9
Febbraio 2005
"Storia
della camorra"
di
Achille della Ragione
I capitoli:
"Secondigliano: Bronx o Eldorado" e "Secondigliano e la camorra"
sono tratti dal libro di Achille della
Ragione, di prossima pubblicazione sulla storia della camorra |
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Secondigliano:
Bronx o Eldorado?
La Napoli del Rinascimento, cara a Mirella Barracco ed a Gerardo
Marotta, come a Bassolino ed a tutta la nomenklatura oggi al potere, è
divenuta un prodotto di esportazione per riabilitare a fini turistici
l’immagine della città. Molti sforzi sono stati meritoriamente compiuti per valorizzare il centro
storico, ma le grandi periferie da Pianura a Soccavo, da Chiaiano a Miano, da
Piscinola a Marianella, da San Pietro a Patierno a Secondigliano fino a Barra,
Ponticelli e San Giovanni a Teduccio sono state dimenticate ed abbandonate al
loro triste destino di abbiezione e sottosviluppo.
Grandi manifestazioni culturali hanno suggellato il bicentenario della
rivoluzione del ’99, culminante in un oratorio drammatico composto ad hoc
dal maestro De Simone e messo in opera al San Carlo, in un clima apologetico e
trionfalistico, con in platea una parata di autorità e vanità celebranti se
stesse.
Oggi pochi pseudo-intellettuali in combutta con il potere si trastullano a
discutere di filosofia, senza tener conto dei bisogni delle grandi periferie
degradate e senza speranza e delle loro mille tragedie quotidiane, delle
aspirazioni deluse dei loro giovani senza lavoro e senza futuro, dei bisogni
non più differibili di gran parte della popolazione.
Napoli è giustamente ricca di giacimenti culturali, ma la vera ricchezza
della città è costituita dal gran numero di giovani, la maggiore
concentrazione di energia vitale del mondo occidentale, una molla tesa in
grado di sviluppare una forza propulsiva di inaudite dimensioni, un magma
impetuoso da fare impallidire quello che cova minaccioso sotto le pendici del
sonnecchiante Vesuvio.
Questi giovani oggi si trovano, per la quasi totalità, concentrati nelle
grandi periferie dell’hinterland ed un caso emblematico è costituito da
Secondigliano, temuto Bronx, che potrebbe rivelarsi, ne siamo sicuri, se
sapientemente esorcizzato, il nostro vero Eldorado.
Oggi dal Vomero con la metropolitana si arriva in pochi minuti da piazza
Vanvitelli e via Scarlatti a via Bakù e via Ghisleri, dagli eleganti negozi e
dai tanti cinema sempre affollati, al deserto più assoluto di esercizi
commerciali e di luoghi di aggregazione.
Salendo le scale della moderna «Metrò» ci imbattiamo in un cielo grigio e
basso con all’orizzonte ciò che rimane delle famigerate Vele, grandioso
esempio di insipienza urbanistica prima e di scellerato spreco delle risorse
poi.
Scritte sui muri e, dovunque, graffiti, disegni sguaiati, ma soprattutto il
segno di un messaggio di odio giurato verso tutti: i ladroni, i padroni, i
benpensanti, i venditori di morte, i cravattari.Se cerchiamo notizie del
quartiere su libri, enciclopedie, raccolte di giornali e riviste, recuperiamo
poche e sconsolate parole, segno di una rimozione e di un disinteresse
generale.
Secondigliano per il Lessico della Treccani è semplicemente un sobborgo
settentrionale di Napoli (a sette km) situato a 99 metri sul livello del mare,
ai piedi delle ultime propaggini dei Flegrei. Il centro risale all’ottavo
secolo. Stazione ferroviaria sulla linea Napoli-Capua.
Di Scampìa non si sospetta nemmeno l’esistenza, mentre nei celebri volumi
di Romualdo Marrone sulle strade napoletane, vera miniera di notizie, che
dedicano intere pagine a vie e piazze del centro storico, per via Bakù,
arteria principale del quartiere e simbolo stesso di Secondigliano, pochi e
lapidarî righi: «dalla strada statale Appia al Centro Direzionale rione 167,
quartiere Secondigliano. La strada è dedicata al capoluogo dell’Azerbaigian
sovietico, città sul Mar Caspio con cui Napoli ha stretto un patto di
gemellaggio il 21 luglio 1972». E aggiungerei patria del campione mondiale di
scacchi Kasparov.
La caratteristica che più colpisce l’osservatore è l’assenza di negozi e
la difficoltà in cui si dibattono i pochi che ancora resistono.
È un segno inequivocabile dell’economia stagnante e della piaga
dell’usura mai combattuta, alla quale molti, tanti, commercianti sono stati
costretti a rivolgersi in assenza di qualsiasi sistema creditizio a sostegno
delle iniziative locali. E molti di questi bottegai sono divenuti oramai
ostaggi degli strozzini, i terribili cravattari, ai quali hanno ceduto i
sogni, i progetti, le stesse speranze. Sono negozianti dalle facce tutte
uguali, solcate dalle stigmate di antiche tribolazioni, dallo sguardo
abbassato ed assente, sepolti vivi di un tempo difficile, senza memoria del
proprio passato e senza certezza del futuro, ma solamente angosciati da un
esasperato senso del presente.
La metropolitana era la grande promessa, qualcuno si illudeva che sarebbero
addirittura arrivati anche i turisti, ma qui non si avventurano neanche i
napoletani, perché impauriti dalla sinistra fama dei luoghi, anche se,
spavaldi, hanno affrontato senza timore i quartieri più malfamati di Londra e
New York, di Istanbul e di Calcutta.
