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LA MIA ESPERIENZA IN INDIA - 1972  - storia vera - di Lucky Luke

LA MIA ESPERIENZA IN INDIA - 1972 -

 

 

MADRE TERESA (parte prima) l'incontro

Premessa e dedica
Dedico questo racconto, di un pezzo della mia vita, a Maria Antonietta e Francesca ringraziandole perché mi hanno fatto ricercare i miei appunti di viaggio giovanili messi in un angolo.
In questo caso però mi sono serviti solo per alcune date ed episodi, il resto, nonostante siano passati trent'anni è ancora vivo nella mia mente come se fosse stato ieri, soprattutto quegli occhi, quella forza interiore e... mi fermo qui. Nel racconto spero di riuscire a descrivere quello che ho sentito e continuo a sentire nell'animo. Ma le parole sono sempre una limitazione a ciò
che uno vorrebbe descrivere se si potesse parlare con il cuore.
Giuliano

1972:
Compivo il mio 18° anno di età il 1° luglio, erano due anni che subivo una crisi religiosa, non mi importava più di niente, vivevo senza nessun ideale; ero uscito dalla contestazione studentesca del '68/69 vuoto e in parte deluso.
Festeggiavo, con Bruno e Franco, in gelateria il raggiungimento della mia maggiore età, mio padre quel giorno mi aveva perfino dato le chiavi di casa dicendomi:
- da oggi puoi rientrare dopo le 11 di sera, però questo non vuol dire esagerare, devi avere coscienza della tua libertà da maggiorenne, non credere che ti sia permesso tutto! L'uso della
maggiore età non significa che devi abusarne e dare pensiero di te a chi vive in casa con te.

Bruno era figlio, nipote, pronipote di notai, credo che la sua famiglia avesse fondato la categoria, tanto si perdeva nella notte dei tempi, aveva appena finito il liceo classico e, per tradizione sarebbe andato all'università per preparasi a cogliere l'eredità del padre.
Franco era un estroso, a lui piaceva tutto e di tutto, il padre, impiegato amministrativo e la madre, centralinista in un'azienda, gli avevano lasciato ampia libertà di scelta, da un anno si era iscritto al
conservatorio, voleva diventare un musicista ed imparare a suonare vari strumenti.

Io, figlio di operai, avevo abbandonato gli studi a 15 anni, in Seminario, in parte per l'atteggiamento "fascista" dei preti che lo dirigevano (aprivano la mia posta, cancellavano con pennarello nero le righe che non si potevano leggere, ci portavano a passeggio per le colline per evitare che guardassimo le ragazze che frequentavano la piazza ecc.), ma il motivo principale fu la caduta di mio padre dai 12 metri di una gru edile (vivo per miracolo) ed io dovetti assumermi sulle spalle il mantenimento della famiglia, a quei tempi l
'Inail pagava dopo 4-5 mesi.

Eravamo amici da una vita. Quella sera, davanti ad un mega gelato stavamo discutendo di cosa fare, da una settimana avevo finito il mio lavoro e non ne avrei cercato un altro fino a settembre, volevo godermi un paio di mesi di ferie.
- Dove potremmo andare? - chiese Bruno.
- Potremmo fare un giretto per l'Europa, tenda, sacco a pelo e via. - propose Franco.
- Per me va bene - aggiunsi io - il tempo di fare il passaporto e sono con voi.
Entrarono i genitori di Bruno e quelli di Franco, mi fecero gli
auguri e ci chiesero che programmi avevamo.
Spiegammo le nostre idee, ma il padre di Bruno intervenne:
- Perché non andate a fare un giro più largo e istruttivo? Oggi va di moda l'Oriente, anche i Beatles sono andati in India, andateci anche voi così meditate un po' sulla vostra prospettiva di vita invece di ciondolare in giro senza niente da fare.
- Eh bravo, - rispose Bruno - ma lì non ci possiamo mica andare in auto!
- Beh - intervenne il padre di Franco. - io potrei darvi un contributo per il volo aereo!
- Allora facciamo così -
terminò il papà di Bruno - noi vi offriamo il biglietto aereo di andata e ritorno, però al resto ci pensate voi almeno così cominciate a responsabilizzarvi un pochino; guardate il vostro amico, che a 16 anni ha mantenuto la famiglia mentre voi ve la siete spassata con i soldi dei vostri padri, anzi il viaggio a lui lo pago io, perché se lo è meritato.
Tacqui, ma mi sono venuti in mente quei genitori che, danno tutto ai figli per non averli intorno, poi si lamentano perché hanno poco dialogo con loro e, infine, se ne escono con frasi del tipo
: "vedi quello? Vorrei avere io un figlio così".
Cercai di rifiutare, qualcosa avevo da parte, non certo per pagarmi il biglietto aereo, ma fra l'insistenza di Franco e Bruno, quella dei loro genitori cedetti, diciamo che volevo cedere, ma... questo lo so solo io.
Decidemmo la partenza per metà luglio, fra il preparare le cose da portare, niente valigie, ma una borsa a testa di bagaglio, comoda da portare in giro e un po' di soldi, meglio se dollari, per vivere almeno una quindicina di giorni.

