostro, i leggeri spostamenti del formato e nell’allineamento che interessano la base compositiva”, lo dice ancora Pickvance in base ad un bellissimo confronto visivo tra un disegno nato da un dipinto (fig. 8 e 9), un confronto spontaneo del linguaggio pittorico e grafico di Van Gogh, che proprio con questo esempio evidenzia il fatto che l’artista era padrone del suo segno a tal punto non solo da poter dire che i disegni sono l’introduzione ai dipinti, cioè che essi sono diretta conseguenza dell’opera grafica, ma che quest’ultima è lo stesso conseguenza diretta dei dipinti; come se una ne fosse l’ossatura portante e l’altra il corpo e che una non potrà mai fare a meno dell’altra per essere esistente e quindi l’opera d’arte di Van Gogh.
Figura 8 Notte stellata - Saint-Rémy, giugno 1889
Figura 9 Notte stellata - Saint-Rémy, 1889
III. 2. 4. Il cammino verso l’arte attraverso il disegno E’ proprio dopo l’esperienza, di povertà e deperimento, come evangelista ed assieme volontario tra i minatori del Borinage, che Vincent passò un periodo tormentato, soprattutto perché sulla soglia dei 27 anni si domandava: “in che cosa potrò riuscire, non potrei servire o riuscire utile a qualcosa…”[35]?. Ma Vincent, non voleva rimanere di certo indolente e si disse: “…tornerò ancora a galla, riprenderò la matita (…) mi rimetterò a disegnare”, accorgendosi che abbracciando la sua arte tutto fu diverso: “da allora mi sembra che sia tutto cambiato per me”, era il sentimento della vocazione che veniva a colmare la sua vita, votandolo definitivamente all’arte, “e ora sono in cammino, e la mia matita è diventata un poco più docile, e sembra diventarlo di più giorno per giorno”[36]. Quando scrisse queste parole era già 1880, mancavano solo poco meno di dieci anni da dedicare alla sua arte, ma lui era entusiasta, a Theo scrisse: “non potrò mai dirti quanto sia felice di avere ripreso il disegno (…) e l’energia mi ritorna ogni giorno di più”[37]. “Sono pieno d’ambizione ed amore per il mio lavoro e la mia professione”[38]; ma comprese fin da subito che non sarebbe stato facile il suo cammino, soprattutto perché la maggior parte delle persone non apprezzava i suoi primi approcci e tentativi. Lui sapeva che di fronte ai suoi disegni molti potevano pensare: “Oh, questi sono soltanto i soliti disegni”[39]. Vincent non poteva perdere troppo tempo, perché il suo lavoro doveva continuare e, riprendere a disegnare, regolarmente, dal mattino alla sera era per lui fondamentale e vitale, per il suo cammino nell’arte, come passaggio inevitabile prima di arrivare ai dipinti. “Voglio fare dei disegni che arrivino al cuore della gente. Sorrow (vedi fig. 10) non è che un inizio (…) Sia nella figura che nel paesaggio vorrei esprimere non una malinconia sentimentale ma il dolore vero” e ancora, “voglio fare dei progressi che la gente possa dire delle mie opere: <<Sente profondamente, sente con tenerezza>> - malgrado la mia (…) rozzezza e forse perfino a causa di essa”, “la mia ambizione (…) è basata meno sull’ira che sull’amore, più sulla serenità che sulla passione”; si rende conto di avere “un’armonia calma e pura” e proprio per tutto questo, anche se spesso si trova nello stato più miserabile e isolato, vede interesse per l’arte nei “disegni e dipinti nelle capanne più povere, nell’angolo più ruvido”[40], nessuno più di lui riusciva a percepire questa realtà, questa verità.