Qui, alle spalle della fermata della metropolitana, vi sono fango e fogne
otturate, roulottes di zingari e tanta infinita tristezza e malinconia.
Il turismo si è svolto all’incontrario e così il Vomero si è trovato
inondato da torme di giovani vocianti e questa invasione pacifica, ma tanto
temuta dai benpensanti, è stata magistralmente raccontata da Beppe Lanzetta,
uno dei pochissimi intellettuali, assieme ad Edoardo Bennato e Pino Daniele
nelle loro canzoni ed a Piscicelli nei suoi film, struggenti di angoscia e mal
di vivere, che ha descritto questo dimenticato angolo di Napoli. «La ciurma
da paura, festosa, puzzolente, colorata, borchiata, griffata, prezzolata,
falsa, figlia dei R.E.M., Ramones, U2, orfana dei Clash, figlia dei cantanti
napoletani più gettonati sui matrimoni e battesimi, tifosa ad oltranza del
Napoli, arriverà da voi, si presenterà, farà storcere il muso, farà
discutere, darà fastidio, mescolerà deodoranti prendi tre paghi due con
colonie di Guerlain, farà imprecare contro i tempi moderni, le alte velocità,
vi farà dire: ma era proprio necessaria questa metropolitana? E allora
rimpiangerete i tanto vituperati autobus dell’Atan, il 160 nero, il 34, il
118 e soprattutto il 185 che quando lo volevi non passava mai, mai, mai...».
Un’altro problema del quartiere, sentito qui più che altrove, è la
presenza di una malavita che, oltre ad impaurire, detta regole e codici di
comportamento i quali, se fossero adottati anche dai giovani, troncherebbero
qualsiasi speranza di riscatto o di rinascita. Ma per fortuna a Secondigliano
la stragrande maggioranza dei Tonino e dei Totore, delle Assuntine e delle
Annarelle sono ragazzi puliti, generosi, con nel portafoglio la foto
dell’idolo preferito, che è sempre un campione positivo, anche se è un
cantante, un calciatore, o una diva di soap-opera. E dietro di loro vi è
un’enorme massa di brava gente, lavoratori, quando è possibile, pensionati,
piccoli commercianti e mammecoraggio, che sono nate qui, come aggregazione
spontanea nell’alveare disumano dei grandi edifici della 167, un pollone
spontaneo sgorgato all’improvviso per innalzare un argine alla diffusione
della droga. Tutte persone oneste che con il loro comportamento costituiscono
un esempio edificante per i giovani.
Nelle mani delle autorità cittadine e nazionali vi è oggi un’enorme
responsabilità nei riguardi di questi giovani, ai quali bisognerà costruire
un futuro attraverso il lavoro, che non potrà essere certo quello di
contrabbandiere, posteggiatore abusivo, lavavetri, taglieggiatore,
spacciatore, le uniche prospettive che si presentano oggi.
Il futuro di Napoli non si gioca soltanto a via dei Mille o in piazza
Plebiscito, bensì in questi rioni periferici zeppi di giovani, che attendono
soltanto di essere istradati, ma assolutamente privi di tutto: cinema, circoli
culturali, consultorî, giardini, luoghi di aggregazione.
Senza ripetere i disastrosi errori del passato, con cattedrali nel deserto e
migliaia di miliardi erogati scriteriatamente a pioggia ed in gran parte
finiti nelle tasche della camorra e di politici corrotti, bisognerà cercare
la vera inclinazione dei napoletani, che non sono certo le catene di
montaggio, bensì quelle attività che sono state per secoli la ricetta
vincente della nostra economia: agricoltura, artigianato, industrie di
trasformazione, alle quali bisognerà aggiungere turismo e terziario avanzato.
Sembra una ricetta semplice, quasi l’uovo di Colombo, ma su queste
indicazioni bisognerà meditare a lungo ed agire con determinazione ed
anticonformismo.
Lo richiede il futuro della città, ma principalmente lo invocano tanti
giovani privi di bussola, con tanta voglia di fare, ansia di realizzare e di
realizzarsi, ai quali bisognerà offrire più opportunità ed incoraggiamento.
Solo se sarà vinta questa sfida coraggiosa Secondigliano non sarà più il
nostro Bronx, bensì un Eldorado felice ed i suoi figli cesseranno di essere
considerati figli di un Dio minore.
Secondigliano e la camorra
Fino ad ora abbiamo descritto un quartiere tranquillo, ricco di
fermenti e di contraddizioni, ma relativamente calmo; da qualche mese però, a
Secondigliano ed a Scampia è scoppiata una guerra senza esclusione di colpi
per il controllo del traffico della droga, un commercio che negli ultimi anni
ha prodotto guadagni vertiginosi per i gruppi criminali che oggi si combattono
alla media di un morto al giorno. I
mass media, senza pietà, a tutte le ore del giorno, divulgano alla nazione i
bollettini di guerra, che raggiungono le prime pagine dei giornali europei,
con effetti devastanti per l’immagine della città, spaventando i flussi
turistici, che potrebbero essere l’ultima speranza per la nostra economia
agonizzante. I politici, con il capo dello Stato in prima fila, la
magistratura, gli intellettuali si avvicinano al capezzale del malato, fanno
la loro diagnosi, infausta quanto imprecisa, ed
invocano le loro terapie, velleitarie, utopiche, inadeguate,
irrealizzabili, approssimative, assolutamente inefficaci, dimostrando in
maniera inequivocabile, non solo di essere in malafede, ma soprattutto di non
aver capito niente dell’attuale fenomeno criminale!