16 luglio:
Partiti! Volo da Milano per Istanbul e poi direttamente Calcutta
dove una guida, prenotata dal padre di Bruno, ci avrebbe fatto conoscere usi e costumi indiani e magari anche un monastero di monaci buddisti.

17 luglio:
Arrivati! Sembrava che il volo fosse stato relativamente breve, ma volando verso il sorgere del sole i fusi orari passavano più velocemente, le ore erano poche ma il fuso orario ci aveva tolto un giorno. La guida, ci aspettava all'aeroporto, ci condusse in un albergo relativamente economico, 2 dollari al giorno, dove potemmo recuperare il fuso orario facendo una doccia e riposandoci. Avremmo fatto conoscenza con Calcutta dopo un paio di giorni. Il nostro
corpo diceva una cosa mentre l'orario locale ne diceva un'altra, non ci capivamo, e per questo la guida ci consigliò di riposarci, sarebbe ripassato lui.

19 luglio:
Ritornò dopo un giorno e mezzo il mattino verso le 9,30 locali, ormai avevamo assimilato il cambio di fuso orario, ed eravamo pronti per un primo giro di Calcutta.
Quel giorno, a bordo di una jeep, forse residuo dell'occupazione inglese, ci fece conoscere il centro, città, cioè la zona più agiata. Un formicaio di gente che andava e veniva, di bancarelle e mercati che vendevano di tutto.
Osservai i palazzi
costruiti in varie epoche, dal periodo coloniale al periodo moderno, architetture strane, dal grattacielo di recente costruzione alla villa padronale dei signorotti indiani, tutto costruito di seguito, senza ordine di consecutività.
Percorremmo anche un pezzo della via principale a piedi, seguendo le raccomandazioni della guida per non perderci e approfittammo per acquistare qualche ricordino da portarci a casa al ritorno. Ogni tanto notai che la guida ci faceva aggirare delle persone, quasi sempre malvestite, le quali si addossavano al muro. Anche i mendicanti venivano aggirati e se qualcuno faceva l'elemosina, gettava delle rupie standosene a non meno di due
metri. Chiesi, facendolo nel modo più casuale possibile anche se lo immaginavo, una spiegazione e mi sentii rispondere che erano gli intoccabili, gente immonda "paria".
Vedemmo moltissime cose, varie razze di abitanti abbigliati ognuno in modo diverso in base alla loro etnia, c'erano anche molti occidentali che vivevano lì o c'erano per turismo. Rientrammo in albergo verso sera impolverati sudati e stanchi ma contenti del giro turistico. L'alberghetto ci sembrò un'oasi dopo quel bagno di folla, ma noi avevamo bisogno di un altro bagno, tirammo a sorte la precedenza, mentre sfatti ci lasciavamo cadere sui
letti.
Bruno chiese alla guida se per il giorno dopo fosse stato possibile visitare qualche quartiere periferico, la guida tentennò qualche minuto ma poi acconsentì. Dormimmo come sassi protetti dalle tendine a velo che ci salvavano dalle zanzare.

