Caldo, afa d’agosto; era l’estate del loro “primo anno insieme”: la sua città, il suo mare, la sua gente (Lei aveva violato le radici di Lui per poterlo raggiungere), tutto il suo passato. Era andata a spiarlo, e lui si lasciò guardare.
Una notte, i resti di un teatro greco, la gente,
Lei, Lui.
Distanti spettatori di cori neri, entrambi inseriti in uno scenario da favola che impediva loro di mostrarsi insieme, ma che li teneva uniti.
Cori neri, voci di anime sconosciute.
Lei doveva lavorare, nel buio dell’inusuale platea si muoveva con il suo obiettivo a registrare i colori di un gospel americano giunto in Italia ad emozionare.
Lui era seduto in disparte, solo, a seguirla con lo sguardo senza dare nell’occhio; il buio la nascondeva, ma sapeva farsi trovare: gli lanciava segnali con il flash della sua macchina.
La vedeva muoversi sul palco ad inseguire quegli attimi di magistrale armonia che, poi, avrebbe voluto mostrare; la vide quando, distrattamente, lo cercò tra la folla per fotografarlo.
Finse di guardare altrove, perdendo lo sguardo in vuote immagini: finse, per non gioire, perché avrebbe voluto abbracciarla, stringerla, ringraziarla per aver scelto di volerlo ricordare. In una foto, a guardarla quando non si sarebbero più visti.
Happy days a chiudere il concerto e via, in macchina , soli, per incontrarsi.
Lei gli parlò del coraggio, del doversi allontanare dalle certezze acquisite per costruirsene delle nuove, del sapersi violentare per non adagiarsi (gli raccontò i suoi passi, la sua lontananza, il buio delle sue verità, del suo essersi ferita, senza aver saputo rimarginare; non osò raccontargli i silenzi, la solitudine, le bugie che inventava per non ammettere che, a volte, voleva tornare).
Lui ascoltava le sue parole, tanto da fermare la macchina per baciarla.
Si ringraziarono, entrambi, per essersi capiti.
Era la sua città, il suo mare, il suo sole ad abbronzarla; Lei rubò il possibile, prima di lasciarlo; si innamorò di lui prima di volerlo pensare...
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