La Cappella Sansevero, chiamata
anche Santa Maria della Pietà o Pietà dei Sangro (o Pietatella
perché,
secondo una leggenda, una notte vi sarebbe stato arrestato un ladro che, per ottenere
la libertà, aveva chiesto pietà alla Vergine, da qui il
nome Pietatella), uno dei monumenti più visitati di Napoli, riscuote
un notevole interesse da oltre duecento anni. Secondo la testimonianza
dello storico Cesare d'Engenio (1624) la fondazione della cappella potrebbe
fissarsi intorno al 1590.
La prima pietra fu probabilmente posta dal
duca Giovan Francesco di Sangro di Torremaggiore, valoroso soldato, che
in seguito ad un voto dopo il quale venne miracolosamente guarito da una
malattia, volle edificare come ringraziamento alla Vergine della Pietà
la Cappella, la cui effigie in origine era in affresco su un muro del
giardino del suo palazzo; nel 1590 l'affresco fu poi staccato dal muro
e collocato nella Cappella. Sulla porta maggiore è collocata una
piccola tribuna dalla quale partiva il passaggio tra la chiesetta e il
Palazzo de' Sangro distrutto nel 1889. Nel 1608 Alessandro di Sangro,
figlio di Giovan Francesco, ampliò l'ambiente primitivo "perché
non era capace al concorso di molti, che la frequentavano per gli infiniti
miracoli" e destinò la cappella, oltre che ai compiti di culto,
a luogo di sepoltura per la sua famiglia.
Il periodo seicentesco è alquanto oscuro perché l'attuale
sistemazione dell'ambiente, voluta da Raimondo di Sangro nel secolo successivo,
scompaginò in gran parte l'assetto originario per far posto alle
nuove opere da lui stesso coordinate. Non si conosce il nome dell'architetto
che diresse l'edificazione della struttura originaria, ma probabilmente
egli dovette seguire le idee del committente, poiché la semplicità
della pianta rettangolare, priva di una vera e propria abside, e volta
a dare il massimo risalto alle sculture celebrative ed alla decorazione,
escludono un momento ideativo reale.
Ma un primitivo fasto seicentesco dovette
esistere nella cappella in quanto Pompeo Sarnelli annotò nel 1697
che la cappella è "grandemente abbellita con lavori di finissimi
marmi, intorno alla quale sono le Statue di molti personaggi di essa famiglia
co' loro elogi".
Qualcosa
di questa decorazione seicentesca rimane nel rivestimento in marmi policromi
della parete di fondo, ai lati del grande altorilievo settecentesco. Dei
molti monumenti ricordati anche dal Celano nel 1692 ne restano solo quattro:
quello di Paolo di Sangro posto dal figlio Giovan Francesco primo
principe di Sansevero nel 1642 - attribuito con felice intuizione da Marina
Picone a Giulio Mencaglia, e per il quale solo molti anni dopo è
emerso il documento di conferma - è collocato nella prima cappellina
della parete sinistra. Il suo ritratto a figura intera è da considerarsi
uno degli esempi più insigni di ritrattistica seicentesca. L'effige
con gli attributi militari in primo piano riflette lo spirito eroico di
quella ampia parte della nobiltà napoletana che cercò glorie
e onori al seguito degli eserciti spagnoli sui campi di battaglia di tutto
il mondo.
Vi è poi il Monumento ad un altro
Paolo di Sangro (1569-1626), quarto principe di Sansevero, scultura
attardata nei modi ancora cinquecenteschi, benché databile al secondo
quarto del secolo XVII, posto nella prima cappella a destra. Il Monumento
a Giovan Francesco Paolo di Sangro (1524-1604), fondatore della cappella,
è collocato dopo quello del Mencaglia e fu voluto dal figlio Alessandro
di Sangro, patriarca di Alessandria realizzato nel 1652, il cui ritratto
a mezzo busto freddamente stilizzato è posto nella parete sinistra
del presbiterio.
