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II. UN PAIO DI SCARPE E NULL’ALTRO

 
 

 

 

 

II. 1. La verità nell’opera d’arte di Van Gogh

 

II. 1. 1. La verità, come disvelamento nell’opera d’arte

 

Martin Heidegger, nel suo saggio “L’origine dell’opera d’arte”[1] afferma che, rapportandoci all’opera d’arte, si cerca la verità o quantomeno un nesso tra queste due. La verità si percepisce quando il mondo del fruitore entra in rapporto con il mondo dell’opera d’arte. Questo “mondo” non è esterno all’opera e quindi non ha una dimensione storica; ma, è aperto e fondato dall’opera stessa.

L’opera d’arte si presenta quindi come un progetto di riordino e ristrutturazione dell’essere. In questo progetto s’inscrive la natura particolare dell’esperienza estetica. Un’opera nonostante contenga un suo mondo non consente mai di comprendere completamente il mondo che l’ha generata. L’opera, quindi, non esiste storicamente come un qualsiasi oggetto d’uso (che perde interesse nel momento in cui ottempera alla sua funzione primaria), ma è proiettata in un contesto astorico.

La perdita della dimensione storica rende l’apertura dell’opera verso la verità più profonda e radicale. E’ proprio questa radicalità che consente l’apertura e porta al disvelamento. Quest’ultimo non è semplicemente un’illuminazione intesa in senso completo; è in verità un fare luce che convive con zone d’ombra.

Heidegger spiega questo attraverso l’immagine della Lichtung: l’osservazione di una radura illuminata dalla luce del sole che presenta contemporaneamente zone di luce e zone d’ombra e in cui, queste sono individuabili proprio perché compresenti.

Partendo, quindi, dal presupposto che Heidegger non parla “della” verità, ma di “una” verità tra le molteplici desumibili dall’esperienza estetica, arriva a definire il fondamento di questo continuo svelare e nascondere; in pratica la lotta che si instaura tra Terra (la permanente riserva di significati che l’opera porta con se, in altre parole l’opera nella sua realtà fisica) e Mondo (le varie interpretazioni che sono date dell’opera nei diversi momenti storici), che porta ad una continua riapertura del Mondo insito nell’opera.

A  prodursi non è solo un mutamento all’interno del Mondo ma un mutamento e ampliamento dell’intero essere: l’opera non è semplicemente creata dall’artista ma è anche l’origine dell’artista.

Van Gogh si rende conto che le anime del suo tempo sono assopite e abbandonate e le vuole risvegliare con la sua arte che è, per lui inconsapevolmente, un ampliamento dell’essere (con lui nascerà l’espressionismo pittorico); come dirà Vasilij Kandinskij nel testo “Dello spirituale nell’arte”: “la nostra anima si sta risvegliando da un lungo periodo di materialismo, e racchiude in sé i germi di quella disperazione che nasce dalla mancanza di una fede, di uno scopo, di una meta”[2]. Questo sente Vincent del suo tempo, ma reagisce con il suo incessante lavoro che lo porterà a voler comunicare la sua luce della verità, risvegliando così gli animi assopiti dai mali del mondo.

Nel luglio del 1880 scrisse a suo fratello Theo, affermando che, nonostante non fosse più a contatto diretto con l’arte (perché non lavorava più con i mercanti d’arte): “quel qualcosa che si chiama anima pare che non muoia mai, che viva sempre e cerchi sempre” e, ancora, per non soccombere al male che era nella vita attorno a lui, ha “optato per la malinconia attiva (…) che spera, che aspira e che cerca” finalmente verso la sua strada d’artista.

 Dice ancora Kandinskij, ogni artista cercherà quindi, grazie alla propria arte, “di suscitare sentimenti più delicati”[3], e “l’opera nata da lui causerà inevitabilmente nello spettatore che ne è capace emozioni più sottili, non esprimibili a parole”, perché in ogni opera “è misteriosamente racchiusa un’intera vita (mondo)” con molti tormenti, dubbi, “di ore di entusiasmo e di luce”[4], che rendono possibile il disvelamento enunciato da Heidegger, perché la vocazione dell’artista è: “gettar luce nella profondità del cuore umano” commenta Kandinskij riguardo un’affermazione di Schumann.

