Tratto da: http://www.sanvincenzoabbey.org/italian/welcome.html
Basilica di San Vincenzo |
Scavi d'abbazia medievale |
L'Abbazia di San Vincenzo fu fondata nel 703 A.D. da tre monaci beneventani, Paldo, Tato e Taso. Essi costruirono il loro monastero sui ruderi di un oratorio paleo-cristiano romano dedicato a San Vincenzo, diacono e martire spagnolo. In meno d'un secolo il monastero divenne una delle abbazie più grandi d'Europa e un centro d'alta cultura spirituale ed intellettuale. Tra le opere d'arte realizzate dai monaci ebbero posto preminente la lavorazione del vetro, della ceramica, del metallo, la pittura a smalto, la scultura, la calligrafia, la miniatura su manoscritto e l'arte dell' affresco. Il ciclo degli affreschi della cripta d'Epifanio rimane oggi pregiato tesoro nazionale, mentre la basilica di San Vincenzo Maggiore, costruita dall'Abate Giosuè con il sussidio di appartenente alla dinastia di Carlomagno, pure nello stato attuale di ruderi, è una meraviglia d'architettura carolinga.
Il 10 d'ottobre del 881 questa vita d'intensa creatività fu violentemente interrotta da una strage saracenica. Il monastero fu bruciato e furono uccisi tra cinquecento e novecento monaci. I superstiti fuggirono a Capua. Nel 914 la comunità ritornò a San Vincenzo, ripristinò gli antichi edifici e restaurò la vita regolare. Nel XII secolo il monastero fu ricostruito al di là del Volturno, utilizzando gran parte delle pietre ed elementi decorativi dell'antico fabbricato. I ruderi del monastero primitivo furono riempiti e trasformati in terrazzi per la coltivazione agraria. Fu nel nuovo monastero che il famoso Chronicon Vulturnense vide la luce. Questo manoscritto è tuttora conservato nella Biblioteca Vaticana.
Entrata a palazzo d'abbazia |
Distrutto più volte, San Vincenzo fu abbandonato definitivamente dai monaci nel '400. Nel 1699 l'Abbazia di Montecassino prese possesso del malridotto monastero, però l'iniziativa fu bruscamente interrotta dalla soppressione napoleonica del 1807. Dopo il Risorgimento, la proprietà passò nelle mani del duca abruzzese Enrico Catemario di Quadri. Questi cedette il monastero a Montecassino nel 1942 con la stipulazione che l'Abate Gregorio Diamare facesse risorgere la vita monastica a San Vincenzo. Il restauro fu eseguito sotto l'ispirata direzione dell'Abate Ildefonso Rea. Il 12 maggio del 1990, dietro l'invito dell'Abate Bernardo d'Onorio, sono arrivate due monache claustrali dagli Stati Uniti, Rev.da Madre Myriam Benedict, O.S.B., superiora, e Rev.da Madre Agnese Shaw, O.S.B., co-fondatrice, per intraprendere il lavoro pionieristico della rifondazione a San Vincenzo della vita monastica tradizionale, con la sua missione di pace nel mondo moderno, tramite l'istituzione di una comunità di preghiera e di lavoro.
Tratto da: http://www.campaniafelix.it/matese/abbazia_di_s_vincenzo_al_volturno.htm
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Tratto da: http://www.sanvincenzoalvolturno.it/
L'INSEDIAMENTO Sulle
prime vicende storiche del monastero di San Vincenzo al Volturno getta
luce il Chronicon Vulturnense, un codice miniato redatto intorno al 1130
da un monaco di nome Giovanni. Questi, a sua volta, aveva attinto ad una
fonte di VIII secolo e ad una di IX-XI secolo.
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Nell'arco
di tutta la sua storia, il complesso monastico di San Vincenzo al Volturno
è stato caratterizzato dalla presenza, al proprio interno, di impianti
produttivi cui si deve la realizzazione di oggetti di varia natura
destinati non solo al consumo interno, ma anche all'esportazione.