Figura 10 Sorrow – L’Aia, 1882
Il disegno è importantissimo per Van Gogh, soprattutto nei primi anni del suo approccio all’arte. E’ indispensabile per trovare la strada e la manualità nelle sue rappresentazioni sia presenti che future. Sa che, solo attraverso lo studio grafico, potrà passare alla pittura e al colore, da cui è comunque fatalmente attratto[41], dopo un efficace e tenace studio primordiale, sa che la strada giusta è il disegno: “la base è il disegno” e sa che “germogliano molte cose dal disegno”, questo dice al fratello Theo, “capirai che continuo a stare ben intento al disegno (…) perché voglio farmi una mano ferma”[42]. Ma che cos’è il disegno per Van Gogh? Ce lo dice lui in una sua lettera, come sempre, con parole efficacissime, il disegno “è lavorare attraverso una muraglia invisibile in ferro che sembra sorgere tra quanto si sente e quanto uno sa fare” e sa che quel muro può essere abbattuto solo minandolo “subdolamente (…) scavandovi sotto lentamente e pazientemente”[43], con la sua volontà. Nei primi anni di attività artistica sa che per esprimere il suo sentimento è necessario il “bianco e nero” del disegno, che gli si adatta meglio dell’uso del colore, ma come ci fa notare Pierre Leprohon, usa queste caratteristiche “da pittore, cercandone tutte le sfumature, tutti gli effetti di questa gamma scura”, Vincent spiega “Certi mi dicevano: “La pittura è un disegnare coi colori”. Al che io risposi: “Già, e il disegno in bianco e nero è, in effetti, un dipingere in bianco e nero”. Dicevano: “Dipingere è disegnare”, e io dicevo: “Disegnare è dipingere”[44]. Tutto questo ha il suo inizio dal disegno come scuola verso la pittura, ma i due elementi sono uniti fino a non potersi più separare, per cui se con il disegno ci si accosta alla pittura, ancora una volta la stessa pittura ci fa accostare al disegno. Nel primi mesi del 1883 Vincent ormai ha acquisito la linea, il movimento, con il modellato e il chiaro-scuro; è passato per la litografia e, anche se per poco tempo, con essa ha scoperto nuovi materiali e strumenti, per ottenere il suo disegno dipinto. “Cerca profonde sfumature di nero e per ottenerle esperimenta tutte le tecniche che gli vengono in mente” ci fa notare di nuovo Leprohon, e, per rendere le linee ancora più evidenti e forti, “dopo aver terminato un disegno, versa un secchio d’acqua sulla carta riprende le sue linee con il pennello sul foglio bagnato”, è proprio vero nei suoi disegni, dipinge senza colori. Disegna soprattutto le persone, in grandi silhouettes, quasi sempre in movimento, perché è importante per Vincent “disegnare un essere umano, qualcosa che vive…” che dia umanità alla verità. E’ interessante far notare che, se anche conosciuto come un grande paesaggista, il paesaggio lo interessa meno rispetto alla figura umana, ma, purtroppo per lui, i modelli costano. Ormai dopo tre anni, di prove, studi e lavori, la mancanza di abilità con cui aveva intrapreso la sua strada verso l’arte, è scomparsa, in lui è maturato un tratto vivo, magari rude, ma forte, soprattutto fermo, non più insicuro e i volumi che realizza sono ormai costruiti solidamente, sa che ora è pronto per dipingere, ormai è il pittore Vincent. Immerso totalmente nella sua arte, ormai essa è la sua vita e, nell’agosto del 1883, sa una cosa rispetto a tutto questo: “Il mondo mi riguarda solo in quanto sento un certo debito e un senso del dovere nei suoi confronti, perché ho calcato per trent’anni questa terra e, per gratitudine, voglio lasciare di me un qualche ricordo sotto forma di disegni o dipinti – non eseguiti per compiacere un certo gusto in fatto d’arte, ma per esprimere un sincero sentimento umano. Di modo che questo lavoro è la mia meta – e quando ci si concentra su quell’unica idea, tutto quanto si fa risulta semplificato, acquista una sua organicità, ma viene fatto con quella sola meta in mente”[45]. Con tutta la sua energia, pone il suo lavoro come centro della sua esistenza, fino a consumare tutto se stesso, tutta la sua vita nel giro ancora di soli sette anni d’esistenza.
