I femminielli
Napoli nella sua lunga storia, più volte millenaria, non ha conosciuto né il
ghetto né l'Inquisizione, perché il carattere peculiare che ci
contraddistingue da sempre è la tolleranza, che oggi, pur tra tante pressanti
emergenze, ci fa progettare a Ponticelli una grande moschea e che in futuro ci
permetterà certamente di rappresentare un ideale laboratorio sperimentale di
convivenza tra popoli eterogenei e culture diverse.
Il napoletano, come dimostrano recenti statistiche, non vede di buon occhio
l'omosessuale più o meno dichiarato, quello politically correct, che oggi,
altrove, va tanto di moda ed è apparentemente accettato da una società
ipocritamente buonista. Ma da noi il femminiello può vivere quasi sempre,
soprattutto nei quartieri popolari, in una atmosfera accogliente, segnata dal
consenso e dal buonumore. Nato in uno squallido basso, privo di aria e di
luce, in una famiglia in cui la promiscuità è la regola, e dove i figli,
tanti, dormono tutti assieme in un unico letto, il femminiello trova il
pabulum ideale per sviluppare le sue particolari tendenze; è sempre l'ultimo
dei figli maschi, cocco di mamma, al cui modello di dolcezza femminile tende
spontaneamente, decidendo, ad un certo momento, senza essere incalzato da
cause organiche o costituzionali, di appartenere: di essere donna! Nei
quartieri popolari è raro che questa decisione venga giudicata una disgrazia,
la famiglia non pensa nemmeno lontanamente di allontanarlo, perchè sa bene che
anche la società del vicolo lo accetterà senza problemi, anzi poco alla volta
lo utilizzerà bonariamente come un factotum buono per mille piccoli servizi,
dall'aiuto nel fare la spesa al rammendo degli abiti, mentre nessuna mamma
avrà timore di affidargli i suoi bambini, anche piccoli, se dovrà allontanarsi
per qualche ora dal basso per un'improvvisa incombenza.
Il femminiello gode quindi di una bonaria tolleranza in tutti i quartieri
poveri della città, dove collabora attivamente all'arcaica economia del vicolo
e dove, per la cultura popolare, non è mai un deviato, ma al massimo uno
stravagante, che ama travestirsi ed imbellettarsi come una donna, assumere
movenze e tonalità vocali caricaturali, amplificate da una gestualità quanto
mai espressiva.
Il popolino lo accetta volentieri e lo utilizza frequentemente come valvola di
sfogo di malumori e aspettative insoddisfatte, scaricandogli addosso, senza
malizia, una valanga di improperi in un cordiale quanto irripetibile
turpiloquio, condito di frasi onomatopeiche ad effetto, comunque senza mai
isterismi o inutili intenzioni moralistiche.
Volgarmente è chiamato ricchione dal popolino, che ignora di adoperare un
termine assai antico e di origine spagnola. Furono infatti i nostri dominatori
per tanti secoli ad introdurre, all'inizio del Cinquecento, nel nostro
dialetto la parola orejones, con la quale si indicavano gli omosessuali, eredi
della dinastia incaica, che si facevano forare ed allungare i lobi delle
orecchie come segno distintivo.
Naturalmente personaggi dal sesso mascherato erano già presenti presso di noi
da migliaia di anni e dobbiamo tornare molto indietro nel tempo, se vogliamo
comprendere fenomeni che ancor oggi resistono nella nostra cultura, pur con le
dovute trasformazioni.
Un esempio paradigmatico di quanto profonde siano le radici di antiche
pratiche appartenenti al mondo dei travestiti, esistenti ancora oggi, anche se
difficilmente visibili, avendo nel tempo acquisito il carattere della massima
riservatezza, è costituito dalla cosiddetta figliata d''e femminielli. Essa
non è altro che un rituale derivante dall'antico rito della fecondità,
praticato per secoli nella nostra città. La figliata si svolge segretamente
alle pendici del Vesuvio, a Torre del Greco, ed è stata descritta
accuratamente con accenti vivaci da Malaparte nel suo libro "La pelle" e dalla
regista Cavani nell'omonimo film.