Vincent vuole rappresentare proprio la luce della verità del naturalismo del suo secolo, della società, quello che tutti gli altri tendevano a trascurare, questo attraverso la sua sensibile ispirazione, sperando “di fare qualche scarabocchio in cui ci sia qualcosa di umano”, vuole, insomma, rendere la vita[5]. Perché l’artista riesce ad udire il linguaggio che lo condurrà alla sua arte, mentre l’uomo ordinario non lo può udire che solo attraverso la sua opera.

L’artista è il mezzo per comunicare la verità che percepisce; Kandinskij afferma che è l’artista a rispondere a questo richiamo, che è da dentro se stesso che viene e sempre in esso “è racchiusa la possibilità di vedere nell’oggetto non soltanto l’elemento corposamente materiale ma anche qualcosa di meno corporeo dell’oggetto”, in pratica la verità stessa; questa viene riprodotta così “come” era, senza porre elementi fuorvianti, tra l’oggetto rappresentato e la realtà. Ma questo “come”, ovviamente, include l’emozione dell’anima dell’artista che lo rende in grado di convogliare fuori da sé, le sue percezioni ed esperienze. Infine, non sarà, quindi, più rappresentata nell’opera una cosa solo materiale, ma sarà “contenuto artistico: sarà l’anima dell’arte”[6], la verità.

 

 

II. 1. 2. La “verità” per Van Gogh

 

Van Gogh ha un rapporto unico e distinto con le cose che gli si pongono di fronte a sé per i suoi soggetti: le deoggettivizza e spinge il suo sguardo dentro i limiti dell’oggetto, spezzandone la condizionatura, mutandone l’ordinamento oggettuale.

Il condizionato impedisce di vedere l’incondizionato nella cosa, che ora invece con la sua opera si mostra come una luce dell’invisibile all’interno del visibile. Come se la cosa cedesse al nostro sguardo tutto quello che in essa era raccolto e celatamente conservato, questo accade osservando le sue opere. Perché, appunto, a prescindere dalla sua rappresentazione compare una luce potente, che sovrasta tutto, così da rappresentare l’amore puro della cosa ma anche le ombre di cui questa è composta e nota.

Vincent ha questa capacità straordinaria, questo “amore per la cosa” che gli fa percepire “la realtà esterna come un oggetto di desiderio”, trasformando e avvicinando tutto il “dappertutto” a sé[7], alla sua intimità più profonda per poi restituirla con le sue opere; perché lui si accanisce nel guardare ed osservare la “cosa” finché non riesce, come lui stesso afferma, a realizzare una “oscurità che malgrado ciò ha la sua luce”[8].

E’ così nel primo capolavoro di Van Gogh, I mangiatori di patate, del 1885; lui stesso, sente di essere giunto ad un risultato assoluto, di aver strappato le cose dall’indifferenza del mondo circostante, avendo scoperto la luce che vince il buio e che è dentro di esse, per renderle al mondo.

Secondo Vincent “si perde l’armonia generale dei toni della natura con una imitazione penosamente esatta” si mantiene, invece, creando “una gamma cromatica parallela che può non essere precisamente quella del modello, o addirittura ben diversa”.

Giunge alla verità in modo originale, unico e trasversale, tra l’altro, accesso alla verità che è proprio dell’arte, attraverso l’immaginazione e il sentimento. Vincent, tra l’altro, si sente vicino al naturalismo francese, legge e rimane conquistato da Emile Zola, perché lui “non pone uno specchio davanti alle cose, crea magnificamente, ma crea, infonde poesia, ed è per questo che è tanto bello”[9]. La cosa, la verità, così come sono, questo è quello che rappresenta Vincent nei suoi dipinti, come nei suoi disegni, senza porre uno specchio senza porre nessun condizionamento tra lui e il soggetto rappresentato.

 

Figura   1 Mangiatori di patate in una litografia - Nuenen, aprile 1885

 

 

II. 1. 3. Solo delle scarpe da contadino

 

Heiddeger[10] descrive, per argomentare intorno all’esser mezzo del mezzo dell’opera d’arte, un soggetto qualsiasi e piuttosto comune: un paio di scarpe da contadino. Tutti sanno cosa sono, in teoria, non ci sarebbe neanche bisogno di averne un paio sotto gli occhi, ma l’esempio di Van Gogh, preso in considerazione dal filosofo, ripetuto più volte nell’opera pittorica dall’artista, aiuta la visione sensibile, la loro descrizione veloce, spontanea e ad avvicinarsi maggiormente alla metodologia rappresentativa dei soggetti.