Si invoca un irrigidimento delle norme repressive, già tra le più severe in
Europa, dimenticando che il processo penale dura anni ed anni, mentre la
carcerazione preventiva scade molto prima della fine del giudizio, circostanza
che permette ai pochi criminali
arrestati, una volta scarcerati, di rendersi irreperibili.
Si invoca l’aiuto della gente onesta, senza tenere conto che i comuni
cittadini si sentono e sono stati abbandonati dallo Stato al loro destino e
solo degli eroi possono collaborare attivamente con la giustizia, in attesa di
testimonianze segretate.
Si invoca la ricetta del lavoro, come se il delinquente, che guadagna milioni
al giorno, al pari dei disoccupati organizzati, lo cercasse, ignorando che
tutte le indagini sociologiche più recenti ed accreditate hanno dimostrato
inequivocabilmente che il camorrista, chiamiamolo così per semplicità, di
qualunque livello gerarchico, trova il suo terreno di cultura, non nella
povertà, ma solo e soltanto nell’ambiente criminale, in cui nasce e si
sviluppa.
Vogliamo provare ad esaminare sotto una nuova luce il fenomeno camorra,
cercando di conoscerlo meglio, per poterlo eventualmente combattere con reale
efficacia?
Sorvoliamo sulle origini della camorra, curiosità che lasciamo ai libri, poco
importa se nasca nel Cinquecento o nel Seicento, se la introducano gli
Spagnuoli o abbia una germinazione spontanea; certo subito dopo l’Unità
d’Italia, quando i conquistatori piemontesi si posero il problema del
controllo dell’ordine pubblico nella nostra città, non ci pensarono due
volte ad affidarlo a Liborio Romano, un personaggio equivoco, il quale, per
formare la Guardia Cittadina, si
rivolse alla malavita
organizzata, fornendole un’investitura
ufficiale deleteria per il futuro di Napoli e del Mezzogiorno.
Fu l’apice della potenza per la vecchia camorra, come il baratro fu toccato
nel 1912, quando, grazie al capitano dei carabinieri Carlo Fabbroni ed alle
confidenze, più o meno veritiere, di Gennaro Abbatangelo, i vertici della
camorra furono decapitati con la sentenza del memorabile processo Cuocolo.
Dopo gli anni Ottanta, caratterizzati dal dominio incontrastato di Raffaele
Cutolo, oggi, nel terzo millennio, i gruppi criminali che dilagano a Napoli ed
in Campania, somigliano più alle bande di gangster, che imperversarono senza
regole negli anni Trenta nelle principali città americane, che ai membri di
una consorteria criminale, nostalgica e moralistica, che amava presentarsi
come onorata società.
Sono saltate tutte le norme di comportamento ed annullate le gerarchie. Oggi
quello che i giornalisti continuano a chiamare camorra è un coacervo di
bande, alcune centinaia censite sul territorio, in acerrima lotta tra loro,
senza che personaggi autorevoli, al di sopra delle parti, possano mediare o
trovare compromessi.
Ogni banda fa capo ad una famiglia, spesso già numerosa, accresciutasi in due
o tre generazioni, attraverso una sapiente ragnatela di matrimoni. Non esiste
quasi mai un capo assoluto, il leader, sempre giovane d’età, è un primus
inter pares tra fratelli, cugini, cognati e comparielli vari, tutti
coetanei. Una prima significativa differenza con la mafia, una struttura
piramidale da sempre spiccatamente verticistica.
Il modello di riferimento e di comportamento è di tipo feudale e,
paradossalmente, aristocratico, con vassalli, valvassori e valvassini. I boss amano mostrarsi potenti agli occhi di tutti gli
abitanti del quartiere, dai quali pretendono rispetto e reverenza e del
destino dei quali, lavorativo o di semplice sussistenza, si arrogano in
diritto di dire l’ultima parola. In occasione di matrimoni interminabili
tappeti accompagnano la sposa delle famiglie che contano lungo tutto il
percorso tra casa e chiesa, nè più, nè meno di come amava comportarsi la
nostra scalcinata nobiltà durante i secoli del vicereame spagnolo.
Il gruppo ha una forte identità con il territorio e con il quartiere di
appartenenza, che non lascia mai, anche se diventa ricco e potente, perché
nel rione ove è nato e cresciuto il novello delinquente può contare su di
una rete di protezione ed omertà impenetrabili.
La “famiglia” malavitosa è tanto più potente quanto più alto è il
capitale di violenza posseduto e nel gruppo la posizione occupata dalle donne
non è di secondo piano, come avviene nelle strutture mafiose. Basterebbe
ricordare i nomi di Pupetta Maresca e di Rosetta Cutolo per convincersene. La
donne napoletane sono state oramai contaminate dalla modernità ed hanno dato
un impulso decisivo alla dinamicità delle strutture familiari. Divorziano,
hanno amanti, mettono gli uomini l’uno contro l’altro, prendono in mano le
redini degli affari, quando i maschi sono costretti ad essere assenti dalla
scena, perche carcerati o latitanti, o addirittura perché passati a miglior
vita.