All'inizio del IX secolo, durante l'edificazione della nuova chiesa
abbaziale, l'area, che successivamente avrebbe accolto l'atrio, ha
ospitato diverse officine. E' probabile che, al loro interno, fossero impegnati anche i membri della comunità monastica, durante le pause tra gli uffici divini. Queste strutture, che produssero in loco quanto era necessario alla costruzione della basilica, si sono avvicendate in successione cronologica: in un primo momento fu eretta un'officina per la produzione di laterizi che copriva un'area di circa 40 mq. A seguito della sua demolizione, nella stessa area, fu impiantata una vetreria. Alcuni scavi, effettuati pochi metri a sud della vetreria stessa, hanno portato alla luce due larghe fosse contenenti resti relativi alla produzione di campane. Queste fosse, databili intorno all'820, rappresentano l'ultima fase dell'attività industriale delle officine temporanee prima della costruzione dell'atrio. La lavorazione del vetro comprese la realizzazione di oggetti di vario tipo e finalità come pannelli per finestre, lampade e vasellame di lusso, talvolta anche decorato con disegni a foglie e losanghe realizzati con sottili lamelle d'oro. Alcune caratteristiche strutturali e formali di questi oggetti hanno indotto a supporre che essi erano stati prodotti su standard qualitativi vicini a quelli della tecnologia romana. Sicuramente il vetro veniva colorato con tessere provenienti dallo smantellamento di mosaici di età romana. Ritrovamenti archeologici suggeriscono che il vetro grezzo poteva anche essere importato dai paesi del Mediterraneo orientale e, in particolare, dalla Palestina. Cronologicamente parlando si è trattato di una produzione di durata limitata: la vetreria, infatti, sembra essere stata attiva solo nei primi anni del IX secolo. Una volta completata la realizzazione della basilica, la primitiva vetreria é stata smantellata. Un nuovo complesso produttivo è realizzato lungo il fianco sud-orientale della nuova chiesa abbaziale. Qui vengono allestiti altri impianti di carattere permanente rimasti in funzione, pare, sino alla metà del IX secolo. Questo complesso comprendeva una serie di ambienti. Fino ad ora sono stati scavati quattro ateliers. Uno di essi era forse destinato alla manifattura di recipienti ceramici. Si trattava, tuttavia, di una produzione piuttosto rozza, comprendente giare, piatti, scodelle e brocche: il tutto eseguito, pare, con l'ausilio del tornio lento. Queste officine, però, producevano anche oggetti di pregio, come manufatti di metallo argentato, valorizzati dalla presenza di smalti cloisonnés, dall'incastonatura di pietre preziose e gemme e, infine, dall'inserimento di tarsie eburnee; si lavoravano anche il corno, l'osso e l'avorio. Un esempio abbastanza noto, di quest'ultima produzione, è offerto da una piccola testa in avorio di ippopotamo, raffigurante , probabilmente, un santo, lavorata in rilievo e impreziosita dall'inserimento, in corrispondenza dei bulbi oculari, di due perline in vetro colorato. La forma del volto ricorda molto da vicino quella delle teste dipinte nella cripta di Epifanio; i profondi tagli, che sottolineano la cavità degli occhi, rappresentano, forse, un tentativo di riprodurre quell'effetto chiaroscurale che costituisce un elemento tipico di tutte le figure realizzate sui muri del monastero in questo periodo. Presumibilmente, dunque, l'artigiano che ha intagliato l'avorio conosceva le convenzioni figurative adoperate dai pittori che lavoravano accanto a lui. Questo, in sostanza, equivale a dire che gli artigiani interagivano, si influenzavano vicendevolmente. Un altro esempio di mutua suggestione tra artigiani attivi su materie diverse può essere colto nel motivo delle venature ondulate che ricorre, in diversi ambienti, sulla parte bassa delle mura, dove è stato dipinto, ad affresco, ad imitazione del marmo. Lo stesso motivo è presente anche sui laterizi adoperati per la pavimentazione di varie stanze e, ancora, lo si vede in trasparenza su alcune vetrate del refettorio dei monaci. Un ulteriore esempio di questo tipo é quello di un complesso disegno di stelle tangenti ad otto punte individuato sia in uno dei pannelli affrescati della cripta della basilica di San Vincenzo Maggiore sia su una serie di tegole in terracotta. Un fenomeno, quindi, di vera e propria interazione tra pittori e decoratori che potrebbe lasciare intendere, effettivamente, l'esistenza di comuni moduli di riferimento. Le numerosissime lapidi commemorative, le iscrizioni e le epigrafi, che gli scavi hanno restituito, lasciano presumere la presenza di una biblioteca ben fornita e di uno scriptorium. Sembra che proprio qui sia stato prodotto un evangeliario di lusso, detto Codex Beneventanus scritto per l'abate Ato intorno al 750, caratterizzato da una forte ispirazione tardoantica. Gli amanuensi di San Vincenzo, ancora all'inizio del IX secolo, si dedicavano, probabilmente, alla produzione di grandi libri, da esporre sull'altare maggiore della nuova basilica, ma anche di semplici lezionari e raccolte di inni necessari per la quotidiana vita liturgica della comunità. |
