La stazione era gremita di persone. Il treno diretto a Torino era in ritardo di quindici minuti.
Quando Aurora, trafelata e col cuore in gola arrivò. Aveva sempre odiato essere in anticipo e così anche quel pomeriggio aveva aspettato l'ultimo minuto per prepararsi in fretta e furia e partire.
Era da molto tempo ormai che sognava quel giorno, programmato e vissuto nella sua mente mille volte, in mille modi possibili, diversi, valutando ogni possibile reazione, ogni imprevisto, ogni parola.
Si sentì euforica, irrequieta e soprattutto molto fortunata quando vide che il treno, tanto atteso, col suo ritardo l'aveva aspettata.
Aveva ancora il fiato corto quando giunta al binario si accese una sigaretta, come faceva sempre per ingannare l'attesa: non c'era nessuno che lei conoscesse e anche se le piaceva stare con gli altri pensò che da sola si sarebbe concentrata meglio e si sarebbe fatta forza per quell'incontro, non facile dopo tutto il tempo passato.
Il caldo sole di maggio, il cielo azzurro, i fiori rosa degli alberi di pesco, davano ad Aurora una sensazione di serenità primordiale, di benessere, quasi si trovasse tra le braccia della natura, fuori dal tempo, in armonia col tutto.
Un brivido la percorse, paralizzandola dolcemente, quando si rese conto di provare quella piacevole sensazione che non ricordava più e d'un tratto la mente andò nei dedali della sua memoria riportando in superficie fugaci immagini, fuggevoli scene di qualche mese prima, di lei che rideva e correva leggera. Ma quella serenità che si era dissolta, frantumandosi in tristezza, solitudine e odio, finalmente era tornata.
Lo scompartimento per fumatori in cui si era seduta era affollato di gente che, fastidiosamente silenziosa, leggeva, dormiva o scrutava i nuovi viaggiatori che cercavano con occhi vigili un posto a sedere.
Amava sedersi vicino al finestrino, per poter vedere quel paesaggio che ormai conosceva bene ma in cui scopriva sempre qualcosa di nuovo. Davanti a lei stava una coppia di anziani signori: lei, ancora di bell'aspetto, nonostante l'età, sfogliava un album di fotografie, soffermandosi su ognuna per molto tempo, quasi volesse rivivere l'istante passato reso eterno dallo scatto, lui le teneva la mano, sfiorandole il palmo, sonnecchiando dopo aver letto un libro che teneva ancora aperto sul petto.
Era soddisfatta del suo posto, dove poteva ammirare quell'immagine così dolce dei due attempati innamorati. Le sembrava quasi impossibile immaginare se stessa in un futuro così lontano, in cui probabilmente avrebbe vissuto felice, o almeno più serena, forse addirittura soddisfatta dei suoi giorni, dei suoi gesti, dei suoi sentimenti, e in cui viveva senza più concedere un solo istante a tutta l'insicurezza, l'angoscia che l'attanagliavano ora che era così giovane.
Non faceva nulla e soprattutto non viaggiava mai senza una musica di sottofondo che le tenesse compagnia: così anche se si era preparata in gran fretta non dimenticò i suoi dischi. Il treno era appena partito e lei stava già ascoltando la voce di Sting che a volume altissimo la isolava dal resto e faceva fluire lentamente i suoi pensieri.
Si sentiva tremendamente eccitata, desiderosa di rivedere quel ragazzo speciale con cui aveva vissuto momenti di amore profondo, di intensa felicità, di armonica sintonia; lo sentiva ancora estremamente vivo in lei, vicino come forse mai prima d'allora.
Sapeva bene che era stata lei a decidere che la soluzione migliore era non parlarsi e non vedersi per un po', sentiva di non avere più niente da dargli e non capiva come lui facesse a stare ancora con lei, così cambiata che lei stessa stentava a riconoscersi. Era certa però che lui non l'aveva dimenticata... come avrebbe potuto, nonostante il dolore per le dure parole che si erano detti, cancellarla dalla sua vita, lei, la sua Aurora, un'anima sensibile divenuta per lui necessaria, la sua metà perfetta.