A Napoli da sempre le donne sono state delle grandi protagoniste
della storia e spesso la gioia, i dolori ed i furori della città hanno
trovato espressione in personaggi femminili dalla forza impulsiva, dalla
irruenza generosa, dallo slancio materno. Nei secoli la realtà e la fantasia
hanno dato luogo a degli archetipi ideali della città femmina: da Marianna
“A capa e Napoli” a Marianna a “Sangiovannara”, dalla Medea di Porta
Medina a Filumena Marturano, fino a giungere alle “Madri coraggio”, nate
nei quartieri spagnoli e diffusesi, novelle don Chisciotte, ovunque ci sia da
combattere la impari battaglia
contro la droga ed, ideale contraltare, le signore della camorra, tutte a
riprodurre una sorta di primato simbolico della donna nella cultura e nella
subcultura napoletana.
La donna educa i figli nella tradizione ed è la prima, se non unica,
responsabile del perpetuarsi di comportamenti malavitosi. Ha assunto da vari
anni un ruolo che potremmo definire di femminismo antifemminista; è
depositaria quasi esclusiva della vendetta, una implacabile vestale, custode
dei valori della famiglia, di cui tiene perennemente acceso il fuoco, anche,
se necessario, col fuoco delle armi. Paradigmatico il comportamento di Pupetta
Maresca e l’eco straordinaria che tuttora conserva la sua vicenda
nell’immaginario popolare. Ella interpetra in senso moderno il codice della
vendetta: non delega ai parenti maschi il compito di santificarla, ma si fa
giustizia da sola, affrontando in pieno giorno ed a viso scoperto il colpevole
della morte del marito con la furia di una leonessa. Una tragedia sofoclea
trapiantata senza cambiamenti ai nostri giorni, con l’opinione pubblica che
ebbe grande comprensione e compassione, nel senso greco del termine, verso la
protagonista e la stessa magistratura che, nell’infliggere una pena non
eccessiva, ebbe a riconoscere, nelle motivazioni della sentenza, la mitezza
della condanna, perché:“ella ha agito esclusivamente per amore e per
desiderio di giustizia, spinta a farsi vendetta da sola a causa dell’incerto
andamento e delle lungaggini delle prime indagini”.
La struttura familiare malavitosa ricalca un modello da sempre presente nella
nostra società, quello delle attività artigianali e commerciali in cui sono
occupati, con vari ruoli, tutti i parenti, giovani e vecchi, uomini e donne.
Pensiamo ai guantai oppure ai magliai e non dimentichiamo che all’inizio del
secolo scorso la cittadina di Secondigliano, allora comune autonomo, viveva e
modicamente prosperava, proprio del lavoro dei magliai, che, attraverso una
rete fittissima di venditori, i famosi magliari, portava il prodotto in tutto
il mondo, fino alla lontana America.
Secondigliano era un borgo tranquillo e bucolico, ce lo descrive con lirica
accorata Arturo Capasso, nativo del luogo, uno dei pochi scrittori che ha
dedicato la sua attenzione a Scampia, definita terra fertile ed ubertosa:
“Nei giardini c’erano le caprette, mentre sui terrazzi c’erano i
colombi. Ma nel giardino c’erano anche le galline, e imparai ben presto a
vedere se tenevano l’uovo. Bisognava isolarle, bisognava metterle una specie
di calza intorno al becco, altrimenti pizzicavano l’uovo appena fatto. Era
un mondo semplice, ordinato, molti andavano in bicicletta. C’erano quattro,
cinque famiglie di grossi commercianti e piccoli industriali, poi una fascia
media ed una molto bassa che abitava vicino al cimitero, nella località detta
dei Censi”.
Che differenza con il quartiere di oggi, senza numeri civici, dove molte
strade aspettano ancora dalla commissione di toponomastica un nome, mentre
quelle che lo hanno, sono prive delle targhe segnaletiche. Strade dove
bancherelle di frutta e verdura confinano senza problemi con i banchetti dei
contrabbandieri di sigarette, strade dove la maggior parte dei tassisti
rifiuta di raccogliere viaggiatori, dopo aver subito infinite rapine.
Fontane da sempre senza acqua e parchi pubblici senza mamme con i bambini al
passeggio, anzi senza alcun visitatore, zone senza alcuna identità o,
viceversa con un’identità troppo imbarazzante, il tutto all’ombra di
palazzoni altissimi da oscurare il cielo, i casermoni dell’Apocalisse, le
tanto famigerate Vele.
La perentorietà della notizia ci obbliga ad aprire una parentesi per
commentare in diretta l’ultimo flash sul pianeta camorra: la foto di Cosimo
Di Lauro imperversa sui video telefonini dei teenager ed ha soppiantato le
icone di moda, alle quali i giovani riservano la loro venerazione, da Colin
Farrel a Leonardo Di Caprio, da Johnny Depp
a Brad Pitt. E l’immagine del bel tenebroso
riscontra eguale successo tra ragazze e ragazzi, le prime colpite dal
fascino magnetico degli occhi e dalla leggenda delle numerose fidanzate, che a
frotte rendevano meno noiosi i giorni dell’inevitabile latitanza, i secondi
stregati dall’inconfondibile volto da duro, abituato a risolvere con la
forza dello sguardo qualsiasi controversia. La colpa naturalmente è dei mass
media che per primi hanno diffuso in maniera martellante la foto del boss
catturato dai carabinieri, senza tener conto della straripante bellezza del
personaggio e del messaggio di fierezza promanante dal volto greco del Di
Lauro. Vogliamo seguire la ricetta dei nostri politici che credono al miracolo
del lavoro? Proviamo ad offrire a Cosimo, appena uscirà, fra poco, da
Poggioreale, in attesa del processo, una parte da protagonista nella
“Squadra” o in qualche altro serial televisivo. Avrà sicuramente un
grandissimo successo e tutti noi saremo felici che le sue imprese siano
virtuali, figlie della fantasia e non della triste realtà di Secondigliano.