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Nel
corso dei decenni centrali del VII secolo, la monarchia longobarda
abbandonò progressivamente l'arianesimo e si volse al cattolicesimo
riducendo, così, le distanze dalla popolazione romana, e guadagnando
maggiori favori presso la gerarchia ecclesiastica. Nell'Italia della prima
metà dell'VIII secolo, soprattutto all'epoca di Liutprando (712-744), i
monarchi longobardi, come i loro omologhi franchi già facevano da tempo,
fondavano o patrocinavano monasteri in modo "strategico":
attraverso essi, cioè, cercavano di rafforzare la propria presenza sul
territorio. Durante i regni di Astolfo e di Desiderio vi fu una crescita di consenso nei riguardi della scelta di vita monastica, che coinvolse anche molti membri dei ceti più elevati della società longobarda. Si tratta di un fenomeno non tipicamente longobardo, ma di portata molto più ampia. Nell'intera Europa altomedievale, infatti, quella del chiostro divenne una scelta attraente per i potenti, un'alternativa onorevole alla vita politica. Questo si spiega perché alcuni monasteri divennero, oltre che centri di spiritualità, anche importanti punti di riferimento politico. In questi luoghi, dunque, gli aristocratici potevano ritirarsi mantenendo intatta la propria reputazione, proprio perché la conversione alla vita monastica non comportava necessariamente la rinuncia ad un ruolo politico, soprattutto se si occupavano posizioni di responsabilità all'interno delle comunità. In virtù di queste analogie strutturali, il passaggio del potere politico dai Longobardi ai Franchi (sancito, nel 774, dall'incoronazione, a Pavia, di Carlo Magno quale Re dei Longobardi), nella maggior parte dei monasteri, fu praticamente indolore. I Franchi, infatti, garantirono continuità di vita alle strutture monastiche dell'Italia longobarda. I monasteri svolgevano un ruolo chiave nella società del tempo, anche sotto altri punti di vista. All'interno di queste comunità di religiosi, infatti, si trovava la massima concentrazione di persone in grado di padroneggiare uno strumento di comunicazione della massima importanza: la scrittura. I monaci, quindi, non solo conoscevano i testi laici e la letteratura, ma erano anche le persone cui il potere doveva rivolgersi per svolgere diverse funzioni che necessitavano della parola scritta, come la redazione di leggi e atti amministrativi. Inoltre, in una società fortemente permeata dal senso del sacro quale quella altomedievale, comunità di persone dedite alla preghiera, quali appunto quelle monastiche, godevano di grande considerazione poiché erano considerate un tramite privilegiato con Dio. Ecco perché, pur di assicurarsi il perpetuo ricordo nelle preghiere di queste venerabili comunità di uomini di Dio, i potenti impegnavano ingenti risorse per fondare o, quanto meno, sostenere i monasteri. Ed ecco anche perché questi luoghi, fra VIII e IX secolo, furono sempre più caratterizzati da un aspetto monumentale, quando non addirittura sfarzoso. Nel sentire comune, infatti, essi erano vere e proprie "civitates Dei" - città di Dio - centri di elevazione spirituale, che anticipavano la visione della beatitudine celeste. I sovrani carolingi si preoccuparono, in questa prospettiva, di sostenere il movimento monastico nel suo insieme e di dargli coerenza d'azione all'interno di tutti i territori loro sottoposti. E' in questo contesto che la Regola di San Benedetto fu elevata al rango di legge della vita monastica carolingia. Infatti, con i concili di Aquisgrana dell'816 e dell'817, presieduti dall'imperatore Ludovico il Pio, non solo si stabilì che un'unica Regola dovesse guidare tutti i monasteri dell'impero, ma anche che di essa fosse ammessa una sola interpretazione, così che usi e consuetudini delle comunità sarebbero stati uguali ovunque. In questo modo, quindi, non era più Roma ma il Nord Franco ad imporre i suoi ideali monastici. |
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Quando,
all'inizio dell'VIII secolo, i primi monaci raggiunsero le rive del
Volturno, si trovarono di fronte ai resti di una "villa tardoromana":
un sito, a suo tempo, demograficamente consistente data la presenza di un
edificio a torre e di due chiese, di cui una con funzione cimiteriale.
