“Lady Oscar” di Jacques Demy: un film da vedere

(nonostante tutto)

 

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Una delle cose che non manca mai di stupirmi quando nel fandom sento parlare del film Lady Oscar di Jacques Demy, è il fatto che molti ammiratori dell’eroina ikediana non lo conoscano, ed esprimendo su di esso le più forti riserve senza averlo visto, professino l’intenzione più ferma di non vederlo mai. Il che mi sembra, da fan della prim’ora in perenne onnivora ricerca di tutto ciò che possa afferire ai nostri eroi, un atteggiamento quasi contro natura. Che le obiezioni dei più sulla qualità del film siano giustificabili è ben difficile da negare, ci mancherebbe: il fatto che esso possa considerarsi nel suo complesso un’opera scadente è talmente evidente che non vedo proprio come qualcuno possa sostenere il contrario. Chiunque sia dotato di giudizio critico, pur tralasciando l’indulgenza dovuta al fatto che ci si accosta dopo 33 anni a una produzione datata 1978, non può fare a meno di riconoscere, tuttavia, che la pellicola presenta una serie sconfortante di ingenuità, semplificazioni, soluzioni registiche e scenografiche così modeste che talora scadono perfino nel grottesco, che abbia una sceneggiatura spesso rudimentale, e, soprattutto - cosa che difficilmente può essergli perdonata -, che non centri la caratterizzazione della protagonista così come era stata concepita e recepita fin dall’inizio: la Oscar di Demy è una creatura debole, insicura, psicologicamente dipendente dagli altri. Ben diversa, dunque, dal personaggio della Ikeda - che ammetteva delle fragilità ma restava una figura valente e autonoma - e ancor più da quello di Dezaki, il quale, in un’intervista del 2006 che abbiamo tradotto per questo sito, disse chiaramente di averla voluta costruire come una donna responsabile e forte: cosa peraltro ben comprovata dal risultato.

Fatte queste premesse, tengo a precisare, tuttavia, che non è solo spinta dalla passione del supporter o dall’interesse storico-filologico del cultore della materia (attitudini da me peraltro prontamente riconosciute) che mi accingo a stendere queste annotazioni sul film. Il motivo per cui lo faccio è che trovo sinceramente che esso meriti di essere visto nonostante i suoi difetti. Che abbia in sé qualcosa di buono e proponga per alcuni aspetti delle prospettive di lettura stimolanti. Che sia in grado di trasmettere anche emozioni autentiche. Che possa essere apprezzato, da chi abbia temperamento sensibile e inclinazione all’analisi, per molte suggestioni e sfumature nient’affatto trascurabili, e tali anzi da risultare interessanti sia nell’esame di come la tradizione ufficiale successiva se ne discostò, sia, per converso, di come esse anticiparono e vennero incontro ad alcune esigenze di lettura del pubblico alternative alla codificazione canonica, manifestate e formalizzate in seguito nella produzione amatoriale che costituisce ormai parte dell’“interdiscorsività” oscariana.

 

Che il rifiuto a priori sia atteggiamento da non condividere mi sembra cosa talmente ovvia da non necessitare nemmeno di una dimostrazione, e tuttavia ci spenderò qualche parola preliminare in quanto - come dicevo sopra - l’ho spesso constatato nelle discussioni. Mi pare tutto sommato che sia una posizione superficiale: per quanto l’intenzione di non guardare il film di Demy venga spesso motivata con la “nobile” giustificazione di non volersi vedere “rovinata” la storia da una sua cattiva versione, credo che una persona dotata di sufficiente maturità possa senz’altro correre il rischio di tale shock, e che - per quanto grande possa essere la delusione causata dalle evoluzioni sullo schermo della povera Catriona Maccoll - nessuno sconforto conseguente alla visione della pellicola possa disgustare l’appassionato della nostra storia al punto di fargli passare l’ammirazione e la voglia di continuare ad amarla. Oltretutto dire di qualcosa che è brutto senza averlo mai visto è del tutto illogico e non si può certo seriamente interloquire con chi sostenga una tale idea adottando acriticamente come proprio un giudizio altrui. Si dica che il film è brutto a ragion veduta e con cognizione di causa, perlomeno: sarà già un cospicuo passo avanti.

 

Parlando invece più espressamente del film “Lady Oscar”, la prima cosa che ritengo importante ricordare - e che, per quanto sembri strano, non penso sia così nota al grande pubblico -, è che esso venne realizzato prima della serie animata che valse all’opera la consacrazione mondiale. Un anno prima, per l’esattezza. Fumetto di successo nel 1972, opera di fama nazionale in patria grazie alle versioni teatrali dal Takarazuka a partire dal 1974, fiction diffusa con adattamento radiofonico nel 1976, solo nel 1979 “La rosa di Versailles” divenne la serie a cartoni animati che tutti conosciamo, trasmessa con alterne vicende in Giappone, risollevata dal cambio alla regia di Tadao Nagahama con Osamu Dezaki, esportata in Italia nel 1982 e in seguito in Europa e nel mondo con straordinario successo. Nel 1978, quando - sull’onda della grande popolarità ottenuta nell’Arcipelago dal manga di Riyoko Ikeda -, l’intraprendente e instancabile produttore Mataichiro Yamamoto si mise in testa di trarne un film a riprese reali, l’anime che tutti conosciamo e amiamo non esisteva ancora. Esso fu realizzato solo un anno dopo, peraltro con il planning di Yamamoto stesso.

Al produttore non ancora trentenne, evidentemente molto entusiasta e molto ostinato, riuscì il miracolo - da considerarsi ancor più tale dato il maggior provincialismo dei tempi ante-globalizzazione e il notorio attaccamento dei Francesi alla propria storia, soprattutto se si tratta di Rivoluzione - di girare il film in Francia con un cast interamente occidentale, addirittura nella reggia di Versailles. A dirigere l’opera venne chiamato il rispettato regista Jacques Demy, che aveva anche vinto una palma d’oro a Cannes.

Sospetto fortemente - con qualche serio testimone a suffragio - che Demy assunse la direzione soprattutto per soldi. O quantomeno per desiderio di nuove opportunità in un momento difficile. Che nel ‘78 un apprezzato regista di cultura occidentale alla soglia dei cinquanta accetti la proposta di un bizzarro produttore nipponico e si induca a fare un film tratto da un fumetto per lui ignoto di una ragazza col kimono è cosa che mi sembra spiegabile solo con la presenza di capitali apprezzabili[1]. Era cosa di là da venire, all’epoca, la fortuna hollywoodiana dei vari Batman e Spiderman, e trent’anni fa la cultura giapponese non era ancora per gli europei quel feticcio che è oggi. Probabilmente non era un momento d’oro, per il regista e per il cinema d’oltralpe, di cui infatti egli criticava in un’intervista la mancanza d’audacia: certo, sempre meglio la crisi della Nouvelle Vague e del musical che il trash poliziottesco in auge da noi, ma in un servizio su Tf1 di quegli anni, proprio sul film Lady Oscar allora in realizzazione, Demy polemizzava, tra una ripresa e l’altra, con le scarse possibilità offerte dalla realtà cinematografica contemporanea del suo paese, e motivava con ciò la scelta di girare per una produzione straniera[2].