Alcuni anni fa una faida simile a quella che attualmente impazza a
Secondigliano ed a Scampia insanguinò le strade dei quartieri spagnoli,
allora regno della famiglia Mariano, che si trovò a dover contrastare le mire
espansionistiche degli scissionisti. Anche in quella occasione vi furono morti
innocenti tra i passanti e si ripetette la stessa penosa trafila e si vide lo
stesso monotono copione al quale siamo assuefatti da secoli: prima gli
omicidi, sempre più efferati, sparando nel mucchio, l’allarme
nell’opinione pubblica, montante giorno dopo giorno e proporzionale alla
quantità di notizie vomitate senza sosta da giornali e televisioni, poi le
minuziose inchieste giornalistiche con descrizione accurata del degrado dei
luoghi, illustrate con foto di volti patibolari, quindi, senza fretta, le
operazioni delle forze dell’ordine, spettacolari quel tanto da rassicurare i
benpensanti, gli arresti, gli interrogatori e la libertà provvisoria o
definitiva per la maggioranza degli indagati, poi le pompose dichiarazioni
degli amministratori locali, le immancabili giaculatorie degli intellettuali,
sdegnati di doversi occupare di tali lordure, infine gli interventi dei
parlamentari dell’opposizione seguiti a ruota da quelli del governo e la
ciliegina finale del discorso del ministro degli Interni, grondante orgoglio e
tronfio di dati riguardanti le operazioni repressive della polizia e dei
carabinieri. Restava da sentire la voce della magistratura, ma per ascoltarla
bisognava, come sempre, attendere l’inaugurazione dell’anno giudiziario,
allorquando, nel baluginio di colori delle eleganti toghe di ermellino, il
Procuratore generale faceva sentire la sua autorevole voce, preoccupata oltre
misura, lanciare, in un gelido silenzio, un inascoltato grido di dolore.
Appena il clamore diminuiva un poco, ecco il perentorio invito, intellettuali
in testa, a non abbassare la guardia e quando poi giungeva il momento di
indicare colpe e rimedi, la scena diveniva kafkiana, con un pietoso
scaricabarile, tra le categorie preposte a risolvere il problema.
Se andiamo faticosamente a scavare in emeroteca o nella raccolta dei discorsi
parlamentari, potremo riesumare interventi sull’argomento di sorprendente
attualità, non solo sulle modalità degli episodi criminosi, ma, ed è
stupefacente, sui sottili intrecci che già nell’Ottocento legavano come
un’edera la camorra alle più disparate classi sociali, ai commerci, sia
all’ingrosso che al dettaglio, alle pubbliche amministrazioni, ai politici
di calibro nazionale.
E non si può non rimanere meravigliati, come ha sottolineato Amato Lamberti,
per anni a capo di un osservatorio istituzionale sul fenomeno, di come un’
inestricabile organizzazione criminale, che per comodità continuiamo a
chiamare camorra, abbia compiuto indenne un viaggio durato secoli:
sopravvivendo a governi eterogenei, dalla monarchia assoluta a quella
costituzionale, dalla dittatura fascista alla democrazia parlamentare ed
inoltre al trauma della guerra civile, che sui libri di scuola scopriamo fu
chiamata Risorgimento, due disastrose guerre mondiali, che sconvolsero e
trasformarono profondamente la società. Senza contare i travolgenti terremoti
sociali che hanno scandito il passaggio da una società agricola, imperniata
nel sud sul latifondo, ad una industriale prima e post industriale e dei
servizi poscia. E nulla hanno inciso la scolarizzazione di massa, la radio, la
televisione, il computer ed il rivoluzionario avvento di internet.
Ma torniamo alla famiglia Mariano ed alla faida che insanguinò i quartieri
spagnoli. Una docente di storia contemporanea della nostra università, la
professoressa Gabriella Gribaudi, studiò per mesi il fenomeno delinquenziale,
che caratterizzò Montecalvario e zone limitrofe, introducendo un approccio
metodologico alla problematica del tutto nuovo, a metà tra l’indagine
sociologica e l’introspezione antropologica. Valutò pazientemente per mesi
i documenti anagrafici dei personaggi coinvolti, scoprendo una ragnatela di
parentele, acquisite attraverso matrimoni combinati negli anni tra i
componenti di spicco delle varie famiglie, che venivano così ad acquisire
maggiore potenza ed un allargamento della zona di influenza.
Con certosina pazienza, spulciando tra le carte processuali, interrogando
magistrati, funzionari di polizia ed ufficiali dei carabinieri, giornalisti
specializzati e tanti normali cittadini, negli anni la Gribaudi è divenuta la
massima esperta dei fenomeni delinquenziali presenti nella nostra regione ed
ha dimostrato la sua competenza con numerosi
articoli di fondo sui quotidiani napoletani e nel corso di conferenze tenute
negli istituti culturali cittadini.