20 luglio:
Sempre con la jeep sferragliante, la guida ci condusse verso la periferia, man mano che ci si allontanava dal centro la folla diminuiva ed anche l'abbigliamento dei passanti era più sobrio, la guida si fermò in una piazza, di cui non ricordo il nome, la chiuse mettendoci anche una grossa catena attorno al volante ed alla pedaliera e ci
disse:
- Bene, questi sono i quartieri poveri della città, dovete promettermi di non toccare nulla se non prima di avermelo chiesto, non ci dovrebbero essere pericoli comunque la polizia è sempre in giro.
Annuimmo e lo seguimmo per una strada che, come la piazza, non era proprio il massimo della pulizia, c'erano dei mucchi di rifiuti qua e là e l'aria aveva uno strano odore, le costruzioni erano più basse a vecchie, sembrava di essere tornati indietro di un secolo, panni appesi dalle finestre, gatti e cani randagi, qualche mucca dalle lunghe corna e magrissima e
della gente che passava guardandoci incuriosita.
Erano passate un paio d'ore durante le quali la guida ci indicava in quali negozi potevamo entrare e in quali no, ci spiegava che tipo di gente viveva in quei quartieri, ci faceva girare al largo da qualche abitazione, di non toccare quel muro, tutte cose strane che potevamo immaginare anche se non capivamo.
Da un vicoletto laterale uscì un uomo che chiese, in modo un po' concitato, alla guida se potevamo aiutarlo, la guida si bloccò poi, dopo qualche tentennamento, lo seguimmo per il vicoletto. L'uomo entrò attraverso una porta
ma la guida si fermò all'improvviso dicendoci:
- No! Non entrate!
- Perché? - Chiese Bruno guardando attraverso l'uscio diroccato.
- E' un luogo immondo - replicò la guida arretrando.
Sbirciando vedemmo in un angolo della stanza una un'ombra stesa a terra, accanto c'era una figura di spalle, indossava una tunica bianca con delle bande azzurre.
Ignorando la guida ci precipitammo nella stanza, l'uomo che ci aveva chiesto aiuto mormorò qualcosa all'orecchio della figura in abito bianco che stava bendando una donna distesa su un fasci di erbe secche e stracci, da in fagotto,
che stringeva fra le braccia quest'ultima, uscì un lamento fanciullesco.
La figura vestita di bianco e azzurro si voltò, in perfetto inglese, ci disse di prendere la barella che si trovava lì vicino.
Era alta circa un metro e sessanta, un viso anziano segnato da rughe, più o meno, pensai, sui 60 / 70 anni, ma gli occhi... gli occhi, vivi, profondi, scuri. Io e Franco prendemmo la barella mentre Bruno aiutò l'uomo ad alzare l'inferma e adagiarcela sopra. Era magrissima, con dei stani gonfiori al viso, le mani e avambracci le erano stati fasciati dalla signora anziana, sembrava non
avesse peso, e fra le braccia teneva un bambino sui sei o sette mesi che si muoveva appena.
- Presto! - disse la signora o li perdiamo tutti e due.
Uscimmo con la barella, la guida arretrò quasi urlandoci:
- Pazzi che avete fatto? Quella ha la lebbra ed è una intoccabile, dovrete lavarvi con le acque del Gange se volete purificarvi, ora siete immondi anche voi.
Si voltò e fuggì dal vicolo. Rimanemmo sorpresi, Bruno cercò di fermarlo senza successo sembrava avesse il diavolo alle calcagna tanto correva.
- Non ci pensate, - ci disse la signora, la cui
voce aveva una profondità che non potevo fare a meno di ascoltare.- Venite!
In fondo al vicolo c'era un vecchio camion coperto, appoggiammo la barella sul cassone mentre L'uomo salì al posto di guida e la bianca signora saliva sul cassone a fianco della barella.
- Venite! - ci ripeté la signora in bianco - la vostra guida vi ha abbandonato se non conoscete la città vi potrete perdere.
Ci guardammo a vicenda dandoci un muto assenso, quindi salimmo assieme a lei. Il fatto della lebbra ci aveva un po' impressionato, io non avrei mai pensato di arrivare così
vicino ad un malato di quella terribile malattia. Il cuore mi batteva forte. Dove ci siamo cacciati? Mi chiesi, ma la voce della signora aveva un qualcosa di calmante e rassicurante mentre con gentilezza ci chiedeva chi eravamo e cosa facevamo da quelle parti.
Bruno e Franco che conoscevano l'inglese meglio di me la misero al corrente del nostro viaggio, mentre lei ci studiava con quegli occhi profondi.
- La vie del Signore sono infinite. - disse alla fine - E' Lui che vi ha mandati perché ne avevo bisogno.

Rimanemmo in silenzio appoggiati alle sponde del saltellante camion che
aveva imboccato una strada sterrata fuori dalla città, non riuscivo a togliere lo sguardo da quella vecchia signora che aveva una vitalità da ragazzina mentre accarezzava e consolava la donna che continuava a stringere il bambino fra le braccia.
La mia mente si arrovellava alla ricerca di qualcosa che avevo sentito dire o visto in televisione ma che continuava a sfuggirmi.
Mai e poi mai avrei immaginato che quell'incontro avrebbe stravolto completamente la mia, anzi le nostre, vite.

 

MADRE TERESA - (parte seconda) il coinvolgimento

Premessa:
Molte volte mi sono chiesto come ho fatto a farmi coinvolgere. Non sono riuscito a darmi una risposta, un giorno lo saprò, di questo ne sono certo.
Tutti i muri di difesa che un uomo si erge intorno, timori, pregiudizi, paure, ossessioni, egoismi, rancori, incomprensioni .. (di cui anch'io ne ero ben fornito) ad un certo punto crollano, così, come uno schiocco di dita.
*******************