Poi, certo, l’idea della sceneggiatura non era brutta: una donna in abito da uomo che combatte a Versailles, il trionfo dell’amore tra un’aristocratica e un plebeo sullo sfondo della Rivoluzione. Proprio per la sua distanza dall’opera della Ikeda e dalla cultura nipponica contemporanea, e viceversa per la sua appartenenza alla cultura francese, il regista dovette sentirsi ispirato dal soggetto e libero di costruire la vicenda secondo i propri parametri.

Ben diversamente sarebbero andate le cose, a mio parere, se Demy avesse avuto l’opportunità di visionare, magari doppiata nella sua lingua, la serie animata (in particolare nella parte dezakiana), che allora non era ancora stata prodotta e arrivò in Francia solo nel 1986. È probabile che, se ciò fosse avvenuto,  egli si sarebbe più appassionato al lavoro che aveva per le mani e ci avrebbe messo più impegno. Come si fa a non rimanere colpiti dalla puntata 20, dalla 28, dalla 37, e comunque da tutta la serie almeno dalla metà in poi? L’anime di “Versailles no bara” è un capolavoro sovranazionale, e chiunque ne verrebbe conquistato. Tra l’altro, rispetto al manga, è anche più adulto e più vicino a un punto di vista occidentale, e dunque più facile da capire e da condividere.

Invece di questo, successe, comprensibilmente, il contrario: cioè che i registi dell’anime, e in particolare Osamu Dezaki, videro il film live e ne trassero degli spunti, ripensandoli però in modo personalissimo.

Nonostante possa sembrare strano e sia in genere poco noto, fu il film di Demy, per esempio, il primo a chiamarsi “Lady Oscar” (il che è tra l’altro ben motivato dal fatto che fu girato in inglese, ed è il personaggio di Fersen che per primo - e unico, per quanto mi consta - si rivolge nel film alla protagonista chiamandola così, subito dopo aver realizzato che è una donna); e ciò ancora prima che l’anime venisse prodotto e distribuito in Europa con quel titolo. Cioè è il film il primo a formalizzare una cosa che era già da tempo evidente, e cioè che la vicenda narrata è la storia di Oscar e non della regina Maria Antonietta, come avrebbe voluto la Ikeda: cosa che fu poi ripresa dal cartone animato.

È nel film di Demy (e non nel manga e nemmeno nella versione teatrale del Takarazuka) che, per fare un altro esempio, alla scena d’apertura della nascita di Oscar troviamo in attesa fuori della stanza il gruppo delle sorelle maggiori, poi opportunamente eliminate dalla storia se non per un breve riferimento a parole, gruppo che è presente anche nella prima puntata dell’anime, e che spiega in modo icastico, meglio di qualsiasi discorso, le motivazioni del generale.

 

Più avanti, in una scena in cui incontriamo Rosalie, troviamo la vetrina infranta per rubare il pane nelle vie di Parigi che ritroveremo, intensamente drammatizzata, in una fase molto avanzata della serie animata nella gestione Dezaki. La scena in cui André vede per la prima volta Oscar in abito da donna, nella toccante espressività che conosciamo della versione Dezaki-Araki (puntata 25), molto più che dal manga (dove ha una caratterizzazione addirittura comica), credo sia suggerita dal volto smarrito e quasi attonito di Barry Stokes (André) con le spalle al muro davanti alla porta improvvisamente apertasi della camera della sua amata, che gli appare dinnanzi in tutta la sua femminilità. Uno sguardo che per me regge il confronto con l’anime venuto dopo.

 

Che poi la battuta: “You’re beautiful...” sia quello che è, e che di fatto la bellezza in questione, più che essere beautiful, sembri una meringa con la parrucca, è cosa secondaria davanti alla buona idea e alla riuscita espressività dell'attore, che è notevole e infatti verrà proposta anche da Dezaki, con una successione nello storyboard di tre sguardi di André per la quale io vado matta e che comunque fa venire il coccolone a chiunque la guardi.

  

Questi sono solo alcuni spunti, ma citerò altri passi per esemplificare i miei argomenti nel corso di questa trattazione.

 

E così Demy, che non poteva aver visto l'anime per motivi cronologici e quasi sicuramente non aveva neanche letto il manga (al massimo lo avrà nervosamente sfogliato negli episodi salienti della versione giapponese, che nella sua interezza fu tradotta solo molti anni dopo[3]), con solo la sceneggiatura in mano, il bagaglio della sua esperienza, qualche idea sul plot e le sue convinzioni già pronte e ben radicate sulla Rivoluzione Francese, si accinse a fare il film dando alla vicenda il taglio che più gli sembrava plausibile, e ne fece qualcosa di completamente diverso da ciò che essa era in origine.

Jacques Demy era francese, teniamolo ben presente: sebbene una logica di superficie possa suggerire che dalla sua nazionalità il film dovesse trarre dei vantaggi, al contrario fu proprio questo, ne sono convinta, che gli impedì di assumere la giusta prospettiva nei confronti della storia che stava per raccontare. I Francesi hanno le loro idee ben precise sulla Rivoluzione, su Maria Antonietta in particolare e anche sugli eventi in generale, e il loro giudizio storico, così come la loro solidissima vulgata a riguardo, sono profondamente condizionati da schemi che, oltre  che del sentimento nazionale, risentono probabilmente – per lo meno a livello di opinione corrente ai tempi di Demy – di una certa alterazione ideologica. Come sempre avviene per chi in certi eventi è direttamente interessato e da essi sa che derivano tutta la sua storia e la storia del suo popolo, la prospettiva da cui i fatti vengono valutati è diversa e talora meno lucida di quella che può assumere un esterno, formatosi sullo studio spassionato dei documenti. La Maria Antonietta dolce, delicata e sensibile della Ikeda - documentata oggi storicamente e certo veritiera seppur con tutti i suoi limiti e la sua sconfinata ottusità - dovette sembrare una bestemmia nel 1978 a Demy (seppur egli s'investì mai del problema), ed è per questo che il personaggio più stravolto di tutti nell'opera cinematografica è proprio lei: in “Lady Oscar” del 1978 Maria Antonietta è la regina delle brioches, la frivola damina che con la sua presunzione e la sua stupidità irrimediabile affamò il popolo francese. E questo senza possibilità di riscatto, senza alcuna problematizzazione: con uno schematismo così evidente da lasciare quasi stupiti, oggi.

Ho l'impressione che difficilmente un francese dei tempi di Demy, a meno che non facesse di professione lo storico, avrebbe accettato di sostituire questi pregiudizi con le letture altrui, seppur fondate su solide basi documentali. E forse avrebbe rifiutato con sdegno se gli fosse stato chiesto, sentendosi per (comprensibile) orgoglio nazionale anche in diritto di giudicare e correggere le visioni diverse. Basti pensare a quello che  venne fatto ancora anni dopo Demy con la traduzione dell’anime in Francia, dove - quando l'opera fu portata da Fininvest sull'onda del successo italiano -, venne nominata addirittura una commissione storica, la quale stabilì che non era ammissibile a quei tempi che una donna comandasse soldati: così gli adattatori francesi ebbero la felice pensata di far credere a tutti, tranne pochi intimi, che Oscar fosse un uomo fino alla puntata 38. E tutta una serie di splendidi dialoghi andò a farsi benedire, tipo André che appena pestato dice “Oscar, non ti sposare”, frase rivelatrice che nella versione francese sparisce, o il colloquio sul ponte tra André e Alain della puntata 32, e il ruolo, appunto, di Alain che viene per conseguenza enormemente ridimensionato ecc[4].