Chi modificò e perfezionò la Cappella Sansevero nel '700 fu
Raimondo de' Sangro, principe di Sansevero e di Castelfranco, duca di
Torremaggiore e Grande di Spagna, che si distingueva per gli studi, la
cultura e l'amore per l'arte. La sua fama è dovuta innanzitutto
al suo genio: Raimondo de Sangro, era uno degli ingegni più brillanti
della sua epoca, arricchì la Cappella di nuove pregiate opere a
partire dal 1745. Raimondo de Sangro nacque a Torremaggiore nel 1710.
In gioventù si dedicò con passione a diversi studi. Il suo
obbiettivo era di potenziare lo stato in materia militare ma inventò
anche straordinarie curiosità artistiche e pirotecniche, il suo
interesse si volgeva anche alla tintura delle stoffe, alla società
civile con ricerche sulle macchine idrauliche e pneumatiche, alla progettazione
di orologi ed altro ancora.
Nominato gentiluomo di camera per Carlo di Borbone e in seguito Accademico
della Crusca, nel 1738 il Principe di Sansevero si trasferì a Napoli,
nel sontuoso palazzo di famiglia che si affaccia su Piazza San Domenico
Maggiore, partecipando attivamente alla vita di Corte e diventando ben
presto uno dei personaggi più in vista della Città. Appoggiò
la politica illuminata di Carlo di Borbone contro l'oscurantismo del clero
e dei nobili, arroccati in difesa di vecchi privilegi. Aderì alla
Massoneria ma in seguito l'abiurò, anche se probabilmente solo
ufficialmente, per dedicarsi completamente alla ricerca scientifica e
alla decorazione della Cappella funeraria di famiglia.
La Cappella rappresentava una esaltazione
della sua Casata, sottolineata dall'antichità e dalla santità
della sua ascendenza aristocratica come testimoniano i bassorilievi e
gli affreschi. Troviamo così sottolineate imprese belliche, qualità
morali e tutta una rete di alleanze strette dai di Sangro con alcune grandi
famiglie del regno attraverso una serie di matrimoni e di alleanze che
rendevano spesso temibile il potere dell'aristocrazia. L'esaltazione della
potenza del casato si rispecchia nella Cappella passando dai meriti temporali
a quelli spirituali muovendosi dai livelli inferiori a quelli superiori
della Chiesa: sugli archi delle cappelle, Francesco Queirolo scolpì
sei cardinali protettori della famiglia, ed ancora più in alto,
nella volta, alla Gloria del Paradiso, affrescata da Francesco Maria Russo
nel 1749, partecipano ben sei santi di Sangro, dipinti in medaglioni.
Quella che doveva essere una cappella funeraria si trasforma in un discorso
omogeneo e ben orchestrato che, esaltandoli, fa in modo che i meriti e
le qualità dei defunti suonino a gloria per la generazione presente
e per le future, sostenendo le fortune e l'immagine del casato. Dunque
un profondo senso della storia e della continuità, esposto per
immagini allegoriche dall'apparenza poco mortuaria. In effetti le sole
rappresentazioni di un qualche effetto macabro sono i due teschi e le
tibie incrociate, scolpite sul portale laterale della chiesetta, eseguito
nel 1744 dal piperniere Matteo Saggese. A quello sulla caducità
si affianca, prevalendo, il discorso sull'eternità e sul valore
della virtù che dà vita ad un'architettura spirituale che
consente un ulteriore livello di lettura, meno esplicito del precedente
e fondato sugli ideali massonici. Prima di accedervi occorre ricordare
come il principe fu massone fin dagli anni quaranta del secolo e Gran
Maestro della loggia napoletana, costretto nel 1751 ad abiurare a seguito
dell'editto antimassonico di Carlo di Borbone e degli attacchi dei padri
gesuiti Pepe e Molinari. Un'abiura che evitò forse ulteriori persecuzioni
agli adepti, ma che non significò la totale rottura dei legami
con un mondo tanto vivace culturalmente, aperto verso il moderno e la
scienza, libero da pregiudizi di casta. Massoni erano il suo biografo
Origlia e molti dei suoi amici e corrispondenti. Anche di autori d'ispirazione
massonica furono molti dei testi da lui editi in una tipografia, sita
nel suo palazzo, dove pare si stampassero patenti con simboli massonici.
