Casella di testo:

Poeti della Luce

Poeti e scrittori per passione

Io e il professore - parte quarta - di Francesco Mancini

 

Un racconto sofferto  Epilogo


Avevo pensato di scrivere una seconda parte di questo testo dedicandola ai rapporti che intercorsero tra il “Professore” e me, sia pure con le opportune cautele e limitazioni, finché ho scelto per il no, accennando solo a qualcosa di aggiuntivo, pur sempre indicativa della loro eccellenza.
Questo complemento lo esporrò nella chiusura che segue, cioè su “Considerazioni e Note”, riservata a dei nostri impegni nel dopoguerra che coinvolsero anche lui, il “Professore”, il quale non si sottrasse dal darci una fattiva collaborazione. Invece in questo Epilogo mi limiterò a dire sia di ciò che esisteva sotto il laboratorio di sartoria
, sia di quanto, in merito alla sua scomparsa, ho definito quasi un segreto o, almeno, cosa riservata.
Ho già detto della cantina che mi colpì per il suo buio, nonché per la vastità e l’ampiezza, anche se all’inizio non ne vidi alcun particolare.
Il “Professore”, dopo più di un anno, un giorno mi disse che mi avrebbe mostrato qualcosa di molto speciale e riservato.
Dedicammo così buona parte di un pomeriggio a una ricognizione nel sottosuolo del suo alloggio, sconfinante di certo in altre parti del palazzo e della superficie stradale sovrastante. Scendemmo la solita scala e ci trovammo
nel vano che conoscevo, ove convivevano strutture antiche e recenti.
Egli stavolta accese la grossa lampada portatile, ne diede una anche a me, raggiunse l’estremità dell’antro e spostò uno stipite poggiato contro il muro.
Si evidenziò allora una grossa fessura, più che un’apertura, che consentiva di passare oltre. Il buio era assoluto e le nostre luci non è che lo fendessero significativamente. In terra giacevano dei mattoni ricoperti di malta, a dimostrare che il passaggio venne notato e chiuso dagli operai della fine 800.
Il “Professore” puntò la lampada all’interno e, chinandosi un po’, entrò.
Io lo seguii. Ci fermammo subito
per abituare la vista in quello spazio per me ignoto, e notai trovarci in un ambiente a pianta circolare, con un cumulo di detriti su un lato. Di fronte iniziava una galleria in ripida discesa.
Il “Professore” mi invitò a usare cautela per i vari ostacoli che si sarebbero frapposti e a seguire lui. La prima difficoltà si evidenziò subito, il corridoio scosceso era ciò che rimaneva di una scala di tipo “romano”, con gradini più alti dei nostri attuali e alquanto rovinati, a seguito della asportazione delle soglie in tempi indefiniti. Con mattoni e altro era stato ricavato
un passaggio rasente il muro, dal quale non ci si poteva scostare pena il finire di sotto.
Scendemmo un paio di rampe. Io mi aiutavo poggiando la mano sulla parete e controllando di mettere bene i piedi al suolo, nei limiti del cono di luce delle portatili le quali, essendomi ora abituato al buio d’attorno, mi sembrava si fossero trasformate in una potenza d’illuminazione di tutto rispetto.
Alfine la discesa cessò, incontrammo un nuovo piancito, e ci fermammo per una sosta onde renderci conto di cosa c’era attorno.