Insomma, per tornare al film live, è per questi motivi che in esso tante cose furono stravolte: e non solo la figura di Maria Antonietta, che il regista ebbe il vezzo di volere interpretata da un'attrice austriaca, così come volle un attore svedese per il conte di Fersen, senza curarsi però di rappresentarli in modo più complesso e problematico. Dipendono proprio da questa impostazione anche due aspetti ben più significativi dell'opera, e cioè l'aver voluto che Oscar fosse rappresentata come una persona debole - perché aristocratica e perennemente in bilico tra le sue insicurezze e le sue convinzioni sbagliate di aristocratica - e che André, in quanto figlio del popolo, già solo per questo incarnasse la coscienza collettiva di tutta la nazione francese, e fosse rappresentato come politicamente ben più maturo, ben più adulto di lei: un rivoluzionario in pectore fin dall'inizio, che a un certo punto lascia perfino di sua volontà il servizio di Oscar (cosa inconcepibile per il personaggio ikediano e dezakiano) per unirsi a Bernard e Rosalie partecipando ai loro piani per l'uguaglianza. Bisogna dire che lo fa dopo aver conosciuto Girodel che gli propone ammucchiate con la sua bella e quindi è in parte giustificato.

Si unisca a ciò anche il fatto che la regia risente di un certo maschilismo di fondo, il che non è l'ideale per un film che fa la storia di una donna in un ruolo maschile. Si noti che mai, in Demy viene detto espressamente che Oscar comanda i suoi soldati: in una delle scene iniziali, su annuncio del padre, la nostra eroina entra a far parte delle Guardie reali; verso la fine, la regina la trasferisce su sua richiesta ai Soldati della guardia al comando del generale Bouillé. E sempre, in entrambi i ruoli, essa è trattata con grossolana ironia dai suoi sottoposti, comportamento che è del tutto incapace di rintuzzare. Che differenza con la Oscar che conosciamo, che infila un coltello con pericolosità millimetrica alla cintura di un soldato impudente, sempre disponibile a dimostrare in duello la sua superiorità di combattente! La povera e graziosa Catriona Maccoll non sa nemmeno montare a cavallo da sola, purtroppo...

In breve, il regista si è preoccupato ben poco di approfondire le vere ragioni della vicenda, la psicologia dei personaggi, il conflitto interiore di Oscar, donna in un ruolo maschile, e il conseguente complesso rapporto con l'altro sesso e con André (come fece invece successivamente Dezaki). E questo essenzialmente perché quello che gli interessava non era affatto capire la storia della Ikeda, ma raccontare la sua storia, la sua Rivoluzione francese: quella che aveva studiato a scuola e che era cara alle sue convinzioni.

Altra forte riserva va poi espressa sulla protagonista.

Salvo pochissimo di Catriona Maccoll, che fu scelta dopo un gran numero di provini ma per parte mia è forse l'interprete meno azzeccata di tutti. Certo, il suo era il personaggio più difficile da trovare, perché probabilmente incarnare alla perfezione l'eterea, forte e bellissima Oscar non è cosa umanamente possibile, e noi tutte lo sappiamo bene... Oscar è un'idea platonica, più che una donna: è un archetipo, e gli archetipi vanno bene disegnati, ma quando acquistano carne e ossa perdono fascino. C'è da dire che ci sono vari gradi nell'imperfezione e l'ex ballerina poi passata all'horror che impersonava Oscar li percorre tutti: per lo meno in questo film (dei successivi cui partecipò so poco quindi non mi pronuncio[5]) è ben lontana dalla sufficienza. A parte l'essere mezzo metro più bassa e tre taglie più larga delle fattezze presunte della nostra eroina, non sapeva muoversi in scena, andare a cavallo (ha sempre bisogno di qualcuno che la issi sul suo bianco destriero, sul quale caracolla sbilenca in equilibrio molto precario), e soprattutto non sapeva recitare: parafrasando un celebre giudizio di Sergio Leone su Clint Eastwood (che però aveva tutto un altro carisma), Catriona ha solo due espressioni, con la parrucca e senza parrucca. Bisogna dire peraltro che la fanciulla, al naturale, aveva un bellissimo viso, capelli morbidi e un intenso sguardo azzurro: ma un conto è fare la bella statuina in fotografia e un conto trasmettere delle emozioni interpretando una parte. Inoltre il trucco di scena e i costumi la rovinarono: le furono imposti dei toupet posticci che sapevano di fasullo lontano un chilometro e delle divise turchese fosforescente che secondo me vennero importate direttamente dal Giappone, prese in blocco dagli spettacoli del Takarazuka insieme alle parrucche. E non dimentichiamo gli imperdibili stivaloni girocoscia che la nostra indossa per tutto il film anche quando va a letto, che vorrei capire proprio come sia venuto in mente a quei geni dei costumisti. Probabilmente i canoni estetici o il modello fissato nella mente delle fanciulle giapponesi che sarebbero andate a vedere il film - e a cui si volle venire incontro - erano quelli del Grand Romance[6].

 

Tant'è: Oscar doveva oltretutto fare da testimonial alla Shisheido che era lo sponsor e quindi appare con labbra rosse perfettamente disegnate e un trucco impeccabile da gran sera anche quando fa a botte o tira di scherma, il che depone certo a favore del suo beauty case, ma con un colonnello donna in servizio permanente effettivo c’entra come i cavoli a merenda.

 

Detto tutto questo, e considerando che si potrebbe dire anche altro, capisco che uno possa chiedersi cosa mai io possa aver trovato di buono nel film di Demy e stia cercando di convincere il malcapitato lettore a vederlo.

Ebbene, critiche a parte, comincio col dire che, paradossalmente, forse è proprio il distaccarsi di Demy da un modello che sarebbe comunque stato per lui improponibile che ci regala dei ritagli emotivi, degli spunti narrativi apprezzabili. Forse è proprio l'attitudine del regista europeo a una maggiore resa realistica dei personaggi, e talora sono addirittura le sue idee preconcette su certe cose, che indirettamente ci offrono qualche inattesa e suggestiva prospettiva di lettura. Nella stessa rappresentazione dei caratteri dei protagonisti, sulla quale ho già espresso sopra il mio disappunto. Occorre una forte predisposizione al collage, intendiamoci, e la capacità e la pazienza di tollerare e scremare le decine di sciocchezze che si incontrano a ogni piè sospinto per concentrarsi sulle parti migliori. Forse occorre aver visto il film più di una volta, non fermandosi alla prima desolante visione. Ma vale la pena, a mio parere.