20 luglio:
Arrivammo in un villaggio appena fuori Calcutta, alcune costruzioni di pietra e fango erano circondate da tende capanne e ricoveri vari. Molte tende, di grande capacità avevano stampate ai lati bandiere di
vari stati, Inglese, Francese Italiana, Statunitense... e altri.
Le costruzioni in pietra erano dipinte di bianco e sembravano le più pulite e ci fermammo davanti ad una di queste con il vecchio camion sferragliante. Sopra la porta, dipinta di rosso, c'era una grossa Croce, ne dedussi che fosse una specie di ospedale anche per il continuo andirivieni di gente che ne usciva in qualche modo bendata.
Scaricammo la barella ed entrammo per una piccola porta di lato, ci si fece incontro un uomo, doveva essere un medico, in camice bianco, parlottò prima con lo sherpa poi con la
signora, e ci indicò dove appoggiare la barella.
Durante la medicazione della donna, malata e denutrita, e del piccolo, che finalmente si convinse di lasciare, io Bruno e Franco fummo informati dallo sherpa di chi fosse l'anziana signora.
Madre Teresa di Calcutta! Le nostre menti si aprirono all'improvviso. Mentre ci guardavamo l'un l'altro stupiti, io ed i miei amici capimmo tutto.
Avevamo sentito di lei alla televisione e letto sui giornali, ma i nostri "impegni di vita moderna" avevano soffocato l'attenzione verso queste cose.
I nostri "bisogni" erano prioritari! Non avevamo tempo da perdere.
Dovevamo
giornalmente pianificare la serata in pizzeria, la domenica al mare o in montagna, l'andare al cinema, come uscire e dove portare le ragazze, il contestare il genitori dal pensiero antidiluviano, non avevamo tempo per altro! La nostra vita era impegnatissima!
Chi ci badava a queste cose? Che ce ne fregava a noi dei poveri, dei malati? Lebbra? Fame? Povertà? Non erano nei nostri pensieri.
Bene ora c'eravamo dentro, caduti per caso o tirati dal destino? Me lo sono e me lo sto chiedendo ancora. Che il padre di Bruno avesse pianificato il tutto? No impossibile. Anzi quando
Bruno, al ritorno, gli disse cosa aveva intenzione di fare, rimpianse la sua idea... ma questa é un'altra storia...

Eravamo spaesati, come eravamo finiti in questa vicenda non lo riuscivamo a capire, ci arrovellavamo per trovare una spiegazione a tutto e soprattutto ci chiedevamo come avemmo fatto a ritornare al nostro albergo, senza guida, senza conoscere la strada, insomma ci sentivamo persi.
Fu lei la nostra ancora, ci venne incontro mentre eravamo seduti in un angolo immersi nei nostri pensieri.
Ci squadrò tutti e tre con i suoi occhi profondi, quello sguardo mi rilassò immediatamente:
- Ormai è
un po' tardi per farvi accompagnare al vostro albergo. - Il suo sguardo era accompagnato da un largo e luminoso sorriso.
- Siamo nelle sue mani - rispose Bruno con un tono speranzoso ma pacato.
- Bene, allora facciamo così, vi faccio dare qualcosa per cena, poi, se volete, facciamo un giro del posto così vedete cosa facciamo qui e passerete la notte con noi. Domani vi faccio accompagnare al vostro albergo.
Accettammo all'unisono, vuoi perché da soli non sapevamo che fare, vuoi che eravamo curiosi del luogo, ma soprattutto perché quella figura vestita di bianco e azzurro mi e
ci affascinava.

In una grande tenda c'era una specie di mensa. Una lunga fila di uomini donne e bambini procedeva lentamente verso i tavoli dove veniva distribuito del cibo a tutti, ci mettemmo in coda.
Guardavo la gente che mi precedeva, persone zoppicanti, di tutte le età. donne con bambini per mano, molti avevano degli arti bendati, anche qualche ragazzo era bendato o ad una mano o ad una gamba, uomini e bambini magrissimi, ci si potevano contare le costole che sporgevano dalla pelle del torace nudo.
Mi venne un senso di colpa, io, bello pasciuto fare la
coda per mangiare, la coscienza mi diceva:
“come puoi togliere un pasto a quelle persone?” Mi passò l'appetito, ma rimasi in fila.
Un piatto di zuppa di verdure e riso, mezza pagnotta di uno strano pane fu tutto quello che ricevemmo.
Ci sedemmo assieme a Madre Teresa ed allo sherpa che la accompagnava ovunque. Notai, passando in mezzo alla gente, come questi poveretti la guardassero, un immenso rispetto traspariva dai loro volti. Lei aveva un sorriso per tutti, una carezza per i bambini, dalla sua personcina alta un metro e sessanta, traspariva sicurezza, serenità, da come la guardavano
sembrava che per loro fosse alta due metri.
Guardai il piatto, ci galleggiava anche un pezzo di pollo, intinsi il pane e sbocconcellai lentamente.
- Vi devo ancora ringraziare per l'aiuto. - Ci disse Madre Teresa, - é raro che qualcuno si fermi, molti e specialmente quelli delle alte caste scappano quando ci vedono, come ha fatto la vostra guida.
- Scusate se la cena non é una gran cosa, proseguì, ma, come vedete, abbiamo molti ospiti da sfamare.
Davanti a me notai una ragazzo di circa dodici anni che aveva finito la zuppa e che stava mangiando lentissimamente
quasi briciola per briciola il suo pezzo di pane.
Bruno, che lo aveva notato come me, gli chiese in inglese come mai mangiasse così piano, il ragazzo non capiva, allora lo sherpa tradusse la domanda di Bruno in lingua locale.
Poi tradusse la risposta del ragazzo:
"Ho paura, perché quando finirà io avrò di nuovo fame".
Sentii una stretta al cuore e, senza pensarci, porsi la mezza zuppa della mia ciotola al ragazzo, mi guardò con due occhi immensi ma non si mosse, poi guardò Madre Teresa la quale fece un lieve cenno con la testa.
Il ragazzo, con
mano tremante accettò e sempre con lentezza con lo sguardo fisso nella zuppa riprese a mangiare, alzò gli occhi verso di me con un largo sorriso.
Una soave musica mi avvolse, non so da dove venisse, ma sentii lo sguardo indagatore di Madre Teresa su di me, lo avvertivo come attraversare il mio corpo per scrutare nella mia anima, fu una sensazione stranissima, mi sentivo come nudo.