Questa originale iniziazione ad una femminilità particolare prevedeva un
utilizzo di segrete conoscenze alchemiche, oggi perdute ed avveniva durante
periodici festeggiamenti per l'avvenuta nascita del "maschio-femmina", dagli
iniziati chiamata "Rebis", res + bis, cosa doppia. Il rituale, descritto nella
"Napoli esoterica" di Buonoconto, richiedeva la presenza di un ermafrodito,
l'unica creatura che contenesse i due elementi in cui è suddivisa tutta la
natura. I greci, da cui discendiamo, ritenevano divino l'ermafrodito, perché
figlio della bellezza (Afrodite) e della forza (Ermes).
Naturalmente nel tempo la purezza ideale dell'ermafrodito alchemico si è in
parte smarrita, sostituita dalla più materiale ambiguità del femminiello, ma
l'antica memoria del rito non è andata del tutto smarrita e conserva immutata
ancora oggi la forte carica simbolica, che suggestiona a tal punto alcuni
soggetti, da fargli provare le stesse emozioni ed i lancinanti dolori del
parto. Sdraiato sul lettino ed assistito dalle parenti, il femminiello vive le
ore del travaglio ed il momento del parto. Alcuni soggetti si immedesimano a
tal punto nel rituale, da presentare, per effetto di una profonda quanto
inconscia memoria ancestrale, tutti i segni della sofferenza con un'evidenza
sconcertante, dall'accelerazione del battito cardiaco alla sudorazione, dal
pallore anemico alle contrazioni dei muscoli addominali. Durante le doglie le
parenti accompagnano il travaglio con ritmiche litanie, la cui origine si
perde nella notte dei tempi, dal trivolo vattuto, letteralmente dolore
picchiato, al classico taluorno, un triste accompagnamento vocale delle veglie
mortuarie, caratterizzato da una lamentazione ritmica, scandita da colpi
portati alle guance dalle due mani contemporaneamente, mentre la testa oscilla
ampiamente avanti e indietro. Nell' acme della figliata, il femminiello
simbolicamente espelle dalle cosce un bambolotto di pezza (di legno a forma di
fallo, secondo Malaparte, che asserisce di aver assistito ad una figliata)
accolto con grande gioia dalle comari, che accolgono trionfante il neofita
nella loro ambigua comunità, offrendo in abbondanza agli astanti vermouth e
babà.
A questi riti antichi e dimenticati si ricollega la credenza che il
femminiello porti fortuna, sia portatore di una carica di magico, stando al
limite del diverso, in condizione simbolica di ermafroditismo. Questo è il
motivo per cui egli è delegato a distribuire parte della sua fortuna agli
altri nelle riffe, dove si mettono in palio dei regali in natura, legati
all'estrazione dei numeri del lotto. In genere di lunedì, giorno dedicato
tradizionalmente al culto dei morti, avvengono, in vari punti della città,
queste originali tombolate, accompagnate ad ogni numero estratto dalla
spiegazione dei significati reconditi espressi nella "Smorfia". La più famosa
estrazione avviene ancora oggi periodicamente nella chiesa di Santa Maria alla
Sanità, conosciuta dal popolino come Monacone, all'uscita delle sottostanti
catacombe di San Gaudioso. Il rituale è stato magistralmente descritto da
Roberto De Simone nella "Gatta cenerentola".
I femminielli sono spesso ignoranti, a volte analfabeti, per la precocità
della loro scelta e per la scarsa accoglienza da parte della scuola, che non
gradisce la loro presenza nelle aule, al fianco di coetanei, nei quali i
processi di identificazione sessuale sono ancora in via di definizione. A
tredici anni sono già introdotti a pieno titolo nella cerchia dei travestiti
ed hanno ricevuto da parte del quartiere il consenso sociale che permette loro
di identificarsi in una comunità riconosciuta, che ha un solo nemico giurato:
il mondo delle prostitute, gelose del loro antico mestiere e giustamente
timorose di perdere clientela.
Di giorno il femminiello fa vivere al quartiere momenti di gustosa ilarità,
quando va a fare la spesa o semplicemente passeggia guardandosi intorno.