Il “Professore” illuminò i lati, soprattutto per me, e disse:
…“conosco bene
questo luogo, ci troviamo in alcuni vani dell’edificio romano, siamo scesi di due livelli. Quello di sopra, la mia cantina, era il piano-terra d’un tempo, ed i locali adiacenti furono in parte chiusi e riempiti in epoche lontane, quando si alzò il calpestio. Anche vari passaggi e locali di questo piano, cantine e servizi, vennero interrati, ma non tutti, specie quelli che non costituirono pericolo circa il cedimento dell’area che li copriva”…
La galleria proseguiva. Avanzammo di poco, poi il “Professore” entrò in una nicchia sulla sinistra, come un cubicolo circolare, nelle cui pareti, e sopra l’ingresso, erano scavati
dei loculi aperti, le cui lapidi di un tempo giacevano in terra, per lo più spezzate. Qualcuna era poggiata al muro. Egli si fermò, sistemammo le lampade in alto e la luce si espanse. Proseguì:
…“siamo in un luogo sacro, una kata-kumbas cristiana del tempo di Costantino. Nulla di eccezionale per carità, di questi luoghi in Roma ve ne sono a centinaia e solo una piccola parte sono stati evidenziati, gli altri vengono ignorati o eliminati. Questo, prossimo ai palazzi imperiali, è stato di certo utilizzato da persone al servizio della corte sessoriana. Venne già visitato dai barbari nei
periodi delle invasioni. Si vede dai loculi aperti e lapidi spezzate. Essi pensavano che le sepolture contenessero oggetti e monili preziosi; nulla di più errato, i corpi venivano deposti nudi avvolti in un lenzuolo. Se osservi vedrai che gli interni non sono tutti vuoti, in alcuni, con buona volontà, si notano le tracce delle salme che c’erano allora”…
Guardai meglio e a me vicino vidi una modesta fila di polvere e detriti i quali, solo facendoci attenzione, indicavano una passata colonna vertebrale, più schegge e residui minori. Dalla catacomba, ricavata probabilmente da una cantina iniziale, si passava, tramite un
corridoio a curva, in un secondo vano similare il quale, precisò il “Professore”, era stato utilizzato come kata-kumbas israelita, un po’ meno curata della precedente.
Evidentemente la corte Costantiniana comprendeva collaboranti ebrei che vi deposero dei loro defunti. Il “Professore” aggiunse:
…”Questo locale aveva un’altra entrata e un tempo la galleria era interrotta da due strutture murarie, in quanto non poteva esserci comunanza fra le due kata-kumbas, la cristiana e l’ebraica; limiteremo la visita a questi due locali. Sappi che in successione si snodano proseguii e vani, in parte pure pericolanti, sottostanti la città di oggi e il circo
castrense inserito nelle mura Aureliane”.
..”In questi labirinti è rimasta attiva qualche apertura o collegamento esterno che consente una aerazione sufficiente. Come puoi constatare non c’è aria pesante o poco respirabile”…
Nel vano israelitico, oltre ai loculi, vi erano alcune nicchie per ossari.
In terra giacevano spezzoni di marmo o mattoni, mentre delle lastre più grandi o integre si trovavano anch’esse contro le pareti. Pure qui quindici secoli or sono passarono le soldataglie gote in cerca dei tesori che non esistevano. Quattro-cinque sepolture non erano aperte, bensì chiuse con stuccature indubbiamente recenti.
Vidi il “Professore” raccogliersi per qualche
attimo e divenire serio.
Fece un accenno di aprire le palme e recitò a bassa voce un salmo che avevo già sentito. “…ascolta Israele …” Aggiunse poi che al momento opportuno mi avrebbe fatto conoscere di più su ciò che lui e pochi altri erano a conoscenza. E precisò che mi avrebbe introdotto, me consenziente, in un cammino non semplice di elevazione morale e spirituale.
Per ora disse che il luogo era destinato ad accogliere una ristretta cerchia di magistri di un ordine non conosciuto dai più, di cui avrebbe deciso in seguito se dirne di più. E il
mio pensiero fu: “chissà quali sviluppi potrebbero concretarsi qualora che, suo tramite, io venissi un giorno accolto nel loro consesso?”. Sulle lapidi non era scritto nulla, salvo qualche segno scalfito in origine. Ripercorremmo a ritroso il cammino e tornammo all’aria. Il “Professore” disse che era certo io avrei tenuto per me quanto visto.