Spesso questa rete di parentele acquisite, tra esponenti di famiglie
gravitanti su quartieri lontani, non si trasforma in alleanze durature, in
mancanza, come abbiamo sottolineato, di una leadership cittadina. A volte
basta uno sgarro, una gelosia, un malcelato desiderio di supremazia per
scatenare battaglie senza esclusione di colpi tra famiglie alleate e legate
anche da vincoli di sangue. Episodi legati alla circostanza che le
organizzazione criminali napoletane hanno una struttura orizzontale e non
verticale come la mafia.
Il reclutamento di nuovi adepti avviene per chiamata diretta…quando esiste
un legame di parentela, oppure in alcuni serbatoi privilegiati, carceri in
primis. Da sempre la pena detentiva, lungi dal preoccuparsi del recupero del
condannato, come previsto chiaramente dalla nostra Costituzione, mira
all’abbrutimento del reo, il quale cade vittima di leggi non scritte, ma
rigorosamente applicate, codificate dai boss, che regnano incontrastati nei
nostri penitenziari. E questo da sempre, nelle spaventose carceri spagnole,
nelle oscure galere borboniche, fino a giungere a quel raccapricciante inferno
dantesco rappresentato da Poggioreale, come sempre un record di abiezione per
la nostra sfortunata città.
Il secondo luogo di reclutamento è costituito dalle bische, dove molte
persone si trovano all’improvviso a dover chiedere prestiti per ripianare
debiti di gioco e poi, presi nel vortice degli interessi usurai, a trovarsi
impossibilitati ad onorare il debito contratto con persone poco
raccomandabili. La prospettiva di saldare cifre considerevoli con un piccolo
favore… costituisce quasi sempre un’attrazione fatale e, di favore in
favore, spesso ci si trova invischiati in imprese più grandi di quanto si
poteva immaginare inizialmente. L’usura, dal radicamento diffuso e dalla
lunga tradizione nell’area napoletana, costituisce il terreno favorevole nel
quale, gente disperata per i debiti, cresciuti in maniera logaritmica, è
costretta a fare cose incredibili, pur di avere una breve dilazione dei
pagamenti.
Un altro bacino di arruolamento è il mondo dei drogati, dove è facile
trovare disperati, in crisi di astinenza,
disposti per una dose anche ad uccidere. In ogni caso, notizie
riservate di cui siamo venuti a conoscenza, pare abbiano confermato che, nella
faida attualmente in corso a Secondigliano, le parti in lotta abbiano
assoldato un numero considerevole, oltre cento, di killer professionisti
albanesi ed alcuni mercenari provenienti dai servizi segreti di nazioni ex
comuniste. Sono queste realtà che inducono i magistrati impegnati in prima
linea nella lotta ad appalesare, nelle loro interviste alla stampa, il più
profondo pessimismo di poter fermare in tempi brevi, pur disponendo di forze
ingenti, i gruppi di fuoco oramai scatenati ed in grado di colpire a
piacimento, nonostante le migliaia di agenti schierati, anche nei giorni in
cui il presidente Ciampi, coraggiosamente, aveva portato con la sua autorevole
presenza un messaggio di speranza e di presenza da parte di uno Stato per
troppo tempo latitante.
Il contrario del reclutamento, il dissociarsi dalla malavita, per gli iscritti
automaticamente per appartenenza familiare, è quanto mai difficile, tanto
pressante è nei giovani la sollecitazione a proseguire in attività con
guadagni enormi ed immediati, mentre i coetanei cercano disperatamente una
qualsiasi occupazione. Provocatoria a tale proposito la proposta di un
magistrato che, alcuni giorni fa dalle pagine napoletane di un diffuso
quotidiano nazionale, lanciava l’idea di “trasferire con la forza i figli
dei camorristi in una lontana località, e lì costruire con loro e per loro
una possibile esistenza”. Una sorta di piano Marshall per il futuro di
Napoli. E leggendo queste amare parole non ho potuto non ricordare una mia
lettera inviata due anni fa ai principali quotidiani italiani e che fu
pubblicata da alcune testate senza produrre alcun risultato:“Vorrei lanciare
attraverso le pagine del suo gionale un S.O.S. per cercare di salvare Napoli,
antica e gloriosa capitale, che, giorno dopo giorno, precipita in un baratro
più profondo e cupo, nell’assordante silenzio dei mass media e nel
disinteresse del governo. Una città da oltre un mese paralizzata
quotidianamente da manipoli di pochi disoccupati di mestiere, prezzolati e
manovrati dalla camorra, mentre il prefetto surclassa Ponzio Pilato nel non
prendere decisioni. Una società di politici inconcludenti, corrotti e privi
d’idee, che da decenni litiga su come spartirsi i finanziamentidi per
Bagnoli, un quartiere dove si gioca il futuro dei Napoletani. Un’area del
paese detentrice di numerosi record, dal traffico più caotico alla
microcriminalità più audace, al racket più opprimente, dal disordine
edilizio più devastante alle densità abitative più alte delle metropoli
asiatiche.
A fronte di tante carenze una misconosciuta ricchezza: la più alta
concentrazione di giovani del mondo occidentale, uno straordinario propellente
che, se correttamente adoperato, potrebbe cambiare il volto di una civiltà.
Napoli non ha bisogno di elemosine, ma di un’attenzione mediatica e degli
uomini migliori a disposizione. Perché lo Stato non decide, con una modesta
spesa, di lanciare una crociata in favore di questa città, una sorta di piano
Marshall post bellico, mandandoci i funzionari più validi, i poliziotti ed i
carabinieri più motivati, oltre naturalmente a questori, prefetti e
magistrati disposti ad impegnarsi in una sfida entusiasmante, che i napoletani
da soli non riescono a vincere”.