Truccati pesantemente soprattutto alle labbra, indossano camicette scollate e
pantaloni attillatissimi, che a fatica nascondono una dimenticata, ma sempre
imbarazzante appendice sessuale. Nonostante la cultura modesta, hanno spirito
mordace, senso del ridicolo e la battuta sempre pronta. Raggiungono il massimo
della teatralità dal verdummaro, quando palpeggiano e scelgono le zucchine più
lunghe e più dure o si beano accarezzando i meloni più tondi. Quando entrano
in un negozio il divertimento è assicurato, vengono accolti con piacere dagli
astanti e qualche ragazzo impertinente li sfruculea, canticchiando qualcuno
dei motivi dedicati a loro dai neomelodici o la celebre canzone di Pino
Daniele, che racconta la storia di un travestito di nome Teresa.
Non solo i compositori di canzonette hanno dedicato la loro attenzione al
mondo dei travestiti, finanche un celebre commediografo, come Patroni Griffi ,
ha composto un lavoro teatrale "Persone naturali e strafottenti" e poi un
romanzo "Scende giù per Toledo", il cui protagonista, Rosalinda Sprint, un
travestito, rappresenta la più efficace metafora di una città, costretta dai
ritmi incessanti imposti dalla modernità, a vivere in uno stato permanente di
indeterminatezza. Rosalinda è rappresentata come pura fisicità, ostentata e
sofferente, i suoi monologhi, pur nella loro stupidità, posseggono una carica
di trasgressione e teatralità, derivata da una perentorietà biologica
prorompente che non ammette ammiccamenti né compromessi con la cultura
dominante.
Anche Attilio Veraldi, acuto indagatore dell'odierno disordine napoletano, ha
costellato di oscuri travestiti le intricate trame dei suoi noir. E lo stesso
fanno Michele Serio nel suo romanzo granguignolesco "Nero metropolitano" e
Andrej Longo nel suo ultimo lavoro "Adelante".
Fino agli anni Settanta indossare abiti da donna era per un uomo vietato dalla
legge, ad eccezione dei giorni di Carnevale, e le forze dell'ordine potevano
comminare multe salate ai contravventori. Una sentenza, accolta poi da tutta
la giurisprudenza successiva, stabilì che i travestimenti non erano più reato
e da allora, tra lo stupore generale, il passeggio dei femminielli, in
precedenza confinato prevalentemente nei vicoli dei quartieri spagnoli, è
dilagato in pieno centro cittadino, con l'incessante ancheggiare di silfidi
dalle spalle muscolose e dai seni siliconati prorompenti, a stento tenuti a
bada da scollature vertiginose, dalle cosce monumentali generosamente esposte
in minigonne mozzafiato. Esseri indefinibili, troppo belli per essere donne,
che tradiscono il loro stato ambiguo per l'altezza eccessiva e per il profumo
pestilenziale.
Il fenomeno, come abbiamo visto, non era nuovo, nuovo era soltanto lo
scenario, che abbracciava oramai tutta la città.
In passato, come apprendiamo dalla "Storia della prostituzione" del Di
Giacomo, vi erano luoghi, stabiliti dall'Autorità, dove travestiti e
prostitute potevano liberamente esercitare...A lungo questa zona fu
l'Imbrecciata, che si trovava nei pressi di Porta Capuana, vicino al borgo di
Sant'Antonio Abbate. Cominciò a svilupparsi intorno al 1530 ed in quell'area
vennero progressivamente localizzati tutti i postriboli partenopei. Infine,in
un editto emanato nel 1781, l'Imbrecciata fu riconosciuta come l'unico
quartiere dove era ammesso il meretricio. Nel 1855, per evitare sconfinamenti,
la zona fu delimitata da un alto muro di cinta con un solo cancello d'accesso,
presidiato dalla polizia, che faceva cessare ogni attività poco prima della
mezzanotte. Questa segregazione durò fino al 1876, quando fu consentita la
prostituzione anche in altri quartieri. Nell'ambito di questo rione off limits
vi era una strada frequentata solo dai travestiti, che si chiamava per
l'appunto vico Femminelle, toponimo che tramutò prima in via Lorenzo
Giustiniani ed oggi via Pietro Antonio Lettieri.