Cominciava a calare il sole, il rossore diffuso che dell'imbrunire creava uno strano effetto in quel luogo, mi faceva pensare a ferite, al sangue di migliaia di ferite. La seguimmo e
lei entrò in una capace tenda bianca con la bandiera francese impressa nei lati.
All'interno una decina circa di pagliericci con della gente sdraiata, delle lampade a petrolio, o almeno credo, rischiaravano la scena, quando mi abituai alla poca luce notai che erano tutti bambini e ragazzi fra i sei e i dieci anni.
Si avvicinò ad un pagliericcio dove un'altra donna vestiti nel suo stesso modo era seduta a fianco di quella che noi avevamo portato dalla città, la suora, molto più giovane di Madre Teresa si voltò e disse:
- Si salveranno, la lebbra è
ad uno stadio iniziale, però ha la febbre alta, mentre il bambino, che credo non mangiasse da giorni, sta riposando il dottore dice che lui è sano ma bisogna nutrirlo un po' alla volta, il suo stomaco non accetterebbe troppo latte in un volta sola. Mentre informava di questo Madre Teresa la suora continuava a cambiare dei pezzi di stoffa, che bagnava in un secchio d'acqua, sulla fronte della donna.
Madre Teresa accarezzò la fronte della donna e del bambino che dormiva accanto a lei mormorando una preghiera a fior di labbra.
Poi, rivolgendosi alla suora le chiese se
aveva cenato, al diniego di quest'ultima le disse di andare, la suora ringraziò e uscì. Madre Teresa si voltò verso di noi e disse:
- Qualcuno di voi vuole fermarsi ad assistere questa donna? - il suo sguardo profondo ci squadrò uno ad uno in attesa di una risposta e si fermò su di me.
- Resto io - risposi senza pensare.
Le parole mi erano uscite da sole, non saprei dire come, le mie orecchie sentirono la mia voce ma la mia mente non aveva pensato a quell'offerta di prestazione, ci arrivò con un attimo di ritardo,
ma a soffocare il timore delle malattia che mi era balenato ci pensò lei:
- Non aver paura, la lebbra é una malattia che colpisce i denutriti, quelli che vivono nella sporcizia, è una malattia dei poveri. Se vuoi riposare, nell'angolo c'è un materasso con due coperte potrai dormire qui questa notte. Più tardi tornerà la sorella.