 

Ho detto che salvo poco di Oscar, ma voglio aggiungere una annotazione a suo favore che ritengo importante: questa lettura “fragile” del suo personaggio, la dolcezza che trapela dai suoi sorrisi, la sua ingenuità, la maggiore disponibilità che ha verso André sono belle da vedersi, e in certi momenti molto toccanti. Fanno da contrappunto, per noi, alla Oscar fin troppo dura che abbiamo conosciuto nell'anime: è delicata nel riconoscere con Maria Antonietta che le manca solo una cosa per avere dei figli anche lei, e cioè “un uomo”; fa piacere sentirle dire sommessamente: “Mi manchi, André”, in quel dialogo tra loro nelle scuderie di Versailles che è una delle parti migliori di tutto il film; e quel “Ti amo” che pronuncia alla fine, prendendo coraggio davanti a lui.

È proprio grazie a questa dolcezza di Oscar, che si trova solo qui, che ci viene fatto il dono prezioso di una grande intimità tra lei e André, di un legame antico che in nessun altro luogo ufficiale fuori di questo film[7] essi riconoscono costantemente in modo così consapevole e intenso. Ecco un esempio tratto dalla scena della sera antecedente al duello di Oscar col duca: Oscar e André stanno discutendo in camera di lei, da soli. Lui è arrabbiato, non vuole che vada all’appuntamento, dice che la parola “onore” non vale la sua vita, qualunque cosa sia, e che lui non la farà andar via. La visione del film in inglese qui è fortemente consigliata[8]. Non avrei mai creduto di dirlo, ma, ascoltando Catriona in inglese, alcune sue battute sono più accese e credibili di come appaiono nel doppiaggio della pur bravissima De Carolis. Ecco il testo (i corsivi sono miei e riproducono l’intensificazione del tono di voce e gli accenti):

André: “You can’t go, you cannot go! I won’t let you go. I’ll tie up you if I have to. But I will not let you go” (“Non puoi andare, non puoi andare! Io non ti farò andare. Ti legherò se dovrò farlo. Ma non ti lascerò andare!”)

 

Rumore alla porta: è il generale che sta per entrare. Oscar apre un ingresso segreto nella parete e

fa entrare André in un nascondiglio. Il generale e Oscar parlano del duello: il padre le dona le pistole e,

al contrario di André, non si mostra affatto preoccupato per la sorte della figlia. André sente tutto

da dentro il suo nascondiglio e, quando il generale se ne va, esce in silenzio e fa per andarsene, amareggiato. Ma Oscar, seduta sul letto, lo ferma:

Oscar: “André, stay with me tonight, like you used to. Things were so simple then, and they’re

so  complicated now”.

André “We can’t turn back the clock. We’ve grown up”.

Oscar: “Please, stay...”

(“André, resta con me stanotte, come facevi sempre. Le cose erano così semplici allora, e sono

così complicate adesso”. André: “Non possiamo far tornare indietro l’orologio, siamo cresciuti”.

Oscar: “Per favore, resta...”)

 

Gli chiede di rimanere in un sussurro commovente, allora André china il capo e resta. Si sistema su una chaise longue della stanza e veglia Oscar che dorme sul letto tutta la notte. All’alba si riscuote e nella penombra si avvicina a lei, la osserva dormire. La sua espressione è toccante, trasmette esattamente il suo rendersi conto di quanto l’ama. Ritorna indietro alla poltrona.

E dopo il duello, che Oscar vince, commenta con quest’unica frase, in un misto tra sollievo e rabbia, per la consapevolezza di ciò che ha rischiato: “I thank God it wasn’t you, Oscar”, “Ringrazio Dio che non sia stata tu (a morire)”.

Dove altro abbiamo mai veramente visto Oscar e André che passano insieme la notte in questa casta e struggente intimità, se non forse nelle fanfics che a centinaia abbiamo scritto noi sull’argomento in seguito? Quello che voglio dire è che è proprio questo carattere più dolce di Oscar che ci permette di osservare un’intesa, una relazione privata tra lei e André, che non ci è stata regalata altrove in questi termini. Nel film il loro amore è qualcosa che è sentito come quasi naturale, seppur con la sbandata di Oscar per il conte di Fersen, e André mostra chiaramente di sapere dentro di sé che lei gli appartiene, che lo ama. Cosa che è presente anche nell’anime, certo, ma in maniera più tormentata e insicura. È affascinante questa certezza che André mostra in Demy che Oscar non possa che amarlo, che lei sia sua, e che non se ne renda conto solo a causa delle convenzioni sociali impostele: è una certezza giustificata dall’intimità che i due protagonisti hanno per tutto il film. Al momento della dichiarazione André glielo rimprovera espressamente, con una frase durissima e amara che lei però accetta: “I don’t pity myself because that love isn’t returned. I pity you for being unable to return it” (“Non compiango me stesso perché questo amore non è ricambiato, compiango te perché sei incapace di ricambiarlo”[9]).

 

 

Lei del resto non era stata da meno quanto a durezza, poco prima: tutta la scena è giocata intenzionalmente sul registro della differenza di classe. Diversamente da come appare nel nostro doppiaggio, il modo assolutamente sorpreso in cui Oscar reagisce al bacio di André è piuttosto credibile, perché dà proprio l’impressione di una “difficoltà psicologica”, di una incapacità di Oscar di accettare l’idea che tra lei e André possa esserci un legame per la distanza sociale che li separa. La qual cosa fu voluta da Demy e può essere certo criticabile da parte nostra (ma non trascuriamo il fatto che nel 1700 tale prospettiva non dovesse essere poi così campata in aria): però è verosimile, nel momento in cui viene rappresentata:

André: “I love you Oscar”.

Oscar (sconvolta): “You have no right...”

André: “Oh, you’re wrong. I do have the right. I’ve loved you for my entire life and I have the right to keep on loving you”.

(André: “Ti amo, Oscar”. Oscar: “Non hai il diritto...” André: “Oh, ti sbagli. Io ho il diritto. Io ti ho amato per tutta la mia vita e ho il diritto di continuare ad amarti”).

La sceneggiatura può lasciare un po’ a desiderare, è vero, ma c’è del pathos e il messaggio, il discorso portato avanti, sono chiarissimi.

Subito dopo queste parole, il rapporto di intimità tra i due riemerge in modo addirittura commovente. Nella versione italiana André dice: “Sei addolorata perché hai saputo che Fersen ama un’altra?” Ma nell’originale in inglese non è così: André parla di Fersen a Oscar definendolo: “your new person”. La tua nuova persona, intraducibile nella nostra lingua: la nuova persona che ami, il tuo nuovo amore: non io, che lo sono sempre stato.

E poi ancora, quando parla di come ritornerà al silenzio dopo il bacio rubato, dice di se stesso: “I’ll be the invisible stable boy, and you’ll be the brave toy soldier”. Il ragazzo invisibile della stalla, il che mi fa una struggente tenerezza (soprattutto quell’“invisibile”, che nel doppiaggio sparisce), ancor più se penso che subito dopo Oscar lo abbraccia e gli dice: “Tutto deve tornare come prima, tra noi”, e lui risponde sì, ma com’è triste questo per tutti e due. “I’m very sad”, mormora ancora. E, mentre lei se ne va, non le dice: “Non t’importunerò più”, ma “I’ll never touch you again, I promise” (“Non ti toccherò più. Lo prometto”). Che è tutta, tutta un’altra cosa.