La struttura della camorra urbana è profondamente diversa
rispetto a quella della provincia ed ancora più diversa rispetto a
quella che alligna nelle zone rurali. L’una trova le principali fonti di
reddito nel racket delle tangenti alle attività commerciali e nello spaccio
della droga, l’altra si dedica prevalentemente a indirizzare e taglieggiare
i grandi appalti pubblici. Da questa sostanziale differenza, identifichiamo
anche un diverso grado di collusione con la politica: trascurabile e poco
interessato in città, assolutamente indispensabile in provincia, dove tra
l’altro una dimostrazione di quanto asserito è venuta anche, e di recente,
da clamorose sentenze, che se hanno assolto i big, i ministri ed i pezzi da
novanta, hanno inflitto condanne esemplari all’entourage, che pascolava
all’ombra dei grandi della prima repubblica.
La differenza di interessi ed obiettivi spiega anche il perché la lotta per
il predominio si è localizzata negli ultimi anni solo nella nostra città,
con il rischio di allargarsi a breve ad altre famiglie malavitose e ad altri
quartieri. In città si tratta la droga, una fonte di guadagno in grado in
brevissimo tempo di produrre enormi profitti e di conseguenza un enorme potere
economico, riciclato da tempo in larga misura in attività lecite. Infatti
negli ultimi anni la delinquenza ha acquistato, o è divenuta tacitamente
proprietaria di attività precedentemente taglieggiate o sottoposte a prestiti
usurai. Hanno comperato case ed interi palazzi, negozi, supermercati, bar e
discoteche, pizzerie e ristoranti alla moda ed inoltre società finanziarie,
utili a far perdere le tracce di denaro sporco e di import- export, necessarie
per diffondersi ed impossessarsi dei vergini mercati dell’Europa dell’est,
oltre a rafforzarsi naturalmente in attività gestite da sempre in condizioni
di monopolio, come la raccolta e la distruzione dei rifiuti, senza trascurare
naturalmente le sostanze tossiche, trattate con nonchalance e se necessario le
stesse scorie nucleari!
Tutto questo è avvenuto perché l’attenzione dello Stato è stata per
troppo tempo debole e si è così permesso a queste società criminali di
crescere oltre misura, divenendo un vero stato nello Stato, che si avvia a
governare con le proprie leggi, spietate, e con i propri uomini, decisi a
tutto. Una situazione non nuova per l’Italia, basti pensare alla Sicilia
degli anni Settanta, prima che comparissero all’orizzonte i vari Chinnici,
La Torre, Falcone e Borsellino.
Più volte l’allarme sulla criminilità napoletana come modello di
organizzazione economica è stato lanciato dal superprocuratore Vigna, ma è
rimasto senza eco, come pure il grido di dolore del senatore Maritati, membro
della commissione parlamentare antimafia, che di recente ha sottolineato “
quel che accade a Napoli è più tragico, più drammatico e più vasto della
farsa politica da resa dei conti in atto tra centrodestra e centrosinistra”.
Oggi la camorra ha stretto legami ed accordi con la mafia russa e con quella
cinese, con gli Ucraini, per il controllo del mercato del lavoro e con i
Nigeriani per forniture di droga fuori dai tradizionali cartelli
internazionali. Ha creato una zona franca dell’Italia, abitata da quattro
milioni di cittadini, che devono rivolgersi a loro non solo per parcheggiare,
ma anche e soprattutto, per cercare un lavoro o un prestito, bancario o
usuraio non fa differenza, per avere una licenza di commercio o di tassì, fra
poco forse anche per respirare.
Giorno dopo giorno si sta creando un modello sociale aberrante, che prende
ogni giorno sempre più radici. Un’organizzazione di centinaia di migliaia
di persone, che lavorano ad un modello economico parallelo, dalla produzione
allo smercio in tutta Europa di falsi marchi e di falsi prodotti: giubbini,
scarpe, borse, cd, dvd, macchine fotografiche, orologi svizzeri…, una massa
di prodotto, che sfuggendo a qualsiasi imposizione fiscale, cammina grazie a
migliaia di venditori, italiani ed extracomunitari, che se valgono, diventano
a loro volta imprenditori, perpetuando il perverso modello economico. Una
sfida alle istituzioni di portata rivoluzionaria, un pericoloso programma
sociale e criminale, un’economia parallela che, come un cancro è in grado
di attecchire ad altre latitudini, globalizzandosi ed intessendo alleanze
internazionali devastanti. Questo modello ha vinto, e da tempo, la sua
battaglia nel debole tessuto dell’economia napoletana, nei quartieri
abbandonati a sè stessi, tra le classi sociali disgregate e senza speranza,
ma rischia di vincere ovunque, in assenza di una sfida da parte dello Stato,
garante della legalità.
A Napoli e provincia una quota cospicua della popolazione è occupata a
spacciare droga, ad indurre donne alla prostituzione o, nei casi veniali, a
vendere film pezzottati e griffe false nel più assoluto anonimato fiscale, ma
la cosa più grave, segno inequivocabile della situazione drammatica in cui
siamo precipitati, è costituita dal fatto che la restante popolazione
acquista droga, fa la fila per accoppiarsi a prostitute, meglio se minorenni,
acquista merce falsa di ogni genere e si fa vanto di vedere soltanto prime
visioni di contrabbando. Da questo coacervo inestricabile tra delinquenti ed
onesti… difficilmente verremo fuori, senza un mea culpa di ognuno di noi ed
una rivoluzione culturale di portata galileiana.