Heidegger si domanda cosa ci sia da vedere in tale rappresentazione e prosegue affermando che, in fondo, noi tutti sappiamo, senza troppe difficoltà, come sono fatte le scarpe, sappiamo della loro struttura, dei loro materiali, sappiamo anche che questo mezzo serve da calzatura per il nostro piede e con il variare dell’uso possono variare la forma e la materia di cui sono fatte. Deduzioni molto ovvie che possono chiarire quello che si sa anche riguardo a delle scarpe da contadino.

 

Figura 2 Un paio di scarpe - Parigi, seconda metà 1886

 

Ma la vera importanza delle scarpe è la loro usabilità, cioè considerarle nell’atto dell’impiego, cioè quando servono realmente, nel loro uso concreto. Ed esse, sono ciò che sono, solo quando avviene questo, ad esempio, quando la contadina calza le scarpe nel campo e soprattutto quando essa lavorando non pensa direttamente alle sue scarpe. La vera essenza delle scarpe, quindi si può cogliere solo in tale modalità e non solo nel pensare a delle scarpe nel loro non-impiego.

Nelle rappresentazioni di Van Gogh (fig. 2, 3, 4) non si può stabilire con certezza dove si trovino quel tipo di scarpe, perché esso è uno spazio indeterminato, nulla di cui potrebbero realmente far parte. Tra l’altro non ci sono elementi che ci riportino a delle scarpe da contadino, perché non vi è nemmeno della terra appiccicata in esse,  quindi manca un reale riferimento diretto al soggetto “evocato”, “ma tuttavia…” dice Heidegger “un paio di scarpe e null’altro”[11].

 

Figura 3 Tre paia di scarpe - Parigi, dicembre 1886

 

II. 1. 4. Le scarpe rappresentate come verità

 

“Nell’orificio oscuro dall’interno logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell’umidore e dal turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messe mature e il suo oscuro rifiuto nell’abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell’annuncio della nascita, l’angoscia della prossimità della morte”[12].

 

Davvero la descrizione più esatta e le sensazioni più giuste che si possano vedere e percepire osservando le opere di Vincent che hanno come soggetto le scarpe.

Emerge inoltre che queste appartengono alla terra e percepiamo ciò osservando il suo quadro, chi le usa le porta solamente. Non si sono percepite queste deduzioni avendo avanti queste scarpe, ma ponendo di fronte a noi l’opera di Van Gogh, questo ci viene detto da Heidegger.

E’ come se tutto questo ci fosse stato dato attraverso il quadro: “è il quadro che ha parlato”[13], continua Heidegger, perché solo nella vicinanza con l’opera, ci si trova improvvisamente in una dimensione alternativa rispetto a dove ci si trova di solito, “l’opera d’arte ci ha fatto conoscere che cosa le scarpe sono in verità”[14].

 

 

Figura 4 Un paio di scarpe - Parigi, 1887

 

E’ la verità che scaturisce dall’opera d’arte e sarebbe un’erronea presunzione di credere che solo la descrizione soggettiva percepita da Heidegger o da qualsiasi altro fruitore, abbia avuto la possibilità di immaginare tutto questo e attribuirla poi all’oggetto rappresentato. Il filosofo tedesco, infatti, ci insegna che l’opera di Van Gogh non è servita solo per una migliore comprensione di quello che rappresentava, ma è solo nell’opera e attraverso di essa che viene alla luce la vera essenza delle scarpe, quindi, del soggetto rappresentato e dell’opera d’arte.

 

 

II. 2. La verità e il naturalismo

 

II. 2. 1.  Le origini del naturalismo in Van Gogh

 

L’opera di Van Gogh, presa in esame nei paragrafi precedenti, per determinare la vera essenza del soggetto rappresentato, può essere rapportata anche come verità presente in tutta la sua opera, sia grafica che pittorica. Le rappresentazioni di Van Gogh sono, effettivamente, l’aprirsi di ciò che è in verità rappresentato. Nell’opera d’arte, in poche parole, la verità della cosa è portata a stare in opera, così che l’ente stabilmente “viene a stare nella luce del suo essere”[15].

La verità diviene tangibile e ci comunica il mondo dell’opera, ma la grandezza dell’artista, Vincent, sta nel fatto che, grazie e oltre a questo, riesce attraverso la sua sensibilità e grazie alla vicinanza alla natura a farci immergere nel naturalismo; questo può essere dedotto anche dal suo interesse verso i testi di Zola e del movimento naturalista francese in generale.