Torniamo al momento successivo alla sua morte.
Il papà di Vitt mi raggiunse alle prime luci, chiese notizie della notte e se altri fossero a conoscenza del decesso. Alle mie risposte negative si tranquillizzò (ero preavvertito di informare solo lui). Recitò un breve salmo con le
palme al cielo, scoprì e ricoprì il viso che io avevo coperto con un panno bianco, sfiorò il capo sulla fronte e sugli occhi.
Precisò che il Professore “doveva e desiderava” essere sepolto in maniera particolare e sarebbe stato suo gradimento io fossi presente.
Aggiunse che se non me la sentivo potevo pure andare, avevo già fatto molto nel dargli affetto e assisterlo negli ultimi momenti.
Decisi senza indugio di restare. Egli telefonò a qualcuno e in pochi minuti giunsero due persone e un anziano che non avevo mai visti. Fui presentato come amico di fiducia e mi trattarono
tale uno di loro.
Il corpo venne spogliato, era divenuto poca cosa e, più che impressionare, faceva alquanto pena. Mentre l’anziano sussurrava preghiere, venne lavato e avvolto in un lenzuolo, chiuso ai lati con robusti lacci. Fatto ciò si portò dalla cantina lo stipite li giacente, forse conservato proprio per questa occorrenza.
Il “Professore” venne deposto sull’asse, assicurando i lacci alle estremità e poi facemmo scivolare l’anta sui gradini che conducevano alla cantina.
Accendemmo alcune luci e faticammo alquanto per scendere al piano sottostante la cantina. Giunti in basso usammo l’asse come barella improvvisata e, preceduti dall’anziano in preghiera, superammo
il gomito che ricordavo e ci trovammo nella kata-kumbas ebraica. Le luci furono poste in alto, si accese una lampada ad olio, venne recitata una preghiera corale (meno io che, non conoscendola, mi espressi col “De Profundis” latino).
Il “Professore” venne sistemato senza cassa in un loculo accanto a quelli occupati, aprimmo il lenzuolo sul viso e ponemmo tutti un pizzico di terra su di lui. Indi i due più robusti sistemarono la chiusura utilizzando una lapide li presente, fissandola con schegge di marmo e malta preparata su un foglio di plastica. Similmente alle altre non vi venne scritto
nulla, mi sembrò portasse la traccia di un ramo d’ulivo. Toccammo la lapide e risalimmo.
La casa fu sistemata e non si denunciò la morte.
Mancando la dichiarazione di decesso il “Professore”, in un certo senso, divenne un semi-immortale figurando, in teoria, ancora fra i viventi. A chi chiese notizie, anche alle autorità, venne detto che egli si era allontanato senza dar notizie, forse poteva trovarsi di nuovo in America.
La famiglia del papà di Vitt occupò i due vani, a loro già intestati.
Chi erano gli altri sepolti? seppi trattarsi dei maggiorenti di una comunità iniziatica alla quale
il “Professore”, in seguito, fece appena in tempo a farmi accogliere nel gradino d’inizio . Che il “Professore” fosse lui un “eminente”, un “illuminato”, lo sapevo in quanto me lo riferirono sia Vitt che il suo papà
Il tutto risultava per me complicato in quanto il “Professore” risultava poter essere un mezzo cristiano o israelita, o un semi islamico, o forse niente di tutto, pur se affermava: …“alla fin fine i cristiani, che hanno abbandonato un bel po’ la via di Abramo, e gli islamici, che invece lì si sono fermati, non sono altro che sette anomale israelite, le quali
hanno nel Vecchio Testamento la loro origine, anche se non se ne rendono conto o non vogliono farlo. Eppure siamo una famiglia unica, un giorno forse , ne saremo coscienti tutti”…
Ignoravo quanto fosse importante il suo livello, lo conobbi e lo apprezzai quando mi offrirono il suo piccolo distintivo d’oro, poco più di un bottone di camicia, che qualificava la sua posizione. Altrettanto non conoscevo i dettagli e l’importanza di quel luogo di riposo elitario il quale, prima della sepoltura del “Professore”, mi fu mostrato una sola volta, senza averne troppe spiegazioni (sia pure con la promessa di riceverle in
seguito).