Entrambi sapevano che il legame che li univa era qualcosa di indissolubile, di inspiegabile a parole, qualcosa di raro, l'amore, quello vero, che tutto rende possibile, anche vivere in un mondo malato. Mentre Aurora, cullata dalla musica, cercava di rilassarsi, come saette che si stagliano nel cielo, le sensazioni, le parole dei momenti più dolorosi che aveva vissuto dopo quel tremendo addio, ritornavano a galla ed era come morire dentro per l'ennesima volta. Ma ora Aurora era più forte, sentiva di essere speciale almeno per lui, e questo le bastava per non sprofondare nel buio, soffocata da dubbi, paure, pensieri di tenebra.
Non voleva più piangere e nascondersi per non affrontare la sua vita e il mondo che la guardava e cercava un contatto con lei. Non si sentiva diversa da com'era, ma ora riusciva ad accettare tutto di sé, riusciva a riconoscere e a dar valore ai suoi pregi e riusciva a convivere coi suoi difetti, coi suoi limiti; non pensava più alla persona che non era e che desiderava essere, come fonte di sofferenza e di odio verso sé stessa... semplicemente si amava per come qualcuno lassù aveva deciso di crearla, tutto doveva avere un senso, anche quel periodo in cui si era sentita sola, inutile, senza futuro, era destinato a cambiare la sua vita, forse a migliorarla.
Aveva passato tre mesi rinchiusa dentro le quattro mura della sua stanza ergendo un muro invalicabile tra lei e sé stessa, lasciando il mondo, la sua famiglia, i suoi amici e il suo amore fuori, lontani.
Il suo deciso rifiuto per la vita, il suo rifiuto sofferto di amare sé stessa e il disperato desiderio di essere qualcosa di diverso, ersero una barriera che niente e nessuno sembrava riuscire ad abbattere: in quel suo mondo artificiale sopravviveva sola con i suoi più neri pensieri che accumulandosi uno dopo l'altro, come una valanga la travolgevano, lasciandola atterrita e ferita al suolo, priva di forze, nel silenzio.
E pensare che un tempo Aurora si sentiva speciale, almeno un po', dotata di qualità che facevano di lei una cosa unica. Le dava soddisfazione riuscire bene in qualcosa. Ma con gli anni si accorse di essere un punto minuscolo in un mondo di dimensioni esageratamente enormi, in cui moltissime altre persone facevano quello che lei sapeva fare in modo mille volte migliore.
Cominciò pian piano a ridimensionare la considerazione che aveva verso se stessa, quasi inconsapevolmente, non dava più alcun valore alla sua dote. Si sentiva bloccata, non riusciva più ad esprimersi bene quanto avrebbe voluto, non era più soddisfatta di nulla di ciò che creava. Cominciò a dedicarsi ad altro, scoprì nuove situazioni, nuove emozioni, che le fecero conoscere altri aspetti di sé; ma, il confronto con gli altri, che prima le dava gioia, si tramutò in qualcosa di doloroso, che le trasmetteva disagio e ansia. La sua incapacità ad affrontarlo la faceva soffrire e la stima verso di sé diminuì: iniziò a dare una considerazione esagerata ai suoi difetti, arrivò ad odiare persino il suo viso e giunse a diciassette anni quasi disprezzandosi. Solo l'affetto che gli altri le davano la sollevava dalla sua tristezza.
Quando conobbe Otello se ne innamorò subito e quasi stupita di essere amata da lui ritrovò la gioia per la vita e il rispetto per sé stessa. Ma il suo senso di inadeguatezza, di inutilità, quello stato di tensione per la mancanza di qualcosa che non si ha e che si desidera avere, solo inabissato dentro di lei, non ci mise molto a riemergere con una forza ancora più travolgente di prima. A nulla serviva l'amore che da lui riceveva che ormai non riusciva più ad assaporare e a ricambiare presa com'era dal suo malessere.