Questi sono alcuni esempi tratti da una scena cruciale, ma penso che l’intimità tra Oscar e André sia presente fin dall’inizio, anche nelle schermaglie delle prime scene.

A un certo punto, nella parte iniziale del film, Oscar - turbata da un incontro con Fersen a Versailles - nella carrozza si chiude in un mutismo ostinato e non risponde alle domande di André che sta guidando. André la rimprovera da fuori (traduco dall’inglese): “Così non parli, eh, Oscar? Hai deciso che non è più il caso di parlare con la servitù?”

Ma Oscar non risponde, caparbia. E allora lui si lascia andare a un meraviglioso: “My God, I hate you when you ignore me!” Dio, ti odio quando mi ignori[10].

 

 

È per questo, per provocare la sua amata, che il giovane, subito dopo, rivolge a una implorante Rosalie che cercava di vendersi alle carrozze di passaggio uno sfacciatissimo: “How much?” (“Quanto vuoi?”). Non per cafonaggine, ma per smuovere Oscar, che infatti si volta indignata e - dimentica del mutismo di poco prima -, lo rimprovera: “André, how dare you?” (André, come ti permetti?)

Ottenuto il suo scopo, André salta giù dalla carrozza sorridendo e commenta ironico: “So, you found your voice at last!” Oh, hai ritrovato la voce, finalmente!

Una schermaglia amorosa in piena regola, e fin dalle scene iniziali. Che trovo adorabile. Senza contare il risvolto serio della discussione, che sul finire si fa molto profonda: “Perché non mi hai detto che la gente a Parigi muore di fame?”, gli chiede Oscar. E lui, serissimo e con totale confidenza - come un intimo, non certo come un servo - , le risponde e la rimprovera: “Why didn’t you look? Why didn’t you see? We travelled these streets a thousand time, hunger isn’t hide, it’s everywhere”. “Perché tu non hai guardato? Perché non hai visto? Siamo passati per queste strade mille volte, la fame non è nascosta, è dappertutto”.

 

Forse la Oscar del cartone e quella del manga non avrebbero permesso queste confidenze ad André, ma io sono contenta che la Oscar di Demy gliele permetta.

 

Certo, bisogna dire che la riuscita di queste scene dipende soprattutto da lui, da André. Dall'attore che lo interpretò, Barry Stokes, che per me, checché se ne dica, è l'interpretazione più riuscita di tutte quante.

So che un'autorevole scuola di pensiero – per la quale nutro il massimo rispetto – dà all'André di  Demy del vaquero [11]. Che è un epiteto esilarante, dal quale, pur nel personale dissenso sul merito, affermo che siamo stati tutti arricchiti. Mi sbellico sinceramente dalle risate, schiatto lealmente d'invidia per la genialità definitoria, ma esprimo qui il mio disaccordo pressoché completo. È comprensibile che il personaggio costruito da Barry Stokes, proprio per il suo maggiore realismo, per una certa rudezza nel porgere alcune battute, per il confronto col nostro modello rappresentato dall'André composto e rispettoso dell'anime, venga sentito come più “duro” nel film, al punto da ricordare a qualcuno un cowboy ante litteram. Soprattutto se si ascoltano i dialoghi nella versione inglese (che comunque, come ho già spiegato, consiglio vivamente insieme al doppiaggio italiano, perché aggiunge dei significati preziosi all'insieme) in cui le parti degli uomini – in particolare il protagonista e il generale, che in inglese è marziale da far paura – risultano più aspre che nella nostra versione[12].

 

 

Però questa durezza a mio parere è un pregio, un “di più” offerto dal film, insieme a tutta la caratterizzazione del personaggio: che, seppur discostandosi un po' dall'André a noi più noto, aggiunge alla sua figura un tocco di verità, di passione e di “virilità” che non mi dispiace affatto. Indubbiamente in questo giudizio entrano i miei gusti personali in fatto di uomini, perché forse questo piglio un po' più deciso era quello di cui sentivo la mancanza nell'André della serie (che comunque adoro): ed è anche a ciò che mi riferivo parlando, all'inizio di questo saggio, di “esigenze di lettura del pubblico alternative alla codificazione canonica”. Ma, gusti personali a parte, se l'aver indebolito Oscar a livello narrativo mi pare sia stato un errore, l'avere un po' rafforzato André credo sia stata, entro certi limiti, una trovata felice, che amplifica le risorse e le potenzialità del personaggio: se si prescinde, naturalmente, dal fatto che questa caratterizzazione era fondata, nell'ottica di Demy, su delle pregiudiziali ideologiche, come ho scritto più su. In ogni caso l’André del film è per me una figura riuscita non tanto perché più “maschio”, quanto perché più vero, e il protagonista dimostra, oltre alla indubbia prestanza fisica, anche una buona capacità interpretativa.

Non so se sia perché il confronto con la recitazione della Maccoll fa risaltare di più la sua maggiore bravura, il fatto che lui fosse un attore e lei una ballerina prestata al cinema[13], non so se a condizionarmi sia un pregiudizio favorevole nei suoi confronti, ma secondo me Barry Stokes è stato molto bravo e questo film si regge quasi interamente su di lui, che interpreta il personaggio meglio riuscito.

Fin da quando vidi la prima volta il film “Lady Oscar”, il giorno di Natale del 1982 (all’epoca lo avevo atteso spasmodicamente e me lo sorbii resistendo stoica anche se il canale della mia regione che trasmetteva i programmi di Italia Uno ci inzeppò dentro senza esagerare un'abominevole ora e mezza di pubblicità); fin da allora, dicevo, mi piacque il personaggio di André. E mi ritrovo con compiacimento a rendermi conto, rivedendolo oggi, che quell’impressione antica non è affatto mutata. È vero che al tempo, appena finita la prima programmazione della serie animata da noi, ero così infanatichita  da Lady Oscar che pur di vedere un film su di lei mi sarei bevuta anche Massimo Boldi come protagonista. Però André mi piacque sul serio allora e mi piace adesso. Anche qui il confronto fisico con la minuta[14] Oscar gli giova, indirettamente, perché Barry ha due pregevolissime spalle, un fisico asciutto ben valorizzato dai panni dello scudiero, che veste con estrema disinvoltura. Ha anche un bel viso, per sovrappiù: un naso diritto e lineamenti regolari, occhi espressivi.

 

Certo, se poi il vostro André perfetto è l’efebo delicato coi capelli lunghi, allora certamente questo André non vi piacerà. A me piacque per il motivo opposto, o meglio perché trovai  - e trovo tuttora - che incarnasse un buon compromesso tra un aspetto virile e un contegno beneducato, che è proprio quello che mi figuro come ritratto ideale di André.