Stai in pace “Professore”, so dove ti trovi, lo sappiamo in pochi, forse nessuno fra quelli di un tempo da noi conosciuti.
Mi auguro che te e i tuoi compagni-magistri non siate turbati nel vostro sonno, almeno finché l’edificio imponente che vi sovrasta non sia demolito, o qualcuno pensi di costruire un tratto di qualche metropolitana che sconvolga e tagli il vostro mondo ipogeo. Sai che hai lasciato una traccia profonda nella mia vita. Cercherò anch’io, come te, di fare qualcosa con chi mi è vicino.
Quando passo sopra o nei pressi ove ti trovi ti rivolgo sempre
, e con piacere, un pensiero, un saluto, un sorriso. Altrettanto penso di te.
Con ciò si chiude il mio scritto dedicato a un amico “Professore”, oltre a un giovane studente prima e uomo maturo poi, in cerca di una possibile luce nei tempi del dopoguerra e successivi, non privi di difficoltà e incertezze

Complementi e note
Mentre confermo che per gli aspetti riservati relativi al mio amico, nonché a me, ho deciso di non parlarne, salvo minimi cenni se indispensabile, ritengo poter esporre qualcosa di più corrente e simpatico circa quanto riuscimmo a concretare fra noi nel dopoguerra e
dopo, cioè in momenti molto particolari.
Accennerò così a riunioni formative, condotte con una certa frequenza, all’aver affrontato impegni didattici per alcuni che dalla guerra tornavano, al fornire assistenza a un po’ di reduci bisognosi e necessitanti di tutto.
Il “Professore”, oltre in scienze matematiche e fisiche, era laureato in Filosofia e sociologia. Aggiungo che ai titoli accademici, più qualche approfondimento, egli aggiungeva la naturale predisposizione per i suoi settori di studio, nonché estendeva l’area delle conoscenze alla vita economica, politica, religiosa. Inoltre, e di ciò ne hodetto in precedenza, era un esponente di livello in una comunità riservata, coperta
, di élite, diciamo così.
Fra noi (oltre me c’era qualche amico) nacque un po’ alla volta l’iniziativa, lui consenziente, di organizzare degli incontri informali per parlare un po’ di storia, filosofia, senza escludere politica, economia, e anche fatti privati nostri, singoli o collettivi. Questi mini-meeting, informali, sorti come desiderio di comunanza, si svolgevano con una certa ricorrenza, due-tre volte mensili.
Scegliemmo tre luoghi d’incontro, e difficilmente li cambiavamo, definendo l’iniziativa come “TRILOCUS”, in quanto d’inverno si andava da Giggetto al Portico d’Ottavia, nel ghetto ebraico, locale allora rustico, specializzato in filetti di baccalà, carciofi fritti, vino sfuso, ove
avevamo per noi un angolo abbastanza tranquillo. Così fra un filetto e un boccale di bianco si parlava di Aristotele, Agostino, Marx, Hegel, liberismo, fascismo, comunismo.
Oggi Giggetto è un locale d’élite e richiede .un portafoglio ben fornito!
La scelta di Giggetto la proposi io in quanto si trovava di fronte l’Istituto Quintino Sella, ove conseguii la maturità nel 1946, e lo frequentavo sin d’allora nella classica operazione mordi un filetto e fuggi, un po’ come oggi nei Mac-Donalds. Eravamo degli assidui anche perché, oltre il corpulento e simpatico proprietario, c’era una ragazzina stupenda, forse figlia o nipote, alla quale
facevo il filo. Il secondo locale, ove si andava in primavera o autunno, era una grossa osteria romana, oggi elevata a “Hostaria” con la acca, sita in prossimità della piazza di Santa Maria in Trastevere.