La famiglia Van Gogh seguiva i precetti della Scuola di Groninga[16], un movimento nato nell’Ottocento, all’interno del calvinismo olandese. Questi aspiravano a far prevalere una religiosità sentita sull’aridità del dogma, riscoprendo l’Imitazione di Cristo, un classico della letteratura del Quattrocento attribuito a Tommaso da Kempis. Nella cultura Olandese il ricorso ad immagini adottato dai predicatori di questa scuola aveva due precedenti: l’intensa lettura delle Sacre Scritture, che mirava a scoprire la prefigurazione di Gesù Cristo e la sua Passione nell’Antico Testamento; la tradizione nordica degli emblemi, in una forma artistico pittorico-verbale risalente al Cinque-Seicento che trovava nel finito una rivelazione dell’infinito, leggendo il significato divino nel libro attraverso la grafica e la natura.

Gli autori di questi emblemi rinvenivano un significato simbolico in ogni fenomeno naturale, in ogni azione e in ogni prodotto umano, ispirandosi all’idea che, anche da avvenimenti e oggetti comuni, si poteva trarre un insegnamento morale. Questa rimane una religiosità diffusa grazie all’accessibilità di questa forma d’arte alla gente di ogni ceto che ne favorì la rinascita nell’Ottocento, grazie anche alla ripubblicazione delle opere dei suoi principali esponenti, fra cui Jacob Cats (detto il Padre) e Jan Luyken. Nuove edizioni aggiornate, fecero da “seconda Bibbia”, con memorabili abbinamenti di testi e immagini investiti di una tripla valenza: amorosa, religiosa e sociale, dove il ciclo delle stagioni venne così a coincidere con il cammino del pellegrino cristiano verso la Gerusalemme celeste attraverso le gioie e le ardue prove della vita.

Anche se Vincent non faceva espliciti riferimenti a questi testi, crebbe indiscutibilmente con questi e, le sue lettere sono piene di espressioni colloquiali e metafore nate da questa tradizione, non di meno, le sue opere ne sono diretta conseguenza. Proprio di tale cultura in cui era nato e vissuto, fece sue le ideologie, fino al punto in cui cominciò a vedere il mondo come una grande rete di analogie.

Proprio l’emulazione di Gesù si ritrova nei gesti di Vincent evangelista: l’umiltà, l’umanità e il soccorso; ma questa si ritrova anche nella sua missione verso l’arte. Ci viene testimoniato, da alcuni passi in alcuni album di Van Gogh, che fu molto colpito dall’immagine del Cristo rappresentata da Ernest Renan: come “figlio eccelso dell’uomo, che aveva vinto i demoni combattuti dall’umanità intera e nell’Orto degli ulivi (…) aveva affrontato l’angoscia da solo, senza angeli, sostenuto solo dalla forza del proprio carattere”[17]; un Gesù che predicava la religione fondata sull’umanità, che, con le sue parole e azioni, rinnovava il messaggio della Bibbia rivelandosi come “un artista incomparabile”[18], Vincent vedeva Gesù Cristo in questo modo. Sapeva che l’umanità aveva “perso l’anima fuori di sé” e solo imitando la sua esistenza poteva imporre la verità, come rivelazione, agli altri.

Per Van Gogh l’opera d’arte era “come misura di un’esperienza emotiva”[19], rapportava in modo analogico personaggi di opere di altri artisti a persone che conosceva: “l’abitudine lo portò a vedere libri e leggere dipinti senza cogliere differenza tra immagini visive e verbali, ovvero fra soggetto osservato e soggetto rappresentato”[20]. Vincent era nella natura, la natura era in Vincent da sempre.

 

 

II. 2. 2. Zola in Van Gogh

 

L’opera per capire più a fondo ciò che si è enunciato nel paragrafo precedente è Natura morta con bibbia (fig. 5). In questo lavoro di Van Gogh sono presenti, seppur non al primo sguardo, diversi elementi, analogie, che portano al naturalismo, ma che sfociano in un simbolismo davvero particolare.

Oltre alla bibbia aperta sul capitolo 53 del libro di Isaia[21], c’è raffigurato il romanzo di Zola del 1884 intitolato La gioia di vivere, che con la sua presenza potrebbe  voler rafforzare il messaggio tradizionale delle vanitas: la Bibbia, la verità durevole in base alla quale tutto si misura e tutto risulta manchevole; i fugaci piaceri della vita impallidiscono di fronte alla morte e al significato trascendente del verbo di Dio, unico strumento di salvezza.