Non mancano, è vero, alcune rigidità, ma secondo me Stokes sapeva recitare: certe espressioni rimangono impresse, come quella che ho già descritto, quando passa la notte nella stanza di Oscar prima del duello, e si alza a guardarla con il cuore in subbuglio mentre lei dorme. O nel dialogo alla taverna, quando hanno bevuto tutti e due; lei ha appena ucciso in duello, è molto turbata per questo e dice: “Risolvi questo enigma, André: ora che ho imparato a parlare, a camminare, a vestire come un uomo... sì... e a pensare, anche a pensare come un uomo... perché non posso uccidere come un uomo?” Lo dice quasi con rabbia, e lui la guarda e risponde semplicemente: “Perché tu non lo sei”. “Che hai detto? Ripetilo!”, lo sfida lei. E André, per nulla intimidito, la guarda fisso e dice: “Perché tu non sei un uomo” (in questo caso preferisco il doppiaggio italiano di Massimo Rossi: aggiunge una sfumatura intensa, soprattutto nell’ultima battuta).

Oppure quando si parlano nelle scuderie di Versailles, quando lei è passata ai Soldati della Guardia e lo ha respinto. Lei gli chiede perché non stanno più insieme, perché non mangiano, non parlano insieme, perché “you keep running out of the door when I come in” (te ne vai, quando io arrivo): “Mi manchi”, mormora poi, disarmata (“I miss you”).

André risponde pacato: “Non è quello che volevi?”. Eccoci qui, respiriamo la stessa aria, viviamo negli stessi luoghi, ci perdiamo (“missing each other”)

 

E quando Oscar, legata ancora alla sua educazione aristocratica, dice che sono diversi, che ci sono cose che li separano, lui risponde: “Separati, diversi? Ma non ti accorgi invece che siamo uguali?” (“Oh, Oscar, can’t you see that we’re equal?”).

Uguaglianza è una bella parola, obietta lei, ma le cose non stanno così. “Sì, ma dovrebbero essere così[15] - replica André -. In America l’uguaglianza esiste. Un uomo è libero di amare chiunque, in America: non si sente dire che non ha il diritto”. Oscar osserva allora che per ottenere questo molte persone hanno dovuto pagare con la vita. E André dice che sarebbe felice di dare la sua per l’uguaglianza dei Francesi. “Than you will have nothing, you’ll be dead...” (“E poi non avrai niente, sarai morto”) risponde lei accorata. “I would have everything - afferma sereno lui -. Through my death, my life would have grat meaning” (“Avrei tutto: attraverso la mia morte, la mia vita avrebbe un grande significato”). Ma Oscar è terrorizzata dalla prospettiva, ribatte ansiosa: “And what would I do, without you?” (“E io cosa farei, senza di te?”). André , voltato verso il cavallo, risponde semplicemente “You will do what you have to do, anyway”. Poi si gira verso di lei e la guarda sorridendo: “You will find your own dream” (“Farai quello che devi fare, comunque: inseguirai il tuo sogno”). [16]

 

 

Sarà una magra consolazione, ma quando mai abbiamo sentito Oscar e André dirsi cose come queste? Vogliamo forse perdercele? Sia nell’originale che, comunque, nelle interpretazioni dei meravigliosi Cinzia De Carolis e Massimo Rossi?[17]

A parte il “Ti amo” netto e sincero che le sentiamo finalmente dire (che comunque fa sempre piacere), ascolteremo André mormorare, rivolto alla nonna, “Non voglio perderla” (“I don’t want to lose her, Nanny”).

E più tardi, le parole delicate che le rivolge, annunciandole che tuttavia andrà a unirsi ai rivoltosi: “Oscar... io non vorrei lasciarti” (“Oscar I... I don’t want to leave you”).

E quando lei dice che lo seguirà (“Verrò con te”) risponde: “No... no (in una successione di due dinieghi, il primo subitaneo, il secondo dolce e ponderato, pronunciato scuotendo la testa leggermente). Se ti perdessi non potrei più vivere” (“No... no. I couldn’t go on if I lose you”).

 

Belle anche le parole trepidanti di lei in risposta: “That’s the chance we take, isn’t it? That’s what you said is all about. I love you, André[18]”, che gli fanno cadere il filo di paglia che ha in mano per abbracciarla e baciarla e preludono alla scena d’amore.

Scena d’amore che purtroppo si svolge nelle scuderie: e qui, tra la Ikeda che - da saggia donna - li posiziona in un comodo lettone (ma a casa di Oscar), Demy che li fa stendere su un vecchio giaciglio in mezzo alla cantina e Dezaki che li fa consumare in un bosco infestato da rivoluzionari, i nostri eroi, per la serie «‘O famo strano», stanno cominciando a collezionare un rispettabile campionario di locations per la loro prima volta (bisogna osservare tuttavia che la stalla ha un valore simbolico importante nel film: basta mettere a confronto la scena iniziale di Oscar e André bambini che vi si rifugiano con la scena in cui da adulti vi si ritrovano per confessarsi i propri sentimenti).

Bella, comunque, anche la frase “Ora hai bisogno di tutto il tuo coraggio” (“Be brave. Now is the time you must be brave”) che apre la scena di cui sopra, sebbene purtroppo quel “Be brave” chiuda anche il film (in inglese, in italiano è stato saggiamente cassato) proveniente come voce dall’Oltretomba dal povero André neodefunto mentre Oscar, che ha preso un senso unico e se lo è perso, lo cerca disperatamente in mezzo alla folla festante e danzante al suono della Carmagnole per aver preso la Bastiglia (peraltro con un manipolo di rivoltosi).

Mi piacciono anche certi gesti, di André: il modo in cui l’abbraccia da dietro nella cucina di palazzo Jarjayes trattenendola e attirandola a sé, poco prima che lascino la dimora insieme; il modo sicuro e deciso con cui punta la spada contro il generale per portarsi via Oscar[19], il gesto lento e dolce con cui depone l’arma, su richiesta di Oscar.

 

La faccia da schiaffi che rivolge a Girodel che gli propone di passare al suo servizio quando Oscar sarà sua moglie[20], e André gli getta il contenuto del suo bicchiere sul viso e risponde: “Non so se sarebbe una buona idea, signore: come vedete il vino mi rende molto villano” (bellissima, tra parentesi, anche la risposta di Girodel: “Potrei estrarre questo stiletto dalla manica e piantarvelo nel cuore, e sarebbe legittimo. Ma essendo io un raffinato, preferirò vedervi morire lentamente”. Il che dice tutto su quanto André ami Oscar, perché davvero morirebbe lentamente se lei sposasse un altro, e su come questo sentimento si veda, da fuori).

 

 

 

Lo sguardo che fa, profondamente turbato, quando passando dalla sua stanza vede per caso Oscar che si spoglia, e il suo seno nudo dalla fessura della porta. Si ferma a guardare, un istante, poi torna indietro, in silenzio, scosso e tormentato.

E bello, bellissimo soprattutto il modo in cui l’accarezza con gli occhi quando la salva dai soldati che sono stati imprigionati per non aver sparato sulla folla: come la cerca ansioso nel gruppo, entrato coi cittadini nelle prigioni, come si rasserena quando la individua da lontano e le sue labbra si distendono in un sorriso, come sospira e volge gli occhi al cielo in silenzio dopo averla riabbracciata, mentre la stringe a sé. Con quale turbamento e dolcezza la tiene quando lei gli si butta tra le braccia, come se fosse consapevole di quanto l’amore che prova per lei sia in grado di spezzarlo, come se conoscesse e sentisse tutta la propria fragilità, in quell’abbraccio.