L'ultima cosa che voleva era far soffrire qualcun altro per quella condizione in cui si sentiva destinata a soccombere, senza possibilità di rimedio e così prese la tremenda decisione di interrompere ogni contatto con ciò che più amava al mondo, Otello e tutto il resto, soffrendo in silenzio e pregando Dio di farla morire, ogni notte. Trascorse così quei tre mesi, non più emozioni, non più interesse per qualsiasi cosa; non riusciva nemmeno a guardarsi allo specchio tanto si odiava e tanto meno riusciva a guardare negli occhi la sua famiglia, disperata e impotente di fronte a quella figlia che si era chiusa in sé stessa ed era così diversa: Aurora non dava più agli altri il suo amore, il suo conforto, ma scaricava su di sé e sui componenti delle sua famiglia solo la sua profonda rabbia e l'odio.
Non parlò più, non vide più nessuno. Ma Otello sempre più spesso dominava i suoi pensieri. Nei momenti in cui la sua mente vagava liberamente, i pensieri si soffermavano per ore intere sudi lui; i ricordi delle intense emozioni passate durante i pochi viaggi fatti insieme, le domeniche in cui avevano guardato i film distesi insieme sul divano di casa sua, le risate nei locali, di sera, bevendo una birra, le sue mani, i suoi baci dolci e infuocati, la sua musica, la sua timidezza.
Aurora viveva di quei ricordi e provava un odio distruttivo e cruento per come si era ridotta, per la sua incapacità a riemergere dal buio, dal deserto che si era creata attorno. Ma, quasi senza accorgersene, il desiderio sempre più grande ogni giorno, di riabbracciare Otello, l'amore e il suo motivo di vita, pian piano le fecero rivedere la luce.
Il treno era quasi arrivato a destinazione quando Aurora riaprì gli occhi. Si era addormentata ascoltando la musica; l'anziana coppia non c'era più, era scesa senza dal treno senza che lei se ne accorgesse. Davanti a lei ora c'era una giovane donna con un bimbo di qualche mese in braccio che la guardava incuriosito: nulla al mondo era più bello ed emozionante degli occhi allegri e puri di quel bambino, del suo viso soddisfatto, delle sue manine ansiose di sperimentare ogni cosa. Chissà quando anche lei si sarebbe sentita in grado di crescere un figlio, di insegnargli tutto, come riuscire a vivere, come cogliere la bellezza e la felicità della vita, come amare... e lei il suo amore l'aveva trovato e non voleva più lasciarlo andare.
Il cuore cominciò a batterle all'impazzata quando il treno si fermò a Torino: Aurora salutò il piccolo con la mano e scese di corsa. Sapeva bene quale autobus doveva prendere per raggiungere Otello a casa sua, dove era stata tante volte.
Era certa di trovarlo a casa a quell'ora di sera e dentro di lei era sicura che, cogliendolo di sorpresa l'avrebbe reso estremamente felice.
L'autobus arrivò.
Stava per suonare il campanello della palazzina in cui Otello viveva quando sentì di non riuscire a reggere tanta emozione; il cuore batteva sempre più forte, le gambe barcollavano ma suonò lo stesso... una, due tre volte. No, non c'era nessuno, ma aspettò lì: si fece aprire il portone di ingresso con una scusa e si sedette davanti alla sua porta.
Forse lui aveva cambiato le sue abitudini, o aveva avuto un impegno, o semplicemente era uscito a correre. Rimase ad aspettare per ore e a notte fonda lui tornò, ma non era solo: abbracciata a lui c'era una ragazza. Si tenevano stretti e ridevano.
Quando vide Aurora rimase impietrito e non riuscì a fermarla quando scappò via, piangendo.