Anche quì avevamo il nostro angolo, quasi un vano separato, ove passavamo un paio d’ore fra discussioni, battute prosaiche, poesie romanesche, qualche foglietta di bianco, gassose, birra, ciambelline.
Il terzo e ultimo Locus era una fraschetta di Frascati (c’è ancora, più ingentilita), che ci accoglieva d’estate sotto una pergola, non escludendo l’interno fresco, coi suoi tavoli rustici e panche collettive.
In questo luogo Bacone e
Kant se la vedevano con un menù più ricco, pane casereccio, porchetta, olive, vino ottimo, ancora non “doc”.
E’ chiaro che fra noi venissero trattate pure cosine leggere, magari ironiche o cavolate. La base restava però quella seria, formativa.
Per raggiungere i luoghi disponevamo io della Lambretta, per gli altri un paio di Vespe, un Guzzino nonché, a volte, una 1100 del padre di Vitt, specie se andavamo a Frascati. In città caricammo più volte il “Professore” sul sellino posteriore degli scooter e lo scarrozzammo con sua preoccupazione, vista la nostra voglia di velocità (Vespe, Lambrette e simili, con cilindrate
ridicole rispetto le maxi di oggi, non superavano i 60 l’ora).
Rammento un paio di volte che, diretti a Frascati e senza la possibilità di disporre della Fiat di Vitt, prendemmo a nolo un motofurgone Guzzi cabinato, e una volta bucammo pure, con esiti tragici per noi, non usi a cambiare ruote diverse da quelle delle motorette. Quanto alla carenza di auto esse in pratica non esistevano, le avevano in quattro gatti, costavano una mostruosità, chi se le poteva permettere attendeva un anno per avere una Topolino A o B prodotte a Torino con esasperante lentezza.
La nostra riunione era anche
un espediente per godere di una serata particolare o fare una scampagnata. Comunque le serate “culturali” si svolgevano effettivamente e ci vedevano a volte parlare a voce bassa, per non dare nell’occhio altrui. Quanto a privacy nemmeno a parlarne.
Avveniva inoltre che, non di rado, vedendoci discutere di cose comprese poco ma ritenute di alto livello, qualcuno dei presenti si avvicinasse, aggiungendo qualcosa del suo. Dopo anni, rivisitando quei luoghi, incontrai i titolari d’una volta, ormai anziani, i quali ricordavano la brigata e chiesero come stava il “Professore”, quella persona gentile che avevano conosciuto. E rimanevano male nel sentire
avesse raggiunti i suoi Socrate e Aristotele.
Questi meeting poi, com’erano iniziati, gradualmente si inaridirono.
Uno di noi andrà in Argentina, io nel nord-Italia, i restanti si persero senza motivazioni. Ricordo uno degli ultimi, a Frascati, ove per una volta parlammo solo di fatti personali, famiglie, speranze, non di storia o politica, e facemmo una vera cena in omaggio ai tempi passati, con diversi bicchieri accompagnati da gassose. Poi il “Professore” iniziò a star male e ci lasciò, ne ho parlato. Altro punto che col “Professore” riuscimmo a realizzare qualcosa di positivo fu quando, nel primo dopoguerra, decidemmo di
aiutare alcuni ragazzi ex Repubblica Sociale i quali, danneggiati negli studi a seguito della guerra, dovevano completare studi superiori, o partecipare a qualche concorso, o essere assunti in lavori privati. Mentre per l’appoggio relativo ad assunzioni, arruolamenti nella polizia, altro, se ne interessava il nostro artigianale SAR, Servizio Assistenza Reduci, soprattutto tramite Clemente e i suoi (il papalino doc, detto “Sua Santità”), per quanto riguardava l’affrontare accettabilmente esami mettemmo in piedi un centro scolastico di fatto, con un preside virtuale. Costui era il “Professore”, coadiuvato da noi volenterosi.