Tutti questi sono particolari preziosi, che non possono non essere apprezzati da un cultore della nostra storia. E pazienza se bisogna ingoiare la presa della Bastiglia con cinquanta comparse e le torri di cartapesta, e la ridicola rissa nella taverna con cascatori che zompano da ogni parte e Oscar che si sbraccia dando pugni come un manichino da tornei[21], una cosa che starebbe bene in un film di Bud Spencer[22] con tanto di sonoro dei cazzotti.

 

Voglio spendere due parole anche su alcuni personaggi non protagonisti.

Maria Antonietta. È vero che è frivola e sciocca, ma io la trovo divertente in questa ricostruzione di Demy: è un personaggio frizzante che tiene bene la scena. Per certi modi di porsi l’attrice austriaca Christina Böhm (prematuramente scomparsa poco dopo aver girato il film) ricorda le interpretazioni da oca seducente di Marylin Monroe. Bisogna anche dire a onor del vero che forse, almeno in piccola parte, questo personaggio recupera alcune cose della realtà storica, seppur cadendo nell’eccesso opposto.

Fersen (lo svedese Jonas Bergström) è un altro che non mi dispiace: è un bell’uomo, nonostante la parrucca candida che indossa per copione, ha bei lineamenti e occhi azzurri, e trova anche il giusto dosaggio tra fascino, cortigianeria e mascolinità. Credo che sia molto azzeccato nel suo ruolo. Sì, ha perduto la profondità che aveva (non del tutto, però: c’è un dialogo con Oscar nel parco in cui non è poi così frivolo come sembra), ma anche in questo caso ha recuperato parte della sua identità storica: è notorio che fosse un tipo mondano e pieno di amanti, e che con esse (comprensibilmente) s’intrattenesse nei lunghi intervalli tra un incontro e l’altro con la regina.

 

Girodel, che è la persona il cui ruolo è stato più stravolto dal film di Demy, qui non è affatto un educato giovin signore pretendente alla mano di Oscar, di temperamento un po’ altezzoso se vogliamo, ma in fondo generoso e buono di cuore: piuttosto è un dissoluto libertino che chiede in moglie Oscar perché l’ha riconosciuta in abiti femminei al ballo di Versailles e brama iniziare la sua seducente purezza ai raffinati piaceri della carne. Il nostro Vampirodel non si tira indietro davanti a nulla: né a rifiuti solenni, né a colpi di teatro di Oscar (che si presenta a casa sua in abiti maschili e bacia sulla bocca per scioccarlo le damigelle che le vengono a tiro), né a docce di vino rosso a cura di André, né perfino alla prospettiva che la sua promessa, piuttosto che sposare lui, sposi preferibilmente il suo cane (“beh, non sarebbe divertente se succedesse questo?” le dice suadente sfiorandola con le labbra con le mani posate sulle spalle di lei). Egli si accosta alla sua amata, la sfiora, la lambisce e l’afferra, per poi lasciarla andare e riprenderla nella promessa di nuovi approcci, in un misto ben dosato di sopruso ed affettazione. Notevole (attorialmente parlando, naturalmente). Dite quel che vi pare, lo so che non c’entra niente col Giro di Dezaki e di Madame Ikeda, ma a me sta simpatico da morire: è un personaggio riuscito nel suo genere, e si vede (soprattutto dal confronto con Catriona) che l’attore è un altro di quelli che sanno recitare. Del resto è il bravo Martin Potter, che già si era distinto per aver vestito i (succinti) panni del protagonista Encolpio nel celebre “Fellini’s Satyricon”.

Il generale. È vero che nella versione italiana sembra un “cumenda”[23]. Ma è anche il modo in cui è stato doppiato in italiano, appunto: più lento, pacato, con meno frasi. Provate a sentirlo nell’originale inglese, con quella sfilza di frasi che infila con voce stentorea: cavolo, mette paura!

Soprassediamo su Nanny e sull’inutile Rosalie che però qui ha il grande pregio di non frignare e di essere rappresentata per quel che Rosalie certo era, una ragazzetta del popolo molto sveglia. Senza contare - come dicevo più su - che è con un impudente “Quanto vuoi?”, rivoltole intenzionalmente davanti a Oscar, che André cattura l’attenzione della sua bella che manco lo degnava di una parola fino a un secondo prima.

Luigi XVI (Terence Budd) secondo me qui è rivalutato rispetto al manga all’anime: è meno stupido di quanto sembra, e ha capito benissimo che cosa succede tra la sua consorte e lo svedese, il che lo rende, seppure sempre cornuto, un po’ meno tonto e mazziato dell’insulsa figura che conoscevamo.

Non dimentichiamo infine la colonna sonora del film, che è ad opera di Michel Legrand, il quale era uno che sapeva il fatto suo e accompagnò Demy come musicista per buona parte della sua strada di regista. Il tema principale è pregevole, e anche quelli secondari meritano tutto il nostro rispetto.


Ciò detto, e sviscerato come volevo da fare da tempo immemorabile l’argomento, concludo e riassumo con la perorazione finale.

Bisogna vedere il film di Jacques Demy perché:

 

a) NON ESISTE che un autentico fan di Lady Oscar non abbia visto e non conosca bene l’unico film nella storia che è stato a lei dedicato. E questo indipendentemente dal fatto che sia bello, brutto, non rispettoso della vicenda, vecchio, cretino, ecc., e che si desideri ardentemente vederne girato uno nuovo e migliore. Ciofeca o non ciofeca, questo film s’ha da vedere, e questo è quanto.


b) Anche se nel complesso è una vera schifezza di film, ci sono parti che si possono salvare, piccole frasi estrapolate qua e là che meritano di essere sentite, situazioni suggestive che nel manga e nell’anime non troviamo e su cui si può fantasticare sopra, espressioni (di André) che meritano davvero. Insomma, bisogna avere predisposizione per il patchwork, ma certe cose si possono salvare, raccogliere e conservare.


c) È cosa che si dice sempre, ma è vero, tutto sommato, che vedere la vera Versailles fa sempre piacere, soprattutto con dentro i nostri eroi (cosa che non è mai accaduta nella storia se non qui).


d) Se non lo vedete, come fate a farvi un’idea vostra e a parlarne con cognizione di causa? E noi vegliarde con chi ne parliamo più?


E per dimostrare che non sono la sola pazza a pensare qualcosa di buono di questo film, riporto il breve giudizio contenuto nel famoso Dizionario di Cinema Morandini:

 

“Film fallimentare[24] su commissione, ma non senza qualità: grazia registica, raffinatezza di scene e costumi, una certa ricerca di conciliare un decoro europeo con un ritmo all'americana.”

 

E dunque, buona visione a tutti!

 

pubblicazione sul sito Little Corner del settembre 2011

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Mail to alessandra1755@yahoo.it

 

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[1] Il film costò infatti quattro milioni di dollari e fu finanziato dal colosso della cosmesi Shiseido.