Si sentiva tremendamente vuota, sola, dentro le era rimasto solo un oceano di lacrime, non vedeva più nessuna luce nella sua vita dopo che anche l'ultima si era spenta, così all'improvviso, inaspettatamente.
Camminò senza sapere cosa fare: ora quella stessa città che tanto amava le metteva paura, voleva solo andarsene via. Si accasciò su una panchina in un piccolo parco e pianse, pianse tutta la notte. Non riusciva a pensare, sentiva il nulla, voleva il nulla.
Aurora non vide l'alba dopo le tenebre, non vide più nessun fiore rosa di nessun albero di pesco, non sentì più dolci abbracci, non udì più parole, forse solo la musica... la sua musica...
AURORA - 2 PARTE (NEBBIE )
"Sembra di essere dentro una scatola di ovatta".
Pensò Aurora spingendo la testa ancora di più verso il lunotto della macchina che procedeva a velocità ridotta nell'inconsistenza della lanugine nebbiosa.
Come ogni mattina, di buon'ora, si era alzata e stropicciandosi via dagli occhi le briciole di sogni notturni, aveva pigramente indossato gli abiti.
"Innanzi tutto qualcosa di liquido" aveva detto a sé stessa, trangugiando qualcosa che non si era preoccupata di definire con precisione e poi di corsa in macchina per affrontare una nuova giornata di lavoro.
La situazione climatica esterna aveva sollecitato non poco il torpore che ancora l'avvolgeva ad abbandonarla, lasciandola indifesa, prigioniera della ripetitività di quella giornata lavorativa uguale a tante altre.
Ma per quanto tentasse di farsene una ragione non riusciva a digerire quello stato di cose che contribuiva in maniera determinante a metterla di cattivo umore.
"Ci mancava solo la nebbia!" aveva sussurrato a denti stretti sforzandosi di distinguere la strada che miracolosamente usciva da quel muro di inconsistenti vapori.
Fare la rappresentante di bigiotteria non era certo stato il suo sogno da piccola.
Ma si sa il bambino, molto spesso, deve fare i conti con l'adulto che cresce dentro di lui e che, con pazienza certosina, sembra vanificare ogni sua più piccola aspirazione.
E' una lotta impari che non riesce a cancellare i sogni della fanciullezza, ma li esilia da qualche parte, in una zona remota dell'animo.
Quando però l'impeto delle emozioni rende tempestosi i sentimenti, ecco tornare a galla quei relitti del passato restati laggiù sul fondo per chissà quanto tempo. Quel ragazzo... il grande amore che aveva creduto essere... il viaggio in treno con tante speranze e sogni... l'amara delusione... la solitudine... la depressione...
Una cosa del genere era successa a Aurora in quei giorni, nei suoi continui spostamenti si era sorpresa a ripensare a quella ragazzina dai lunghi capelli che sognava di cavalcare le nuvole, di sconfiggere lo spazio ed il tempo facendo l'hostess.
Il cielo non si poteva conquistare, racchiudere entro precisi confini, questa particolarità della coltre celeste l'aveva sempre attratta fino al punto di invaghirsene irreparabilmente.
Col passare degli anni il compromesso con la quotidianità sommato alla fragilità di carattere l'aveva indiscutibilmente inchiodata a terra.
Se si voltava indietro non riusciva a vedere che una vita di tentativi che l'avevano fatta concedere al mondo come chi ha supinamente accettato una parte da comprimaria nella rappresentazione della propria esistenza.
Quella mattina, imprigionata in un paesaggio irreale, ogni tanto si guardava nello specchietto sentendosi sola, sola in compagnia della più grande nemica. Perché era consapevole del fatto di essere lei stessa la causa delle proprie insoddisfazioni.
"Se si alzasse la nebbia, forse con lei svanirebbe anche la depressione che mi sento addosso" pensò facendo un sorriso sarcastico, come se quello stato di cose contribuisse ad aumentare le sue angosce quotidiane.