A questa strada malfamata dedicò un intero capitolo Abele De Blasio, medico e
scrittore, autore di un ancora letto e consultato "Nel paese della camorra".
Un'attenzione resa obbligatoria nel discettare di onorata società perché, già
dal Settecento, tutto il quartiere era caduto sotto il controllo della
malavita organizzata.
Lo studioso distingue due categorie di omosessuali: i passivi, che definisce
ricchioni e gli attivi, chiamati senza perifrasi uomini di merda. La camorra,
una struttura verticistica a forte impronta maschilista, ammetteva tra le
proprie fila soltanto gli omosessuali attivi, un uomo di merda poteva così
essere anche un uomo d'onore, un ricchione assolutamente no.
Come abbiamo visto sotto la dominazione spagnola, impregnata di un
cattolicesimo rigoroso e perbenista, gli omosessuali erano ghettizzati e
tenuti sotto stretta osservazione. Non sappiamo quanti fossero, ma sappiamo
che, se colti in flagranza, venivano puniti.
Il 17 febbraio 1504 Ferdinando III, detto il cattolico, promulgò una legge che
prevedeva pene severe non solo per gli omosessuali, ma anche per chiunque si
fosse abbandonato ad atti di sodomia. Ad aumentare la severità delle sanzioni
ci pensò poi Filippo II, il quale, il 28 luglio 1571, fece approvare una
legge, che puniva addirittura i baroni, se gli stessi, nell'amministrare
giustizia nei loro possedimenti, si fossero dimostrati indulgenti verso i
cultori della via aborale.
Soltanto nell'Ottocento, dopo l'Unità, il clima divenne più liberale e Napoli
da capitale di un regno divenne, per anni, capitale dell'omosessualità
europea, con una prostituzione maschile in grado di soddisfare i desideri
inconfessabili di ricchi viaggiatori stranieri provenienti dai quattro angoli
del globo, alcuni dei quali celebri artisti e letterati.
Dopo aver esaminato il passato, uno sguardo ai nostri giorni.
La diffusione capillare della droga, anche se giunta in ritardo nella nostra
città, perchè ad essa si opponevano famosi camorristi, come lo stesso Cutolo,
ha travolto equilibri secolari ed anche la comunità dei femminielli ne ha
risentito vistosamente. La peste del XXI secolo, l'AIDS, ha cominciato a
dilagare, riducendo a larve e fantasmi vaganti tanti omosessuali, costretti a
diventare miseramente posteggiatori abusivi o mendicanti. I vicoli dei
quartieri spagnoli, dopo il sisma del 1980, sono stati progressivamente
occupati da extracomunitari, dalla cultura lontanissima dalla nostra, per cui
è scomparso quell'ambiente familiare del vicolo, con la sua economia ed i suoi
rapporti interpersonali molto stretti, quasi maniacali. La vita quotidiana
nelle stradine sopra via Toledo era scandita da un senso di socializzazione e
di appartenenza fortissimo, ancor più stretto per chi viveva nella stessa
strada. Il senso della vita comunitaria tra il popolino si è affievolito
lentamente dal dopoguerra in poi, per deteriorarsi maggiormente con l'arrivo
di cingalesi e capoverdiani. Un dato eminentemente urbano, non derivato dalla
civiltà contadina, che ha caratterizzato per secoli i nostri vicoli e che oggi
è al capolinea. Scomparso il proprio territorio protetto i femminielli si
trovano oggi alla deriva senza bussola e senza consenso sociale. Devono
combattere con i viados brasiliani, importati massicciamente dalla malavita,
portatori di una sottocultura diversa, legata unicamente al moloch dei nostri
giorni infelici: il denaro.
Cambieranno, scompariranno, come sono scomparse le nostre puttane, sostituite
egregiamente da albanesi e nigeriane? Sembra sia in atto una vera e propria
mutazione cromosomica. In ogni caso i femminielli di domani saranno diversi da
quella specie, che ha allignato per 25 secoli all'ombra del Vesuvio,
costituendo una caratteristica, nel bene e nel male, della nostra amata città.
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