[2] Il servizio, del 1 ottobre 1978, è tuttora visionabile sul sito http://www.ina.fr/ al seguente indirizzo: http://www.ina.fr/art-et-culture/cinema/video/CAA7801340801/film-jacques-demy.fr.html. Il regista vi spiega che non girava da 5 anni perché i film musicali che proponeva non interessavano a nessuno, che i pochi produttori cinematografici rimasti hanno difficoltà finanziarie e ciò li rende prudenti nel fare investimenti. Aggiunge che non c'è più alcuna audacia nel cinema francese. L'intervistatrice domanda poi se secondo lui un giorno in Francia si potranno produrre film di qualità a basso budget e con sceneggiature intelligenti. Demy risponde che se lo augura e che è ciò che cerca di fare a sua volta (dice che ha appena terminato un film di quel tipo, ne dà il titolo, e che deve solo lavorare al montaggio). Grazie a Marina - cui devo questo riassunto - per il suo supporto.

 

[3] Del resto, anche se fosse stata a disposizione di Jacques Demy una traduzione integrale del manga della Ikeda, credo che il regista francese ci avrebbe capito abbastanza poco.

[4] Se a qualcuno interessassero dettagli sulla differenza tra le due versioni in questi episodi, ne ho riportato delle traduzioni parallele (in francese) in questo sito, come note a piè si pagina della mia versione francese di “Prima che ti chiami amore”: http://digilander.libero.it/LittleCorner/Fanfics/Alessandra/avant_que_je.htm

[5] Pare comunque che successivamente sia divenuta un'icona del cinema horror-splatter col regista italiano Luigi Fulci.

[6] È questo il nome dello spettacolo su “Versailles no Bara” messo in scena con grande successo in Giappone dalla compagnia teatrale femminile Takarazuka, in cui tutti i ruoli sono interpretati da donne.

[7] Tralasciando quindi le migliaia di fanfics internazionali in cui viene fatto far loro di tutto.

[8] Il dvd del film live “Lady Oscar” edito da Yamato la offre, anche se i sottotitoli nella nostra lingua non traducono esattamente le parole inglesi ma riportano la versione italiana.

[9] Che differenza con la versione italiana: “Non piango se questo mio amore non è ricambiato. E non ti rimprovero per lo schiaffo che mi hai dato”. Il che cancella totalmente uno snodo cruciale nell’impianto della scena.

[10] Che, di nuovo, non è come il pur bello: “Non ti sopporto quando non rispondi” del doppiaggio.

[11] Appresi questa impareggiabile definizione da Luana, ed essa è a sua volta derivata da un suo carteggio con Laura: l’origine è una pubblicità che Laura vide e importò dalla Spagna nel 1982 - associandola al nostro povero Barry -, con un tizio in piedi, con pantaloni e cappello da texano, e il rombante slogan: “Fuente vaquero”.

[12] La versione italiana si avvale, per il doppiaggio, delle voci “storiche” dei protagonisti: i principali restano Cinzia De Carolis (Oscar), Massimo Rossi (André), Laura Boccanera (Maria Antonietta), Luciano Roffi (Fersen). Poi ci sono Susanna Fassetta (che doppia però Rosalie mentre nell'anime faceva Jeanne), Giorgio Locuratolo (Robespierre), Franca Dominici (Nanny), Serena Spaziani (Polignac), Oliviero Dinelli (Bernard Chatelet). Cambia invece la voce di Luigi XVI (Maurizio Iardo invece di Marco Guadagno). Quanto al generale Jarjayes, fonti in rete affermano che si tratti di Romano Malaspina, ma l’informazione non pare essere corretta.

[13] Le loro carriere, poi, non andarono come avrei immaginato, giacché Catriona ebbe un discreto successo in pellicole abbastanza note per un certo periodo (http://www.imdb.com/name/nm0531529/), ritirandosi dal cinema nel 2004, a quanto affermano fonti in rete, per aprire un hotel rurale in Francia (che Catriona avesse aperto questa attività lo diceva Phil Fasso in un'intervista che segnalammo nel vecchio blog, linkando Icons of Fright: dal post del 19 marzo 2010
http://blog.littlecorner.it/post/1207133889/Icons+of+Fright+-+link+a+intervista+Catriona+Maccoll#commentil); un video recente di Catriona potete trovarlo qui: http://www.cultcollectibles.com/catrionamaccoll/. La carriera di Barry, invece, si spense gradualmente tra alcune parti più significative al cinema e in TV (in precedenza aveva interpretato un episodio di “Spazio 1999”, due della serie “UFO.”), particine minori e perfino qualche ruolo da comparsa, finché egli si ritirò abbastanza presto dal mestiere - del 1985 il suo ultimo ruolo - anche per motivi di salute (qui la sua scheda personale su IMDb http://www.imdb.com/name/nm0831312/). Attualmente vive in Canada: nel febbraio 2009 ha perso il figlio trentaduenne Matthew, morto dopo una lunga malattia, che aveva intrapreso anch’egli la carriera di attore.

[14] Minuta si fa per dire, visto che è alta 1 m e 69 cm, ma Barry Stokes, essendo un marcantonio di 1.87, la sovrasta  -giustamente e proporzionalmente - di un palmo (grazie a Laura per i dettagli decimali!).

[15] “It’s the way things could be”: potrebbero, nell’edizione originale.

[16] Ci ho messo parecchio a capire cosa dicesse esattamente André in quel punto, e ho fatto le ipotesi più inverosimili su quello che poi si è rivelato un “own” (continuo comunque a pensare che questa battuta sull'inseguire i sogni sia una sonora sciocchezza, mentre la gestualità è bellissima). Ringrazio vivamente l'utente Thunder Sleeps, answeriano doc di Yahoo answers inglese, per aver risolto in cinque minuti netti e con precisione un dubbio che mi stava angustiando da un giorno intero, e l'utente Tztrtztr che ha avuto la gentilezza di fornire anche la resa italiana!

[17] Qui succede una cosa suggestiva per la doppia dissonanza incrociata della voce di Oscar - più dolce in originale e più severa in doppiaggio - e di André, che viceversa, è più aspro in inglese è più “morbido” in italiano.

[18] Se non traduco male: “Questa è la nostra occasione, no? Questa è l’unica cosa che dicevi che contava... Ti amo, André”. Il che in ogni caso è ben diverso dalla resa italiana: “Anche questo fa parte del gioco, e c’è una cosa che devi sapere: io ti amo, André”.

[19] La quale, qui, per inciso, viene battuta a singolar tenzone dal babbo tra le mura domestiche, dimodoché la drammatica scena del tentativo di “sacrificio espiatorio” del generale per restaurare l’onore infranto dei Jarjayes viene fatta fuori.

[20] Il conte, promesso sposo di Oscar e qui nei panni del libertino, assicura ad André che - conoscendo quanto è legato alla sua futura moglie - lo accoglierà generosamente nella propria dimora come servitore della contessa, anche in considerazione del fatto che lo trova molto carino.

[21] Detto anche “Marguttu”.

[22] Questa similitudine più che mai calzante la devo a un sms di Laura: mi ha fatto sbellicare dalle risate quando l’ho letta e quindi la propongo qui per la gioia dei lettori.

[23] La definizione fu data dall’utente Ozzy in un topic del forum larosadiversailles.it.

[24]  Suppongo fosse questo l’originale, giacché sul web si trova ovunque “film alimentare”, cui non riesco proprio a dare un senso (a meno che non sia “elementare”).