E giungiamo alla parte più difficile, che in genere manca in tutti i libri
che trattano la storia della camorra: i possibili rimedi.
Vogliamo provare a proporne qualcuno, originale, diverso da quelli in genere
proposti da politici e mass media.
In via preliminare è necessaria un’attenzione, costante e costruttiva, da
parte dei mass media e del potere politico sul problema Napoli, che deve
assumere una priorità nazionale. Se i nostri problemi non diventeranno, ed al
più presto, problemi di tutti gli Italiani la lotta è persa in partenza.
Analisi serie del fenomeno da parte di studiosi che facciano da volano ad una
sequela di iniziative di carattere economico, sociale e legislativo.
Non bisogna aspettarsi molto da proposte di inasprimento delle pene ad
eccezione delle pene comminate per il reato
di estorsione, attualmente punito in maniera non molto severa dalle norme
vigenti. Chi predica la tolleranza zero, volendo imitare la politica anti
crimine instaurata negli anni scorsi dalla città di New York, non deve
dimenticare che alle nostre latitudini tale atteggiamento è stato adottato,
ma con risultati scarsi o nulli, già dai Borbone, che arruolavano a viva
forza sulle loro navi camorristi e delinquenti comuni, da Silvio Spaventa, sul
finire dell’Ottocento, che fu l’artefice di capillari operazioni di
sradicamento e deportazione in massa sulle isole di furfanti e malfattori, per
finire con le guerre civili di annientamento del brigantaggio, volute dai
Savoia e condotte dal giovane Stato italiano, fino all’epoca di Giolitti ed
alle operazioni militari messe in atto dal fascismo, che fallirono sia in
Sicilia, ove regnò il prefetto Mori, che nell’area napoletana.
La storia deve insegnarci che il problema della plebe in epoca moderna ha
sempre angustiato la nostra città, detentrice da secoli del poco invidiabile
primato di maggiore concentrazione di poveri del mondo occidentale. I problemi
strutturali legati a tale situazione di vecchia data, non risolvibile in tempi
brevi, derivano dalla complessa e contrastata vicenda storica della città,
nel Seicento e nel Settecento popolosa quanto Parigi e più di Londra,
capitali di imperi, che hanno esportato la
loro plebe per il mondo , mentre Napoli piange ancora per la perdita del suo
ruolo di gloriosa capitale, costretta anche nel passato a dover fare i conti
tra risorse, modeste e numero di abitanti, esorbitante. E da noi la plebe, con
i suoi umori volubili, ha sempre tenuto in scacco il potere ed è stata in
grado di incutere un proverbiale timore reverenziale, dai tempi di Masaniello
ai giorni nostri, con i cortei dei disoccupati organizzati padroni della
piazza, senza che nessuna autorità osi affrontarli, per timore della rivolta.
Mentre la malavita impazza e spara senza remissione, Napoli è oggi afflitta
da due tipologie di reato: l’estorsione, oramai generalizzata, e tutta una
sequela di reati: dallo scippo, al furto e alla rapina, praticati da una micro
delinquenza che assedia il cittadino ad ogni ora ed in ogni angolo della città.
Una massa di disperati costretti quotidianamente a procacciarsi i soldi per la
droga.
Per il reato di estorsione è opportuno un incremento della pena , ma
soprattutto bisogna favorire l’associazionismo tra le vittime, con polizze
assicurative, agevolate dallo Stato per risarcire eventuali danni e
ritorsioni, naturalmente soltanto per chi presenta regolare denuncia, che in
alcuni casi potrebbe essere segretata. La presenza a Napoli, come consulente,
di Tano Grasso, che mette la sua esperienza a nostra disposizione, ci fornisce
una ragionevole speranza che la situazione, con un impegno congiunto di
cittadini ed istituzioni, possa migliorare anche in tempi brevi.
Fortunatamente…,come ci hanno testimoniato commercianti napoletani fuggiti
in passato al nord per sfuggire alla morsa del pizzo, il racket, in pochi
anni, ha dilagato in mezza Italia: non vi è locale della riviera romagnola
che non paghi la tangente e la situazione è poco dissimile nelle grandi
metropoli padane, sotto il regno
di Bossi. Mal comune mezzo gaudio, ma soprattutto la certezza che un problema
del sud, divenuto ubiquitario, possa interessare il mondo politico, abituato a
guardare soltanto verso Roma o Milano.
Per i reati legati ai drogati, divenuti legioni sempre più numerose, non vi
è che da percorrere, con cautela , la via della liberalizzazione, proprio il
contrario dell’attuale orientamento del governo, teso a criminalizzare
ulteriormente il tossicodipendente.
Bisogna rendersi conto, anche se con tristezza, che in Italia, non solo a
Napoli, alla base di oltre il 50% dei reati vi è l’ombra dei paradisi
artificiali, più di metà dei carcerati è ospite dello Stato per reati
connessi agli stupefacenti, la metà delle forze dell’ordine e della
magistratura è occupata da problemi legati a spaccio e consumo di
droga.
Vogliamo finalmente provare almeno a discutere della possibilità di
liberalizzarla? Una vecchia proposta radicale che non è stata mai dibattuta
seriamente dai mass media e sempre avversata dai partiti, forse perché la
forza dell’antistato, con i suoi guadagni superiori al bilancio di tante
nazioni, è divenuta talmente potente da essere in grado di corrompere
chiunque.
Achille
della Ragione
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