Quasi sicuramente, si procedette al riutilizzo delle strutture superstiti:
la chiesa cimiteriale (detta "chiesa sud") fu trasformata nella
primitiva chiesa abbaziale, detta di San Vincenzo Minore; l'altro edificio
di culto (ribattezzato dagli archeologi "chiesa nord") non
sembra essere stato oggetto di particolare attenzione da parte dei monaci
che, invece, fecero della struttura a torre il nucleo del loro primo
cimitero. Quanto restava ancora in piedi, di altre strutture, fu
provvisoriamente adibito a ricovero dalla comunità. Dopo non molto tempo, la chiesa nord fu demolita per essere, forse, sostituita da una struttura di estrema semplicità. Doveva trattarsi di un'aula unica che andava ad innestarsi sull'abside della chiesa tardoromana preesistente. Nel frattempo si intervenne anche su San Vincenzo Minore. La chiesa abbaziale, difatti, fu dimensionalmente ampliata grazie all'aggiunta di un deambulatorio. Evidentemente, data la funzione architettonica di tale elemento, si intese valorizzare la presenza di reliquie. Non è improbabile che questo primitivo deambulatorio sia stato poi sostituito da un altro di maggiori dimensioni e di migliore fattura. Alla fine dell'VIII secolo il cenobio, con un piccolo chiostro situato a sud di esso, occupava un'area di mezzo ettaro ed ospitava poco più di 100 monaci. La situazione cambiò totalmente all'inizio del IX secolo quando, su iniziativa dell'abate Giosué, si decise di avviare un progetto di carattere urbanistico in virtù del quale, cioè, si mirava a fare di San Vincenzo al Volturno una città monastica. Punto di partenza di questo ambizioso progetto fu l'edificazione di una nuova chiesa abbaziale: San Vincenzo Maggiore. Si trattava di una struttura eccezionale per gli standard dell'epoca: a pianta basilicale, triabsidata, con ingresso preceduto da un imponente avancorpo di facciata. Per realizzare la basilica furono approntate delle officine proprio innanzi ad essa, in modo tale da produrre in loco i materiali necessari alla sua stessa costruzione. Una volta completata la basilica, le officine furono smantellate per lasciare posto al corpo di fabbrica orientale. Gli ambienti di lavoro vennero spostati a sud-est della basilica. In realtà, anche l'ingresso settentrionale del complesso monastico fu interessato dalle radicali ristrutturazioni volute da Giosué. Qui, difatti, la prima chiesa abbaziale di San Vincenzo Minore si ritrovò con l'essere trasformata in una struttura palaziale articolata su due piani con vari ambienti destinati ad accogliere gli ospiti di riguardo. Dopo appena una ventina d'anni, il palazzo subì un profondo rimodellamento con l'erezione di un piano sopraelevato, destinato, probabilmente, ad aula di ricevimento. Nella chiesa adiacente venne realizzata una nuova abside a triconco dotata di una cripta concepita, forse, come cappella funeraria per l'abate Epifanio e che contiene un ciclo di affreschi di difficile interpretazione. Sul lato sud, invece, fu costruito un giardino a peristilio simile a quello delle ville pompeiane. Si suppone che il giardino fosse fiancheggiato ad est dal refettorio degli ospiti e, ad ovest, da un salone d'ingresso e da un vestibolo che, proprio all'epoca, fu forse dotato di copertura e di decorazione parietale . Resta da dimostrare l'ipotesi secondo la quale dal nucleo del palazzo partivano, in direzione della basilica di San Vincenzo Maggiore, due corridoi posti a livelli differenti: uno doveva essere utilizzato dai monaci e l'altro dai visitatori in modo da non creare confusione. Nei pressi di questi due percorsi era ubicato il chiostro fiancheggiato dal refettorio dei monaci, dalla "sala delle riunioni", riccamente affrescata e che faceva da anticamera al refettorio stesso, e da una struttura circolare venuta recentemente alla luce, presumibilmente la cucina. A seguito del terremoto dell'848, la basilica e le officine subirono non pochi danni ma l'assetto del complesso monastico rimase sostanzialmente lo stesso. Di contro, con l'attacco saraceno dell'881 e il relativo incendio molte strutture vennero completamente distrutte. Conseguentemente, si rese necessaria un'opera ricostruttiva che prese corpo soltanto alla fine del X secolo su iniziativa dell'abate Giovanni IV (998-1007). Il nuovo complesso monastico, tuttavia, era estremamente diverso rispetto a quello di età carolingia. Dimensionalmente parlando, infatti, si trattava di una