Si tratta talora di opere di grande valore estetico, come la sua Lettera
Apologetica, dove applicò un nuovo procedimento, da lui messo a
punto, per stampare a più colori con una sola impressione di torchio.
Attraverso i suoi scritti e quelli di cui patrocinava la pubblicazione
ci rendiamo conto che il principe, per quanto attento alla ricerca di
spiegazioni scientifiche dei fatti, non giunse ad una concezione materialistica
e che per lui cabala ed allegorie avevano un forte valore, come gli insegnavano
i testi di alcuni grandi massoni europei, da Alexander Pope al marchese
d'Argens al Ramsay.
E a questo universo, dai significati esoterici, fece ricorso nel dettare
le allegorie dei mausolei nella cappella. Come ha scritto Rosanna Cioffi,
in un discorso pronunciato nel 1745 per accogliere nella loggia napoletana
alcuni apprendisti, il de Sangro pose l'accento sulle virtù necessarie
al massone per realizzare perfettamente una sorta di architettura spirituale
che consenta la rinascita simbolica ad una vita non sottomessa alle passioni,
bensì ispirata all'uso della ragione e all'esercizio della virtù.
Nel 1750 Raimondo iniziò l'opera chiamando
a Napoli alcuni dei migliori artisti italiani dell'epoca, tra cui il Corradini,
il Querolo, il pittore Nicola Maria Rossi,il pittore e scultore Francesco
Celebrano, Paolo Persico e Francesco Maria Russo, che si adoprarono al
massimo per edificare questa splendida costruzione.
La facciata, in verità, è alquanto modesta ma, dalla piccola
porticina alla calata San Severo o dalla Porta Grande, si entra in un
ambiente talmente affascinante da risultare simile ad un'apparizione fiabesca;
una lapide è datata 1766, ricordo dell'anno in cui il principe
ritenne di aver portato a termine la sua opera.
Il veneziano Antonio Corradini ed il genovese Francesco Queirolo, chiamati
dal de Sangro per contrapporli alla Scuola artistica locale di tendenza
popolareggiante ed episodica, portano in questo singolare monumento l'esperienza
internazionale del Rococò piegata e distorta a rappresentare la
strana mitologia aristocratica e illuminata del Principe di Sansevero
e la sua volontà di stupire. La cappella è costituita da
un'unica navata rettangolare, con quattro arconi per lato che delimitano
le quattro Cappelle; tra gli archi acuti e il cornicione si trovano dei
capitelli corinzi in stucco, disegnati dallo stesso principe ed un breve
presbiterio rialzato su di un gradino di fondo.
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Dello stesso Russo è la tomba
che Raimondo di Sangro fece fare per sè. Non si può escludere
che il disegno della tomba sia stato ideato dallo stesso Principe e fatto
disegnare e realizzare dal Russo. L'iconografia della parte superiore
del monumento si rifà ad una tradizione tipica dell'aristocrazia
napoletana che amava ricordare, nella tipologia funeraria, le cariche
militari del defunto. Il ritratto di Raimondo di Sangro, a differenza
di quello del figlio, fu eseguito con la tecnica della pittura oloidrica
di invenzione del Principe stesso. Purtroppo la resistenza al tempo agli
agenti atmosferici non è stata eccellente trattandosi di colori
ad acqua con l'aggiunta di particolari collanti.