Mi avvicinai alla donna e cominciai a cambiare le pezze bagnate sulla sua fronte, un turbine di pensieri mi frullava per la mente. Che ci faccio qui? Perché sono qui? Non riuscendo a darmi risposte mi concentrai sulla donna.
Aveva
un viso minuto e smunto di un colore ambrato, gli zigomi le sporgevano e dalla magrezza quasi si poteva delinearne la scatola cranica. Due occhi infossati, che teneva chiusi mentre ansimava per la febbre. La coperta che la avvolgeva sembrava vuota, non credo pesasse più di trentacinque chili, in Italia, pensai, un ragazzino di 10 12 anni avrebbe pesato di più. Il nero dei capelli lunghi e sparsi sul pagliericcio aveva dei riflessi che passavano dal blu al verde scuro. Due o tre piccole escrescenze le gonfiavano le fronte, e al labbro superiore un piccolo accenno di lebbra le storceva un po' la bocca.
Nonostante le sue condizioni, era una bella donna, anzi più un ragazza di circa vent'anni.
Mentre continuavo a cambiare le pezze bagnate sulla sua fronte, un piccolo vagito mi riportò alla realtà, il fagottino al suo fianco si mosse leggermente ed emise un secondo vagito, immediatamente la donna aprì gli occhi girandosi, ma la sua debolezza le permise solo di muovere la testa verso il piccolo. Capii la sua intenzione e con la massima cautela avvicinai il piccolo a lei.
Il lembo della coperta che gli copriva il viso scivolò di lato, mi sentii mancare alla
vista di quell'esserino. Aveva il viso magrissimo e il fisico pelle e ossa sembrava uno scheletrino.
La madre cominciò a dondolarlo leggermente e mentre li guardavo mi sentii toccare una spalla. Il tocco mi voltai e vidi un medico in camice bianco accompagnato da Madre Teresa, il medico si chinò, auscultò il piccolo con lo stetoscopio, gli girò la testolina a destra e a sinistra e gli fece piegare le braccia e le gambe, tastò un po' il piccolo ventre e poi voltandosi disse:
- E' molto denutrito, ma può riprendersi bisogna nutrirlo un po' alla volta e
spesso.
Il medico se ne andò, Madre Teresa estrasse da sotto l'abito una bottiglietta di vetro con del latte, sopra c'era un piccolo biberon di gomma, me la porse, poi, poi parlando con la donna, che non lo aveva lasciato un attimo, si fece dare il piccolo, me lo appoggiò in braccio e mi disse:
- Saprai dare un ciuccio ad un piccolo, daglielo piano, e toglilo dalla bocca ogni tre o quattro poppate altrimenti si soffoca.
Presi il bambino, sembrava non pesasse, credo che le coperta in cui era avvolto pesasse più di lui, avevo paura
di rompergli qualche ossicino ma lei me lo appoggiò fra le braccia con delicatezza.
Avvicinai il biberon artigianale alla sua bocca, quando una goccia di latte tiepido bagnò le sue labbra, la spalancò girando la testolina e destra e a sinistra come un passerotto che aspetta il cibo dalla madre.
Gli misi il biberon in bocca, succhiò con un'energia di cui non lo credevo capace, aveva voglia di vivere e una gran fame. Seguii le istruzioni togliendo e rimettendo il biberon in quella piccola bocca fino a quando la bottiglietta rimase vuota.
Alzai gli occhi dal piccolo e vidi
due paia di occhi neri che mi guardavano, la madre del piccolo, che era stata alzata per poter mangiare un po' di zuppa, e Madre Teresa, che la stava imboccando con la ciotola in mano.
Due paia d'occhi profondi, la madre mi fece un sorriso sofferto ma sincero, sentii un ringraziamento anche se non detto. Anche Madre Teresa sorrideva, ma il suo era un sorriso diverso, sembrava contenesse una piccola punta di divertimento, mi sentii arrossire, ed il piccolo, forse per darmi un ringraziamento anche lui, fece il suo ruttino di soddisfazione.
Adagiammo madre e bambino nel pagliericcio,
la febbre era scesa e si addormentarono tutte e due.

Mi sentivo stanco ma appagato, non ero mai stato così in pace, sbadigliai.
- Se vuoi puoi riposarti. - mi disse Madre Teresa, - fra poco ritorna la suora e li veglierà lei.
- Grazie - risposi.
- Una domanda, - proseguì lei, però questa volta in un italiano un po' stentato ma comprensibile.
La guardai stupito ma lei mi spiegò:
- Non stupirti io sono albanese di Skopje e un po' di italiano me lo ricordo, tu capisci un po' di inglese perciò riusciremo a comunicare.
- Si? - risposi.
-
Ho notato un velo di tristezza nel tuo animo che ti traspare dagli occhi, qualcosa non va?
Qualcosa in me si aprì, sembrava che lei avesse una specie di scardinatore che apriva tutte le porte, perfino quella blindata dove io avevo chiuso molte cose della mia vita.
Le raccontai di mio padre, della sua caduta, del fatto che avevo dovuto lasciare gli studi. Le parlai della mia crisi religiosa dovuta un po' all'ambiente seminarile ed ai fatti che mi erano accaduti, finii con il racconto della mia ex ragazza che un mese prima mi aveva lasciato, del fatto
che avevo perso il lavoro e infine di come i genitori dei miei amici ci avevano offerto il viaggio.
- Non ti devi crucciare, - mi disse dopo avermi scrutato a lungo - vedi tuo padre sta bene, qualcuno più grande di noi ha deciso di salvarlo, e non fare una colpa agli uomini di chiesa per come ti hanno trattato, certe volte lo fanno perché pensano solo alle cose materiali. Lavori ne puoi trovare sempre e per la ragazza, augurale di trovare la felicità se non l'ha vista in te aveva già gli occhi voltati da un'altra parte.
Non preoccuparti so che tu sei un bravo ragazzo e il Signore ti vuole bene anche se non ti ricordi di Lui, però Lui si ricorda sempre di Te.
Poi come stesse pregando disse:
- La vita è bellezza, ammirala. La vita è un'opportunità, coglila. Dio ci ha creati per qualche cosa di immensamente grande: per amare ed essere amati. La vita è un sogno, fanne una realtà. La vita è una sfida, affrontala. Dobbiamo trasformare i nostri focolari in qualcosa di bello per Dio, dove regni la pace, l'amore e la gioia. La famiglia che prega
unita resta unita. La vita è una ricchezza, conservala. La vita è preziosa, abbine cura.
"Ti ho disegnato sul palmo delle mie mani" (Isaia 49,16). Ogni volta che Dio guarda il palmo della sua mano, noi siamo lì. In momenti di sofferenza, di solitudine, di umiliazione, di fallimento, ricorda che sei nelle mani di Dio.
La vita è amore, donala. La vita è un mistero, scoprilo. Porta l'amore, la pace e l'allegria in seno alla famiglia. L'amore comincia nel focolare. La vita è promessa, adempila. La vita è tristezza, superala. Dalla croce Gesù ci ama. Le sue
mani sono tese, per abbracciarci. La sua testa è inclinata, per baciarci. Il suo cuore è aperto, per accoglierci. La vita è felicità, meritala. La vita è un'avventura, rischiala. Il frutto della Fede è l'amore. E frutto dell'amore è il servizio. Il frutto del servizio è la pace. Non importa quanto facciamo, importa quanto amore vi poniamo.