struttura più compatta, imperniata sul corpo monumentale del San Vincenzo Maggiore, che fu profondamente ristrutturato. La basilica sarebbe poi stata valorizzata dalla splendida decorazione pittorica fatta realizzare per volere dell'abate Ilario (1011-1044). A lui si deve anche l'innalzamento di una torre campanaria, di base quadrangolare, recentemente individuata davanti alla facciata, parzialmente ricostruita, della basilica di IX secolo. Questa abbazia protoromanica, in ogni caso, venne ad essere fiancheggiata da alcune strutture: lungo il lato nord da quella che, in tutta probabilità, doveva essere la residenza dell'abate e da una cappella triabsidata, riccamente affrescata con motivi anche profani, adoperata, forse, come aula di culto sussidiaria; lungo il lato sud, invece, si trovava un ambiente pavimentato a opus sectile e mosaico, forse l'aula capitolare fatta edificare dall'abate Giovanni V (1053-1076). Lo stesso abate si fece promotore della costruzione, a ridosso della basilica, di due nuovi chiostri di cui uno è stato identificato a fianco dell'aula capitolare. Da questi dati emerge, quindi, come si tentasse di raggruppare tutte le strutture attorno all'abbazia. Alla fine dell'XI secolo, l'abate Gerardo (1076-1109) decise di trasferire il cenobio in un luogo più sicuro. Il complesso monastico, infatti, venne totalmente smantellato in modo tale da poter riutilizzare il materiale costruttivo. Nel 1117, Pasquale II consacrò la nuova basilica dislocata lungo la riva destra del Volturno. La sua planimetria, tuttavia, resta ancora in gran parte sconosciuta. |
Data la
posizione geografica del monastero, in periodo carolingio, gli abati di
San Vincenzo al Volturno assumono una duplice identità: hanno
contemporaneamente rapporti sia con l'impero franco, che dall'Italia
centro-settentrionale, conquistata da Carlomagno, tendeva ad estendere la
sua autorità sul resto della penisola, sia con il Ducato longobardo di
Benevento, che, invece, cercava di bilanciare la pressione
politico-culturale proveniente da nord. Due ambiti politici concorrenti, dunque, e talora addirittura in conflitto tra loro. Tuttavia, il monastero li ha considerati entrambi riferimenti importanti per incrementare i propri interessi patrimoniali e i propri privilegi giurisdizionali. L'atteggiamento degli abati esprime, però, non solo opportunismo, ma, forse, anche il tentativo di affermare la grandezza "sovranazionale" di questa comunità monastica, posta sullo spartiacque tra due mondi. In questo quadro si definisce l'effettiva posizione culturale, economica e politica assunta dal monastero nell'Italia del IX secolo. Senza dubbio si trattò di una posizione di rilievo: nel marzo del 787, infatti, Carlomagno, con un diploma regio, concede a questa istituzione religiosa l'immunità giudiziaria e l'esenzione da qualsiasi tipo di esazione fiscale. In tal modo, San Vincenzo al Volturno entra a far parte dei cenobi direttamente sottoposti all'autorità regia. Ma l'influenza carolingia andò forse oltre, orientando in maniera decisiva la vita del monastero: il Chronicon Vulturnense, infatti, indica non solo la presenza, al suo interno, di monaci franchi, ma allude anche a possibili legami diretti tra la corte franca e l'abate Giosué (792-817). Questi, grazie a risorse economiche sicuramente rafforzate da un "aiuto" imperiale, avvia un progetto di carattere urbanistico, in virtù del quale il modesto cenobio longobardo viene trasformato in una vera e propria città monastica. Questa grande impresa architettonica si collega ad altre analoghe realizzazioni della civiltà carolingia europea (Fulda in Germania, Saint-Denis in Francia, San Gallo in Svizzera), sostenuto dall'irradiazione della riforma ecclesiastica e monastica compiuta, in particolar modo, all'inizio del regno di Ludovico il Pio e messa in atto da personale monastico di origine franca. Tutto ciò ha indotto a ritenere che, nella prima metà del IX secolo, il monastero di San Vincenzo al Volturno fosse parte integrante del mondo carolingio, divenendone una sorta di avamposto nell'Italia centro-meridionale. Questo, a sua volta, trova rispondenza nel rilievo che il Chronicon Vulturnense attribuisce al successore di Carlo Magno, presentato come un patrono speciale del cenobio e della sua ricostruzione, e nella notizia, dello stesso testo, secondo cui l'abate Giosué sarebbe stato un parente dell'imperatore; un rapporto