Nella parte inferiore del mausoleo troviamo una lapide con una lunga iscrizione
celebrativa circondata da un fregio vegetale a rilievo. Si dice che questa
lapide in marmo, una volta rossa e con lettere a rilievo, non sia stata
realizzata mediante incisione ma che sia stata realizzata con tecniche
di colorazione e corrosione del marmo ritrovate dal Principe. Nel mausoleo
di Raimondo di Sangro è conservata l'antica pavimentazione in marmo
che originariamente ricopriva la chiesa. Lo schema del disegno di base
consisteva in quadrati concentrici collocati in lieve prospettiva ed abbinati
a svastiche, anche esse collocate un po' di traverso, con relative propaggini
ad angolo retto che si collegavano tra loro senza mai interrompersi. Al
centro, sempre in marmo policromo, era collocato lo stemma di casa di
Sangro con corona principesca, ornamenti vari ed il motto di famiglia:
UNICUM MILITIAE FULMEN
Nel ricreare gli ambienti della cappella Raimondo ripensò i mausolei
di alcuni suoi antenati in modo da aggiungervi la propria tomba, quella
del primogenito Vincenzo e delle rispettive mogli.
Superando il classico mezzobusto del defunto, Raimondo di Sangro progettò
per ogni antenato una statua allegorica rimandando il referente fisiognomico
ad un piccolo ovale al di sopra di questa. Il di Sangro scelse per le
sue virtù il più convenzionale codice di rappresentazione
allegorica, risalente alla fine del `500. E' interessante ricollegare
le virtù qui rappresentate con quelle che ogni massone deve possedere
per edificare se stesso. Questo dimostra che di fatto la pubblica abiura
delle sue frequentazioni massoniche non comportò la cancellazione
del credo massonico, anzi alcuni autori chiamati a completare l'opera
erano massoni. Il primo artista che affrontò organicamente il lavoro
fu il veneto Antonio Corradini, legato ad ambienti massonici, che giunse
a Napoli nel 1749 circondato da grande fama per aver lavorato per casa
d'Austria. All'anziano maestro va attribuito l'intero corpus plastico
dei bozzetti, realizzati seguendo le indicazioni del principe.
Di sua mano potè completare entro il 1752, anno della sua morte, solo
alcuni gruppi e precisamente la Pudicizia, il Decoro e la Mestizia. Il
gruppo della Pudicizia, fu eseguita nel 1751 quando lo scultore, famoso
in tutta Europa, giunse a Napoli ormai molto anziano (morirà infatti
l'anno successivo). È stato notato come quest'opera per la sua
sensualità si adatti più ad una "galleria" che
non a rappresentare
la principale virtù di Cecilia Gaetani dell'Aquila,madre del principe,
ma la fusione tra gusto profano e sacralità costituì la
cifra di questo particolare periodo artistico. E' posta ai piedi del pilastro
sinistro dell'arco grande che separa l'abside dal resto della chiesa.
La statua poggia su di un piedistallo semi cilindrico sul quale il bassorilievo
detto "Noli me tangere" raffigura Gesù risorto che appare
alla Maddalena. Il ritratto di donna Cecilia è collocato, in un
medaglione, su una piramide che sovrasta la statua.
La pudicizia è rappresentata da una
donna ricoperta da capo a piedi di un velo tanto sottile e trasparente
che lascia apparire chiaramente l'espressione compunta e serena del viso
e le opulente forme matronali. Solo le mani e i piedi, cinti da calzari,
sono scoperti. Da una mano all'altra ricorre, lungo il corpo, in una piega
più pronunziata del velo, un festone di rose, a terra è
poggiato un grande vaso di profumi e dal suolo spunta un tronco reciso
e fiorito, a significare la morte ed il superamento della stessa.
Il Decoro, anch'esso del Corradini, è
rappresentato da un giovane nudo, con i fianchi avvolti in una pelle di
leone. Al di sopra della nicchia della statua è collocato un bassorilievo
con i profili affiancati delle terze principesse di Sansevero.
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Proseguendo nella visita alla cappella scendiamo una stretta scaletta e arriviamo
nella cavea, un angusto ambiente posto al di sotto del livello del suolo.