Ne derivarono risultati egregi. Nacquero tavole riepilogative di studio, che in
parte conservo, ove era riportato uno stringatissimo sunto dei sunti Cetim, Tramontana, Bignami, quasi un indice, comunque utili per dimostrare alle Commissioni varie che l’esaminando aveva pur sempre una base nozionistica la quale, con molta buona volontà, poteva considerarsi sufficiente. E spesso gli esaminatori, abituati in quei momenti a concedere passaggi facili ai tanti disperati che tornavano alla vita civile, si meravigliavano quando alcuni dei nostri mostravano di conoscere qualcosa di più del niente, tanto da non questuare oltremodo un passaggio o una promozione. L’importanza psicologica sarà che gli assistiti riterranno d’essere promossi per la loro forza d’animo, e ciò li rinfrancava nell’affrontare le dure situazioni di esistenza.
Quanto lavorai e lavorammo con la Royal del “Professore”, quanta extra-strong, veline, carta carbone, appunti, ci videro fare le ore piccole nel suo studiolo, con lui a suggerire come scrivere gli appunti.
Così fu che nel secondo semestre del 1945, nel 1946 e quasi nulla del 1947, ci trasformammo in tutor degli assistiti, in numero assolutamente non eclatante, aiutandoli a conseguire diplomi o superare impegni professionali.
La buona volontà la mettemmo tutta ma, per quanto riguarda la riconoscenza, essa fu quasi assente. Qualcuno per un breve periodo ricorderà: “chi, quelli che ci suggerirono qualcosa
negli studi?, si, bravi ragazzi, ma in sostanza facemmo tutto da noi”. Una volta tentai di chiedere un modesto favore per uno degli ultimi “assistiti” e mi recai in un ufficio di Stato, chiedendo di vedere uno dei primi d’inizio. Lui uscì dalla stanza e chiese: “chi è lei?”, fingendo di non conoscermi. Ad alcune spiegazioni disse di attendere, che doveva prima recarsi dal capo-servizio. Dopo poco un usciere venne a dirmi che il ragioniere sarebbe stato occupato per la mattinata e gli avessi scritto un appunto, facendoglielo recapitare per posta. Io soprassedetti. Lui mi riconobbe, ne sono certo, ebbe solo il timore che gli rammentassi qualcosa di fronte agli uscieri, agli altri impiegati, o magari al suo subconscio.
Ciò per dire che se si vuol fare del bene lo si faccia pure, ma solo per regola di vita, senza attendersi riconoscimenti quaggiù, laggiù, lassù.
Altro intervento nel 1945-45, per il quale chiedemmo al “Professore” di darci una mano, fu di concretare qualcosa nel campo degli aiuti materiali per facilitare i giovani, specie reduci RSI che, su nostro indirizzo, si appoggiavano alla mensa di via Boiardo per mangiare, vestire, avere modesti aiuti.
Ho detto che trasformammo il gruppo
SAR (Squadre Azione Repubblicane, ragazzata poco concreta) nel più utile SAR (Servizio Assistenza Reduci).
Contribuimmo così a sviluppare una mensa niente male nel retro della Basilica di Sant’Antonio in via Merulana, oggi sempre funzionante, collaborando col Direttore Padre Marcello, nonché un punto di distribuzione di un pò d’abbigliamento e medicine. Così mentre alcuni del SAR si dedicarono ad una assistenza più personale a giovani e famiglie, sia pur modesta, nonché per licenze, atti e similari, io e qualche altro ci applicammo al tentare di trovare una via onde integrare i generi alimentari occorrenti per la mensa e trovare del vestiario
, specie usato (la Sussistenza non mi lascia).
Ebbene, assieme a noi ci fu il “Professore” che s’impegnò in prima persona.