di parentela, in ogni modo, quasi sicuramente fittizio, inventato dall'autore stesso della cronaca. Lo stesso dicasi delle tradizioni relative alle visite di Ludovico il Pio a San Vincenzo, che hanno buone probabilità di essere di natura strumentale: volte, cioè, ad accreditare intenzionalmente una centralità del monastero nella politica carolingia italiana. Restano, tuttavia, molti lati oscuri nei rapporti del monastero con il mondo d'oltralpe. In ambito monastico ci furono, senza dubbio, dei collegamenti: sporadiche tracce, infatti, attestano rapporti tra comunità meridionali e comunità centroeuropee. E' anche vero, però, che San Vincenzo al Volturno non figura nei libri di fratellanza dei grandi monasteri continentali. Nonostante la crisi carolingia della seconda metà del IX secolo, il monastero mantenne sempre l'idea di un particolare legame con l'impero, soprattutto quando questo fu riaffermato da Ludovico II, nipote di Ludovico il Pio, durante i suoi frequenti soggiorni nell'Italia meridionale. |
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Quando, nel 1980, sono iniziate le prime indagini archeologiche sul complesso monastico di San Vincenzo al Volturno, in Italia non erano mai state compiute indagini archeologiche sistematiche su siti di questo tipo. A Montecassino, ad esempio, le ricostruzioni del dopoguerra avevano evidenziato l'esistenza di numerosi edifici attribuibili al monastero medievale, ma in quel frangente si poté solo provvedere ad una sommaria documentazione di queste presenze. Analogamente è accaduto all'abbazia di Farfa, dove sono stati i restauri condotti dalla Soprintendenza negli anni '50 sugli edifici rinascimentali ad aver compromesso la leggibilità delle strutture altomedievali. Venti anni dopo la situazione è sensibilmente migliorata: altri due importanti monasteri altomedievali (Santa Giulia di Brescia e la Novalesa) sono stati oggetto di indagini scientifiche di alto livello e così è stato anche per alcuni insediamenti minori (ad esempio San Michele alla Verruca - LU, San Salvatore all'Amiata - SI, Fossanova - LT, S.Pietro al Monte di Civate - LC). La stessa abbazia di Farfa (RI), nel corso degli anni '80 è stata indagata in maniera più esaustiva e corretta. Ciò non toglie che San Vincenzo continui a costituire un riferimento di primo piano nel panorama italiano, in conseguenza sia della ricchezza del giacimento archeologico, sia delle condizioni estremamente favorevoli di conservazione dello stesso. Lo scavo costituisce in particolare una concreta possibilità di conoscenza dettagliata della progettualità di un grande monastero carolingio, nonché della cultura artistica, tecnologica e materiale di esso, accanto ad altri pochi siti europei, come ad esempio l'abbazia di Saint-Denis, presso Parigi, quelle di Jarrow e Lindisfarne, nell'Inghilterra settentrionale e Müstair in Svizzera. Le indagini condotte presso alcune delle residenze imperiali di Carlo Magno, soprattutto in Germania (Paderborn e Ingelheim, per citare i casi principali) hanno mostrato che, in realtà, tutti i grandi complessi di età carolingia, sia che fossero a destinazione religiosa sia profana, appaiono accomunati dal medesimo intento di costituire organismi architettonici di qualità eccezionale, rispetto agli standard dell'epoca, profondamente influenzati dai modelli dell'architettura tardoantica di prestigio. Questa sensibilità si esprime anche nei particolari più minuti, come ad esempio le rifiniture degli edifici (ad es. pavimentazioni, finestre), per la cui realizzazione viene attivata in loco una serie di attività produttive, indice probabilmente della debolezza dell'offerta, da parte del mercato, di generi di lusso, o comunque che richiedessero l'attivazione di tecnologie complesse. La ricerca sulle fonti scritte ha dimostrato un ulteriore piano di affinità fra San Vincenzo e le principali fondazioni monastiche europee, nella grande estensione dei patrimoni fondiari e nella loro strategica dislocazione. Essi erano deputati non solo alla realizzazione di un ingente stock produttivo agricolo, pastorale, boschivo e ittico per il consumo interno, ma anche a garantire la possibilità di una sua parziale commercializzazione verso mercati esterni, che nella fattispecie del monastero vulturnense sono da identificare nelle aree bizantine e arabe del Mediterraneo. |
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