In questo vano sono state collocate due vetrine
contenenti scheletri completi che mostrano le viscere nella cavità
toracica e nell'addome, mentre lungo le ossa si vede uno sviluppo impressionante
di vene e arterie. La leggenda vuole che il Principe avrebbe iniettato
un liquido mercuriale a due suoi servitori, al fine di metallizzare l'intero
sistema arterioso e venoso dei due corpi. Al di là degli aspetti
fantastici, in realtà le due macchine anatomiche sono il frutto
degli esperimenti scientifici di Raimondo di Sangro, che a giusta ragione
viene considerato tra i grandi profeti dell'illuminismo.Il sistema arterioso
e venoso, collocato su una vera struttura ossea, stupisce per la verosimiglianza
e l'accuratezza, sicuramente avanzate rispetto alle conoscenze dell'epoca.Per
questo motivo le due macchine anatomiche sono state oggetto di controverse
opinioni e di accesi dibattiti sul metodo della loro realizzazione. Tra
le altre scoperte attribuite al Principe segnaliamo la carrozza anfibia,
il tessuto impermeabile, i cannoni leggeri, l'archibugio a carica antivento
ed il lume eterno che traeva la sua fonte energetica da un particolare
liquido, tutte frutto di una ricerca tecnologica effettuata da un uomo
di grande ingegno e versatilità.
Ma a sua perenne memoria resta soprattutto la Cappella di Sangro, così
ricca da poter essere considerata un vero museo della scultura del `700
e resa ancor più suggestiva dai profondi rimandi interni e dalle
sottili allegorie che devono essere intese in chiave massonica ad esempio
il simbolo di resurrezione ma, nella statua della Pudicizia, capolavoro
del Corradini, anche dell'antica sapienza velata ed intangibile per chi
non sia iniziato ai suoi misteri (Cioffi). Ancora allusioni massoniche
troviamo nel Dominio di sé stesso, nello Zelo della Religione,
nella Sincerità, nel Decoro, nell'Amor Divino, nell'Educazione,
nella Liberalità, nella Soavità del giogo coniugale, tutte
virtù attribuite a varie donne della famiglia ma espressamente
citate, nel 1745, fra quelle che Raimondo riteneva essenziali per la formazione
del perfetto massone. Ed ancora legati a significati esoterici erano il
pavimento ed il soffitto: il primo, di cui restano pochi elementi non
più in situ, recava un disegno labirintico, allusivo del percorso
iniziatico, realizzato in bianco e nero, colori del bene e del male; il
soffitto, affrescato dal Russo nel 1749, mostra la colomba bianca, rappresentativa
dello Spirito Santo ma, in alchimia, della materia prima da cui avrà
origine la pietra filosofale, con sul capo il triangolo, simbolo divino
ma anche del fuoco e della stessa massoneria. A difesa ideale di questo
mondo si pone Cecco di Sangro, che esce armato da una cassa sorprendendo
i nemici. Quest'immagine rievoca uno storico fatto d'armi ma richiama,
con la sua presenza armata sull'ingresso, una delle cariche fondamentali
di una loggia: il cosiddetto fratello copritore che, vegliando all'ingresso,
doveva assicurare che la loggia restasse coperta agli occhi dei non appartenenti
alla società segreta. (Cioffi). Come si vede, la concezione della
cappella si sviluppa su due livelli di lettura, secondo un disegno che
Raimondo mise a punto nel 1750 con la collaborazione di Antonio Corradini,
scultore di simpatie massoniche, reduce dall'Austria. Con la sua chiamata,
e poi con quella del genovese Queirolo, il principe dimostra, ancora una
volta, la sua volontà di raccordarsi ad una cultura diversa, di
respiro europeo, e di realizzare un progetto originale e senza precedenti
a Napoli. Al progetto iniziale egli rimase fedele anche quando, morto
Corradini e allontanato il Queirolo, dovette ripiegare su alcuni scultori
napoletani come Celebrano e Paolo Persico, meno capaci dei precedenti,
ma comunque in grado di trasformare in immagini i sogni del principe.
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