L’accostamento dei due testi, rimane enigmatico, ma forse se ne trova un riscontro nella sua vita: la bibbia è del padre (morto qualche mese prima della rappresentazione), con cui aveva avuto un rapporto turbolento[22] e il romanzo di Zola metteva in scena, attraverso i suoi protagonisti, lo stesso tipo di conflitti vissuti da Van Gogh.

 

 

Figura 5 Natura morta con Bibbia - Nuenen, 1885

 

Inoltre, una volta capito che la religione tradizionale non rispondeva alle sue esigenze e ai suoi obiettivi, Vincent aveva preferito dedicarsi all’arte, proprio come missione per rivelare la verità. Il romanzo di Zola appare come il nuovo Vangelo della modernità, annunciando l’intenzione del pittore di emulare in pittura i risultati raggiunti dallo scrittore francese in letteratura, in modo da compiere, a suo modo, la missione del padre con metodi pertinenti all’età contemporanea. Diviene come un autoritratto, manifesto dell’identità che mirava a costruirsi e delle scelte che tale operazione comportava.

L’influenza e l’accostamento di questa concezione del naturalismo, che sfocia nel simbolismo espressivo, si troverà in tutta l’opera di Van Gogh. Lui stesso lo sottolineerà spesso nelle sue lettere, il fatto di voler far sua la natura, di renderla e farla percepire a chi osserva le sue opere, perché pensa che la vera umanità dei sentimenti, la vita, debba armonizzarsi e non andare contro la natura.  La sua soluzione a questo dilemma era seguire la strada verso la sua professione di vita,  verso il richiamo dell’arte, ormai era il 1880.

 


 

 

[1] Martin Heidegger, “Der Ursprung des Kunstwerkes” in Holzwege, Klostermann, 1° ed., Frankfurt, 1950 (trad. it.: “L’origine dell’opera d’arte” in Sentieri Interrotti, a cura di Pietro Chiodi, La Nuova Italia, 1° ed., Firenze, 1968).

[2] Vasilij Kandinskij, Über das Geistige in der Kunst, R. Piper & C., 1° ed., München, 1912; Über das Geistige in der Kunst, Insbesondere in der Malerei, a cura di Max Bill, 1° ed., Benteli, Berna, 1952 (trad. it.: Lo spirituale dell’arte, “Saggi e documenti del novecento”, a cura di Elena Pontiggia, SE SRL, Milano, 1989, pag. 17).

[3] Kandinskij, op. cit., pag. 18.

[4] Ibidem, pag. 19.

[5] Pierre Leprohon, Vincent Van Gogh, Editions Jean-Claude Lattès, Paris,1988 (trad. it.: Gerardina Anteli, Van Gogh - Il sublime pittore del sensibile, Rusconi Libri, Milano, 1990, pag. 87).

[6] Kandinskij, op. cit., pag. 78.

[7] Franco Rella, Limina, “Campi del sapere”, Feltrinelli, 1° ed., Milano, 1987, pag. 104 e successive, anche per le citazioni seguenti.

[8] Franco Rella, “Lo sguardo della morte” in Negli occhi di Vincent, Feltrinelli, Milano, 1998, pag. 144.

[9] Le citazioni fatte fin ora sono riferite alla lettera di Nuenen, di fine ottobre 1885, tratte da Lettere a Theo.

[10] Heidegger, op. cit.

[11] Heidegger, op. cit., pag. 19.

[12] Ibidem.

[13] Heidegger, op. cit., pag. 21.

[14] Ibidem.

[15] Heidegger, op. cit.

[16]Druick, Douglas W. e Zegers, Peter Kort, Van Gogh and Gauguin: the studio of the South, The Art Institute of Chicago, Chicago e Van Gogh Museum, Amsterdam, 2001-02 (trad. it.: AA. VV., Van Gogh e Gauguin - lo studio del sud,  Electa, Milano, 2002).

[17] Druick e Zegers, op. cit., pag. 17.

[18] Ibidem.

[19] Druick e Zegers, op. cit., pag. 16.

[20] Ibidem.

[21] Carme, tra quelli detti del “Servo di Dio” composti da questo profeta e poeta, in cui il protagonista, “disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire”, soffre per i peccati altrui e si pone dunque come prototipo del Cristo e della promessa di vita eterna formulata nel Nuovo Testamento.

[22] Anche contraddizione nel modo di intendere la religione.

 

 
 

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