Egli scrisse a suoi parenti e conoscenti negli USA e gli chiese di raccogliere indumenti e calzature da distribuire fra italiani, onde aiutarli a sopravvivere e sottrarli al pericolo di indirizzarsi verso i tracotanti comunisti.
Il termine “comunisti” fu magico per gli americani di Truman, del Cardinale Spellman, di Fiorello La Guardia. A Little Italy partirono le crociate per salvarci dall’orco sovietico e ciò che venne raccolto dagli organi vaticani, in piccolissima misura anche tramite il “Professore”, fu una
sorpresa.
Quanto donato confluiva alla Pontificia Opera Assistenza, di monsignor Vincenzo Baldelli, una eminenza positiva, concreta, che conobbi bene.
Per quanto riguardava il “Professore” egli riceveva notizia di quanto raccolto su sua sollecitazione. Ogni volta giunta la comunicazione io mi recavo nel magazzino POA romano, mostrandogli la nota del risultato del suo intervento. Ciò ci consentiva di avere facilitazioni nei prelievi che ci necessitavano, non certo per identificare alcunché in quanto i colli, una volta raccolti negli USA e stipati in container, entravano in un totale anonimato.
Devo dire che la POA aiutò tutti, senza riferirsi ai colori politici, religione
, provenienza, in misura encomiabile, pur se i capi d’abbigliamento e altro fossero lontani dai nostri gusti e, di norma, non nuovi, sia pure in buono stato.
Questa azione sarà estesa anche a un po’ di medicinali, stavolta in forma diretta, con invii cioè al “Professore”.Allora si trovava poco o nulla mentre in USA c’era già la Penicillina e prodotti che sognavamo. Ciò lo sapevano bene i medici, che si raccomandavano ai Santi per avere qualcosa da oltreoceano.
Il campo farmaci era un settore più controllato. Per quei casi che il ”Professore” interessò i suoi amici d’oltreoceano questi gli
fecero giungere il richiesto tramite la Red Cross, ed erano sempre scatole e non pacchetti, in quanto venivano aggiunte quantità suppletive di generici, come disinfettanti, aspirina, bende, altro. A volte trovammo anche confezioni di profilattici, articolo che le farmacie occultavano, considerato oggetto di cui vergognarsi.
I medicinali, mai in quantità importanti, venivano poi consegnati a chi di dovere e, se eccedenti, si passavano alla parrocchia o alla mensa. Questa azione sanitaria non sempre riusciva. A volte, non sapendo il perché, le richieste non erano espletate. Posso affermare però che il movimento di boccette, flaconi, accessori, si dimostrò nell’insieme utile e
interessante.
Il “Professore” rinasceva nell’affrontare queste incombenze. Lo notavamo ringiovanito, non più colpito per il suo soggiorno a Dachau. Lui avrebbe potuto fare denari a palate se avesse intrallazzato in questi generi, invece ci aggiungemmo sovente un po’ dei suoi e nostri pochi soldi.

Torno all’inizio confermando la scelta che dell’impegno fra il “Professore” e me io non ne abbia parlato e non lo farò.
Dico solo che, grazie a lui, ebbi la fortuna di ricevere un indirizzo formativo eccellente, che mai avrei raggiunto in altro modo. Mi sono sempre sentito un privilegiato per ciò, ed erano tempi in
cui si pensava solo al vitto che non c’era e alle prime necessità, eppure si dischiuse un orizzonte che mi seguirà nella vita. Pur se il “Professore” è oggi altrove io me lo figuro nell’età migliore, e mi vedo non tanto come l’adulto del dopo, quanto il ragazzo con l’ombrello nero che nel 1941 l’accompagnò nel suo atelier per uomo, nel palazzo ottocentesco di via Umberto Biancamano.
(Nota: “Io e il Professore” si conclude definitivamente quì. Si prenda la narrazione come un racconto. Che sia tedioso o avvincente lo stabilirete voi, che sia vero del tutto o in parte frutto
di estro e fantasia, lasciatelo a me).