(Nota : molti anni più tardi trovai queste frasi scritte in un libretto a lei dedicato e leggendole mi sentii come se fossi ancora lì, in India, al suo fianco. Nel libretto avevano come titolo - inno alla vita -.)

Dicendo
queste parole mi appoggiò la mano sulla testa come per una carezza. Sentii un'ondata di calore riscaldarmi il corpo e soprattutto l'anima, credo che se mi fossi lanciato in alto sarei volato fuori dal tetto della tenda, una soave leggerezza mi pervadeva, mi sdraiai sul materasso, e mi addormentai cullato da una musica dolce, una ninna nanna, mi sembrava di essere sulle ginocchia di mia madre quando piccolo mi allattava e poi mi addormentava con una tenera cantilena.

Ebbi l'impressione, nel sonno, che Madre Teresa passasse per quella tenda altre volte, e, nel sonno? Ero sveglio? Non
lo so; mi sembrò di sentire ancora la sua calda mano accarezzarmi.

 

MADRE TERESA - (parte terza) l'azione

Premessa:
Da questo momento comincia la nostra vera azione ed esperienza con le "Missionarie della carità", così erano chiamate le, non so se chiamarle suore, volontarie missionarie, loro ci dicevano di chiamarle per nome. Anche Madre Teresa non voleva essere chiamata superiora o madre - chiamatemi Teresa - ci disse un giorno - come se doveste chiamare una vostra sorella, perché siamo tutti fratelli e sorelle.
Inserirò, in questa parte, alcuni detti e preghiere che Lei era in uso dire o recitare assieme a tutti i volontari che vivevano e lavoravano nel campo, alcuni li ricordo ancora a memoria.
Di questo, ad esempio
, ne ho fatto tesoro e filosofia di vita. - La povertà più grande che c'è nel mondo non è la mancanza di cibo ma quella d'amore. C'è la povertà della gente che non è soddisfatta da ciò che ha, che non è capace di soffrire, che si abbandona alla disperazione. La povertà di cuore spesso è più difficile da combattere e sconfiggere.-

21 luglio:

Franco e Bruno entrarono nella tenda dove avevo riposato, mi svegliarono e, come due fiumi in piena cominciarono a raccontarmi di come avevano trascorso la notte. Li dovetti far tacere:
- Per carità
uno alla volta! Non capisco niente! Calmatevi!
Si calmarono e uno alla volta, trattenendo un'esuberanza che sembrava volesse uscire da tutti i pori mi raccontarono tutto, io, a mia volta, raccontai i miei trascorsi di quella notte.
Calò il silenzio, ci guardammo negli occhi. Notai che gli negli occhi dei miei amici brillava una luce diversa, come di desiderio, ma anche di fermezza. Io sentivo una cosa che mi rimestava dentro e che voleva uscire:
- Ci fermiamo qui qualche giorno? - parlammo all'unisono tutti e tre.
Non ci fu bisogno di altre parole, ci abbracciammo tutti e
tre strettamente.
Entrò lo sherpa per avvisarci che Madre Teresa e la suore erano in mensa e che ci aspettavano. Guardai per un momento la madre con il piccolo fra le braccia che ancora dormiva, il suo visetto, nel sonno, sembrava risplendere tanto era tranquillo e rilassato, mi sembrò perfino più arrotondato. La donna invece era sveglia, mi guardò profondamente e mi fece un cenno sorridendomi. Non ho mai ricevuto un grazie, almeno così l'ho interpretato, più bello.
Nella mensa trovammo tutte le suore, i medici i volontari e gli aiutanti che lavoravano nel campo.

Madre Teresa fece
a tutti un ringraziamento per il lavoro, un augurio per quello che avrebbero fatto durante quel giorno e intonò, seguita da tutti la:
PREGHIERA QUOTIDIANA
dei collaboratori di Madre Teresa

Rendici degni, Signore, di servire i nostri fratelli in tutto il mondo che vivono e muoiono in povertà e fame.
Dà loro quest'oggi, attraverso le nostre mani, il loro pane quotidiano, e, con il nostro amore comprensivo, dà pace e gioia.
Signore, fa di me un canale della tua pace così
che dove c'è odio, io possa portare amore;
che dove c'è ingiustizia io possa portare lo spirito del perdono;
che dove c'è discordia io possa portare armonia;
che dove c'è errore, io possa portare verità;
che dove c'è dubbio io possa portare fede
;
che dove c'è disperazione io possa portare speranza;
che dove ci sono ombre io possa portare luce;
che dove c'è tristezza io possa portare gioia.
Signore fa che io possa piuttosto cercare di confortare invece di essere confortato;
di capire invece di essere capito; di amare invece di essere amato;
perché è col dimenticare se stessi che si trova;
è col perdonare che si è perdonati;
è col morire che ci si sveglia alla vita eterna. Amen.