Figura 11 Ragazza in un giardino – Etten, 1881
Figura 12 Alle porte dell'eternità - L'Aja, 1882
Figura 13 Donna che cuce (Sien?) – L’Aja, marzo 1883
[1] Jan Mukařovský, “L’art comme fait semiologique” negli Atti dell’VIII Congresso di Filosofia, Praga, 1936; poi in Estetiká funkce, norma a hodnota jako sociálí, Odeon, Praha, 1966 (trad. it.: Sergio Corduas, “L’arte come fatto semiologico” in La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali – semiologia e sociologia dell’arte, Einaudi, Torino, 1971, pag 157). [2] Mukařovský, op. cit., pag. 161. [3] AA. VV., “Introduzione alla mostra” in Vincent Van Gogh a Martigny (allegato ad Arte n°322), Mondatori, Milano, 2000, pag. 6. [4] Dall’articolo Van Gogh, il genio del colore-, pubblicato sulla pagina web www.dadascanner.com/arte/vangogh.htm a proposito di una mostra su Van Gogh a Martigny (Svizzera) del 2000. [5] Mukařovský, ibidem. [6] Si contano nell’opera di Van Gogh tra disegni, dipinti, acquerelli, grafica e schizzi su lettera circa 2200 lavori complessivi. [7] Claudio Scarpati, “Leonardo e i linguaggi” in Studi sul Cinquecento Italiano, Vita e Pensiero, Milano, 1982, pag. 21-22. [8] Cesare Segre, “La descrizione al futuro: Leonardo da Vinci” in Semiotica filologica – Testo e modelli culturali, Einauidi, Torino, 1979, pag. 152. [9] Vedi capitolo II. [10] Qui intesa, ovviamente, come linguaggio verbale. [11] Scarpati, op. cit., pag. 26. [12] Vincent Van Gogh, Tutte le lettere di Vincent Van Gogh I, Silvana, Milano, 1959, prefazione. [13] Se ne contano più di 800, cfr. con nota 2 e 7 cap. I. [14] Gogh, ibidem. [15] Chiamato anche lui Vincent. [16] Tutte le citazioni fino a questo punto sono tratte da Van Gogh, op.cit. introduzione. [17] Segre, op. cit., pag. 140. [18] Gogh, op. cit., lettera 504. [19] Gogh, Lettere a Theo, a cura di Massimo Cescon, Guanda, Milano, 1984, dal saggio introduttivo di Karl Jasper, pag. 15. [20] Gogh, Tutte le lettere di Vincent Van Gogh,, lettera 248. [21] Dino Formaggio, Van Gogh, Mondadori, 1° ed., s.l., 1952 (2° ed., 1956), pag. 45. [22] AA. VV., “Introduzione alla mostra” in op. cit., pag. 6. [23] Lettera citata nell’articolo La vita tormentata di Vincent Van Gogh, nella pagina web http://web.tiscali.it/gemellae/p.gem7/van%20gogh.htm [24] Ibidem. [25] Si riferisce ad un uomo che legge la bibbia e un uomo che sta recitando la preghiera di fronte alla cena. [26] Gogh, op. cit., lettera 253. [27] Gogh, op. cit., lettera 251. [28] Riportato da Formaggio, op. cit., pag. 19. [29] Alessandro Parrochi, Vincent Van Gogh, “Serie Arte Garzanti”, Garzanti, 1° ed., Milano, 1954. [30] Ibidem. [31] Gogh, op. cit., lettera 402; bisogna notare che era il periodo de “I mangiatori di patate”, circa i primi mesi del 1885. [32] Un modo di dire che letteralmente vuol dire “segnare il passo”. [33] Gogh, op. cit., lettera 519. [34] Le citazioni successive da Wolk, Johannes van der - Pickvance, Ronald e Pey, E.B.F., Vincent van Gogh: drawings, Rijksmuseum Kroller-Muller, Otterlo, 1990 (trad. it.: AA.VV., Vincent van Gogh - Disegni, Mondadori – De Luca, Milano – Roma, 1990, pag. 24). [35] Gogh, Lettere a Theo, dal saggio introduttivo di Karl Jasper, pag. 8. [36] Gogh, op. cit.,lettera del 24 settembre del 1880. [37] Ibidem. [38] Gogh, op. cit., dalla lettera scritta a L’Aia, della fine di Aprile 1882. [39] Gogh., op. cit., dalla lettera scritta a L’Aia, del 21 luglio 1882. [40] Ibidem. [41] “Sono preso dal colore”, dalla lettera del settembre 1882, Gogh, op. cit.. [42] Le ultime citazioni sono da Gogh, op. cit., lettera del 31 luglio 1882. [43] Gogh, op. cit., lettera dell’ottobre 1882. [44] Citazioni presenti e successive da Pierre Leprohon, Vincent Van Gogh, Lattès, Paris,1988 (trad. it.: Gerardina Anteli, Van Gogh - Il sublime pittore del sensibile, Rusconi Libri, Milano, 1990, pag. 126). [45] Gogh, op. cit., lettera L’Aia, primi di agosto 1883.
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