Nessuna variazione meteorologica sembrava venirle in soccorso, la strada continuava a srotolarsi davanti a lei sbucando molliccia e grigia da quella barriera apparentemente impenetrabile.
Forse distratta dai suoi pensieri o (inconsapevolmente?) conscia di voler modificare la routine quotidiana, si accorse, ad un tratto, di non avere la più pallida idea di dove si trovasse.
Le misere immagini che a fatica riusciva a decifrare dai finestrini dell'auto non le erano di nessun aiuto, anzi quei contorni indefinitamente vacui facevano crescere in lei la sensazione di un totale smarrimento.
Decise di fermarsi da un lato della strada e alzato il bavero del cappotto aprì energicamente lo sportello scendendo dalla vettura.
Il repentino contatto con l'esterno le provocò un brivido di freddo che le percorse la schiena con una rapidità inusitata, si guardò intorno e niente contribuì a fornirle il minimo indizio sulla località in cui si trovava.
Tutt'intorno solo i fantasmi di un paesaggio celato dal bianco e grigio, più o meno intenso, della foschia.
Niente era distinto, nitido, ogni cosa reale era una creatura partorita dalla fantasia di una natura bislacca: ombre di guerrieri al posto degli alberi, improbabili draghi che si confondevano con i contorni degli edifici, satiri ed elfi che si sovrapponevano alla fisionomia dei cespugli. Una lavagna magica dove tutto poteva essere disegnato senza confini per l'immaginazione.
Poi d'un tratto un pensiero le balenò nella mente vivido, come se qualcuno avesse aperto all'improvviso una finestra in una stanza completamente buia:
"Sembra proprio che il cielo sia sceso sulla terra!!!" gridò ed una calda soddisfazione l'avvolse amorevolmente.
Dimenticò ogni paura e salita in macchina continuò il suo viaggio verso non si sa dove.
Le ruote percorrevano l'asfalto e la sua mente viaggiava nel ricordo sempre più nitido dei suoi sogni delle sue speranze di adolescente con una felicità che cresceva come una marea amica nell'animo.
Ad un tratto si accorse che la nebbia si stava diradando, era entrata in un paese che aveva qualcosa di familiare, di consueto. Non ci volle molto a Aurora per capire che quell'insieme di abitazioni altro non era che il luogo dove era nata.
Non si ricordava neanche Lei quanti erano stati gli anni di lontananza da quel luogo, un periodo lunghissimo che pareva svanire col sollevarsi lento della nebbia ed il riemergere dei ricordi.
Quasi fosse comandata da una forza innaturale l'auto si fermò davanti ad un edificio a due piani, un grosso parallelepipedo che con le sue forme denunciava la nascita nel Ventennio Fascista.
"Questa è la mia scuola" sussurrò scendendo velocemente dal mezzo ed entrando nel giardino che circondava l'edificio.
Le gambe precedevano qualsiasi suo pensiero e senza quasi che se ne rendesse conto si trovò di fronte al vecchio amico di allora: il grande olmo. La pianta adesso le sembrava meno imponente ma le trasmise lo stesso una forte sensazione di affetto, come quando improvvisamente si ritrova un qualcosa di immensamente caro.
Quel vecchio albero tra i suoi rami aveva visto salire ogni pensiero, ogni sogno della bambina di allora, che restandovi impigliati lo avevano fatto divenire il loro custode più geloso.
Aurora non si rese conto di quanto rimase seduta con la schiena appoggiata al suo amico vegetale, ma quando si alzò aveva una luce diversa nello sguardo. Aveva capito che i sogni non si possono "cavalcare" né dimenticare ma si devono portare in tasca, farli divenire parte di se stessi, utilizzandoli ogni qual volta sentiamo di perdere il fanciullo che siamo stati.
Salì in macchina, non c'era più nessun segno di nebbia nel paesaggio circostante e nel suo animo.
Da quel giorno affrontò la vita in modo diverso, non fu sempre una vincente ma sicuramente se stessa.
|