Mi risuona ancora nella mente, è l'offerta di tutto sé stesso agli altri, è l'esistere in funzione dei bisogni degli altri, la negazione dell'egoismo. L'ho insegnata anche i miei figli .

Tutti fecero un inchino e uscirono ordinatamente per dedicarsi ai propri lavori. Io Bruno e Franco ci avvicinammo a Madre Teresa e allo sherpa.
- Vi faccio accompagnare al vostro albergo - ci disse Lei sorridendoci, - vi ringrazio ancora dell'aiuto che avete dato.
- Veramente... - intervenne Bruno con la voce leggermente rotta - noi vorremmo chiederle un'altra cosa...
- Dite! Se posso volentieri - il
suo sguardo si fece più profondo e indagatore.
- Potremmo andare a prendere le nostre cose e poi venire qui per qualche tempo?
Ci guardò uno ad uno con i suoi profondi occhi, mi sentii scrutato dentro, scavato, sembrava leggere tutto il mio essere, cellula per cellula, cromosoma per cromosoma, mi rilassai e attesi.
Io, Bruno e Franco attendemmo la sua risposta, i pochi secondi sembrarono un'eternità, infine:
- Bene! Vedo che lo volete proprio, vi faccio accompagnare a prendere le vostre cose, però avvertite i vostri genitori, fare del bene agli altri non giustifica il lasciare altri
nella preoccupazione, spiegate loro bene le vostre intenzioni e rassicurateli.
- Molti si accontentano di dare solo del denaro. Il denaro non è sufficiente. Vorrei che ci fossero più persone ad offrire le loro mani per servire ed i loro cuori per amare.
Ci abbracciò ad uno ad uno. Come una madre abbraccia i suoi figli. Il calore di quell'abbraccio (come se ce ne fosse stato bisogno) ci sciolse ancora di più, sarei rimasto per sempre fra quelle braccia, quello che trasmettevano è indescrivibile, piansi di commozione.
Lo sherpa ci accompagnò, con una vecchia jeep, al nostro albergo
, dove trovammo la guida. Sembrava ci rimanesse a distanza e anche l'albergatore, al quale dicemmo di prepararci il conto, se ne stava sulle sue.
Salimmo in camera, approfittammo di una bella doccia, poi, dopo aver raccolto le nostre cose scendemmo per pagare il conto.
La guida vedendoci puliti e lavati si avvicinò di più, ma non troppo, chiedendoci come mai ce ne andavamo, gli spiegammo il motivo, non ci guardò male ma con una faccia incuriosita ci chiese il perché, ripetei le parole di Madre Teresa:
- La povertà più grande che c'è nel mondo non è
la mancanza di cibo ma quella d'amore. C'è la povertà della gente che non è soddisfatta da ciò che ha, che non è capace di soffrire, che si abbandona alla disperazione. La povertà di cuore spesso è più difficile da combattere e sconfiggere.
Arrossì e, abbassando la testa borbottò - come volete - e ci salutò.
Il proprietario accettò i nostri dollari, anche lui a testa bassa.
Ci facemmo accompagnare, dallo sherpa con la sua jeep, ad un centro telefonico, dove in 10 minuti ci misero in contatto con l'Italia e il padre di Bruno, l'unico ad avere
il telefono. Bruno gli parlò per circa venti minuti.
Mentre ritornavamo al campo Bruno ci raccontò del colloquio con il padre che, all'inizio si era preoccupato, poi, affrontato con calma e rassicurato da Bruno, si arrese, ponendo come condizione di essere informato almeno una volta alla settimana, e finendo con il dire che eravamo usciti di testa, comunque avrebbe avvisato i miei genitori e quelli di Franco.

E così cominciò.
Ci consegnarono degli abiti che, a detta dello sherpa, erano rivelatori di quello che facevamo, compreso un turbante bianco con righe azzurre simile alle vesti delle suore. Ci mettemmo
una giornata per imparare a indossarlo.
Ogni giorno si usciva con una jeep o con un camioncino per la periferia della città, era lì che si avevano maggiori possibilità di incontrare persone bisognose. Molti però venivano al campo di propria iniziativa, l'attività che vi si svolgeva era abbastanza conosciuta e perciò i bisognosi ogni giorno aumentavano. C'erano anche persone sane che venivano solo per avere il pranzo o la cena oppure per dormire la notte in un posto accogliente.
Era sempre un andirivieni di folla.

 

 

S e g u e