LA STANZA era inondata da una tenue e molto soffusa luce che lasciava passare solo le note della Sonata al chiaro di luna.
Solo quelle e nient’altro.
Persino i pensieri di Abramo rimanevano immobili: nascevano e morivano là, in quella splendida mente di poeta, esausta d’esperienza e non amore.
Il salone era abbondantemente arredato di ogni sorta di stimolanti lirici che s’era portato appresso da ogni parte del mondo, mentre la tastiera del piano, come uno scheletro antico, splendeva in quella penombra magica come per ricordagli quei morti che non torneranno più.
Tutto questo attorno ad un uomo stanco di cercare lei, quella lei che non aveva trovato in nessun’altra donna, ma i cui tratti aveva intravisto in ognuna di loro. Lei doveva essere una composizione di brani delle sue poesie; un origàmi di romanze che gli erano rimaste intrappolate nella memoria; una esposizione sequenziale di bello e di brutto dentro una caotica quotidianità; la casualità oppure, molto semplicemente, la sua stessa componente femminile estremamente uguale ed opposta a lui, tanto da permettere quell’equilibrio che fa si che la luna non precipiti nel mare e che diventi tutt’uno con la terra, né che ne sfugga afferrata dal sistema esterno ad essi.
INTANTO, di là, qualcuno si muoveva con cautela, sistemando la gabbia di Geronimo, il criceto bianco e marrone che le faceva compagnia quando Abramo era fuori per lavoro. Anastasia si preoccupava di non fare alcun rumore, sapeva che lui stava creando e non voleva distrarlo.
In punta di piedi si avviò verso la camera da letto ma, davanti alla porta del salone, volle fermarsi a guardare. Abramo, rilassato sulla sua poltrona-dondolo, con gli occhi chiusi ed un bicchiere vuoto nella mano che pendeva a sinistra, era come se gridasse il suo nome.
Lei sentiva distintamente quel pensiero e, come attratta, si avvicinò. Era la prima volta che si avvicinava a lui in quei momenti particolari ma, qualcosa le diceva che doveva farlo, che lui, Abramo, aveva bisogno di lei.
Piano, leggerissima, scivolò sul tappeto, ai suoi piedi, consapevole del suo amore ed appoggiò la testa sulla sua gamba mentre un sapore di malinconica tristezza e gioia insieme, le scendeva lungo il corpo fino ai piedi che, con dolce femminilità, aveva raccolto sotto di lei.
Abramo sembrò non accorgersi di tutto ciò, voglio dire che non si scosse per niente, anzi, le poggiò la mano sui morbidi capelli e prese ad accarezzarli con infinita dolcezza.
Brucia come il fuoco
di un ceppo perenne
questa smania
di trovare l’altra fiamma
che, pur confondendosi
con la mia,
manterrà immutati
i propri petali.
LA MACCHINA che correva dietro le palpebre chiuse di Abramo, d’un tratto mise le ali, s’impennò e volò insieme ai suoi pensieri, verso il centro di un vortice di ricordi.
Sul suo viso si disegnavano le espressioni ora tristi, ora vagamente allegre, ma sempre in una costante immagine malinconica, man mano che i pensieri affluivano e vorticavano da un lobo all’altro del suo cervello. C’erano tutti in quel quasi-sogno e tutti lo aiutavano a muovere con estrema delicatezza quella mano sui capelli di Anastasia.
Ad un certo punto, quasi alla fine del secondo movimento della Sonata, Abramo mosse il capo lentamente, girandolo verso di lei. Aprì pian piano gli occhi lucidi di lacrime, per guardarla e lei, come se avesse sentito quel silenzioso movimento, alzò il suo viso pieno di tenerezza verso il suo compagno. Lui la guardò come si guarda una qualsiasi cosa che conosci da sempre, con il suo pullover rosa, i suoi larghissimi pantaloni ghiaccio e le sue affusolate dita che, lentissimamente si muovevano sulla sua gamba, la stessa di sempre, sempre uguale. Quindi richiuse gli occhi.
La macchina nella sua mente correva sempre più velocemente, fin quando non cominciò a roteare dentro un immenso imbuto di memorie che ormai avevano perso ogni forma: somigliavano alle migliaia di corde che lo legavano al passato.
Poi l’auto si capovolse e sprofondò in un abisso senza fine, sempre più giù, verso qualcosa che non si conosce, verso un buio che è veramente buio, quella immensa voragine che ci inghiotte quando dentro di noi è solo vuoto, vuoto persino di paure.
E continuò a cadere finché una accecante luce non esplose nella testa di Abramo. Scosse il capo e, girandosi verso di lei, riaprì gli occhi per guardarla ancora ed ecco che accadde il miracolo!
Anastasia era come avvolta da una luce nuova, diversa, a tratti strana. Non la sentì più sua come era abituato a sentirla, ora erano un sistema, una enorme fascia di sentimenti che avvolgeva i due corpi pur lasciando chiara la loro identità, un effluvio di sostanza e spirito che, in una elisse perfetta, li legava come due pianeti ruotanti intorno ad un fulcro comune, un fulcro fatto di tutto ciò che non erano loro, cioè di assenza, di separazione, di annullamento. E loro mantenevano sotto controllo quel fulcro del non-esistere, del non-amore o soltanto del sesso motivato ed accettato da tutti attraverso una ipocrita dichiarazione d’amore.
Ma laddove la materia non esisteva più e quindi non c’era la motivazione sessuale, là, in quell’universo regolato solo da impulsi celebrali, lì, c’era solo amore, quello che non siamo più abituati a riconoscere nei volti dei nostri cosiddetti “partner perfetti” né, persino nella natura circostante.
Oh carezza d’occhi,
rosa mutata fiamma.
Effluvio di parole
senza voce,
di baci senza labbra.
Magica armonia
di sentimenti
per sempre snodati
e disciolti nella mente:
Oh amore.
ABRAMO SAPEVA di essere un sistema binario e sapeva che prima o poi, dall’altro capo della corda, avrebbe visto materializzarsi quegli occhi e quelle mani ma, non sapeva di averla così vicina… e lei era là, vicinissima anche nella mente, alla sua mente, essenziale per vivere, indispensabile per mantenere un equilibrio perfetto, su un piano perfetto, su una perfezione umana la meno imperfetta possibile. Lei, la dolce Anastasia non sapeva di essere quel ponte fatto di sostanza d’amore e di vaghe molecole corporee, lei non sapeva di essere il puntino coronato che può allungare la nota all’infinito; pensava di essere soltanto una donna, la più fortunata forse, la più emancipata, la più tutto quello che vogliamo ma, non sapeva di essere la donna, l’altro pilastro di quell’immenso ponte che la congiungeva ad Abramo ed a nessun altro essere al mondo. In quei grandi occhi di muschio, ora non si muovevano più mille lune, ma mille galassie, mille universi in tutta la loro divinità.
Lei, la piccola dolce Anastasia era l’universo identico ed opposto al parallelo universo di Abramo, in una dimensione che soltanto loro riconoscevano tra i mucchi di ricordi e di scarpe e di sedie e di impianti stereo e di uomini.
Dicembre 1990
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