Per gentile
concessione
dell'autrice
 
 
L'intervento alla conferenza del 1-6-2000
della Prof.ssa
Ines Testoni

“Crisi del soggetto e renassaince della psicologia culturale”


Ruberò pochissimi minuti all'incontro di oggi, per continuare e riprendere la presentazione di Chiara Levorato – “anima” del gruppo “Psicologia e letteratura” nell'ambito delle cui iniziative si inscrive questo momento di studio. Il suo intervento introduttivo ha sottolineato l'importanza del tema relativo al declino del rapporto “soggetto-oggetto” nella storia non solo della scienza e delle teorie della conoscenza ma specialmente della psicologia contemporanea. I temi che verranno trattati in questa giornata seminariale, che vede come protagonisti studiosi illustri – invitati da Maria Armezzani, alla quale rivolgiamo un caloroso ringraziamento per aver dato vita a questo appuntamento – richiamano infatti tale imponente argomento, lasciando trapelare come testimone occulto colui che convenzionalmente è considerato il padre della psicologia scientifica: Wilhelm Max Wundt. A lui ci riferiamo per indicare non solo l'apertura del primo laboratorio sperimentale nel 1879 a Lipsia, ma specialmente per evocare il suo mastodontico impegno riguardante la Psicologia del popoli (X voll., 1900-1920), opera in cui prende risalto il suo secondo e meno celebre contributo intellettuale, quello ossia dedito all'investigazione dei rapporti tra filosofia, cultura e psicologia. Nella prima metà del Ventesimo secolo e anche oltre, fino agli anni Settanta almeno, di questo “Padre”, a suo modo “venerando e terribile”, si è riconosciuto il grande valore relativamente ai temi che hanno permesso alla psicologia di essere scienza, ovvero all'aver decretato con il metodo sperimentale il punto di non ritorno con cui si è determinata l'individuazione della psicologia, resasi indipendente da altre forme di esplorazione dell'uomo. Ciò ha decretato la momentanea “rimozione culturale”, direbbe forse Sigmund Freud, dei risultati concettuali di Wundt che azzardavano la promozione di un confronto dialettico con tematiche filosofiche e culturali in senso stretto.
Da quando la psicologia è nata come scienza, gli sforzi per sostenere la sua separazione dalla filosofia sono stati costanti ed efficaci tanto da comportare il rischio che gli psicologi non siano sempre coscienti di rispettare, al fondo delle proprie posizioni, teorie filosofiche. La difficoltà è generata dalla confusione che intercorre tra metafisica e filosofia; se la psicologia si è definitivamente affrancata dalla metafisica, altrettanto non si può dire dei rapporti che essa intrattiene con la filosofia contemporanea, ossia con il pensiero che evidenzia il declino della metafisica, sostenendo la stessa autonomizzazione della psicologia. È infatti innanzitutto all'interno del discorso filosofico, sottolinea Emanuele Severino, che tramonta la volontà di fondare inconfutabilmente una verità immutabile e incontrovertibile (quello voluto dal sapere epistemico e metafisico). È dunque la filosofia contemporanea che stabilisce le coordinate di fondo grazie alle quali la scienza – forma di conoscenza primariamente ipotetica – viene considerata come il sapere più potente dell'epoca attuale. Da questi risultati è nata l'esigenza di parlare dell'uomo in senso scientifico, posizione dalla quale è derivata dall'Ottocento in poi la volontà di considerarne anziché l'“anima”, come tutta la tradizione del pensiero epistemico e metafisico ha fatto, qualcosa di meno nobile e inafferrabile, ma più facilmente descrivibile nelle sue cangianti modificazioni: la “psiche”.
Se all'inizio del Ventesimo secolo la discussione epistemologica era vivissima all'interno di tutte le scienze e specialmente in campo psicologico, tanto che il neopositivismo informava delle proprie tematiche sia la Gestaltpsychologie sia il comportamentismo e le discipline da tali ceppi derivate, una volta assunti alcuni perimetri di fondazione, la psicologia ha di fatto continuato a osservare quei principi, dimenticando in parte il senso della loro origine – che consiste appunto nella radicalizzazione della critica rivolta alla tradizione filosofica, ossia al pensiero epistemico-metafisico, che intendeva trattare dell'assolutezza della verità. Ma la filosofia contemporanea non si è fermata nel proprio sviluppo al neopositivismo; tra le varie correnti di studio antiepistemiche e antimetafisiche possiamo ricordare il grande territorio ulteriore relativo alla corrente della filosofia analitica e linguistica, che ha in parte determinato l'evoluzione dello stesso neopositivismo. Da tali studi hanno preso ispirazione alcune correnti di ricerca psicologiche, che non fanno della sperimentazione di laboratorio e dell'osservazione quantitativa la base delle proprie indagini. Solo a titolo d'esempio ricordiamo il settore di ricerca – nato all'interno sia della cosiddetta svolta linguistica sia del pragmatismo – relativo all'analisi del discorso e della conversazione; indirizzo che con estrema lucidità teorica ha saputo definire il proprio ambito, ricollegandolo alla filosofia di Ludwig Wittgenstein e ai suoi epigoni – tra cui ricordiamo John Langshaw Austin, Paul Grice, Peter Frederick Straawson, John Roger Searle –, al pragmatismo sociologico dell'etnometodologia di Harold Garfinkel e alla sociologia microinterazionista di Ervin Goffman. Questi studi, di cui Rom Harré, Kenneth Gergen, Mary Gergen, Michael Cole, Jerome Bruner sono esponenti di prim'ordine, hanno permesso che gli orizzonti della psicologia potessero considerare i paradigmi sperimentali neopositivisti non come prigioni inespugnabili, peggiori delle roccaforti invalicabili costruite dai principi epistemici e metafisici, ma come una delle possibili strategie attraverso le quali la scienza costruisce i propri oggetti di studio, consapevole altresì di non aderire ormai più a paradigmi rigidamente “realisti”, ossia fondati sulla convinzione dell'esistenza di una realtà oggettiva che subisce passivamente le intrusioni dell'esplorazione scientifica. Ciò comporta che oggi non tutta la psicologia corrisponda ai paradigmi della sperimentazione, ma una parte sempre più consistente si spinga al di fuori di essa, seguendo gli esiti del continuo sviluppo filosofico e intrattenendo con lui un proficuo scambio teorico per progettare nuove strategie metodologiche di indagine.
Accanto al momento storico in cui Wundt si dedicava alla Psicologia dei popoli, nei primi decenni del Novecento, lavorava un altro nostro testimone occulto, il grande Lev Vygotskij, il quale, nonostante le avversità di regime che dovette dolorosamente subire, fondò con Aleksandr Romanovic Lurija e Aleksej Nikolaevic Leont'ev la Scuola storico-culturale, orientamento psicologico attento all'ineludibile funzione giocata dai fattori socio-storici e culturali nei confronti degli oggetti di studio psicologici. Possiamo quindi dire che dai suoi esordi fino ad ora la psicologia ha mantenuto come alter ego, forse nascosto o più semplicemente secondario rispetto alle prospettive rigorosamente ed esclusivamente sperimentaliste, una dimensione capace di declinare la ricerca scientifica secondo le istanze provenienti dai complessi contributi che la più ampia cultura offre. E proprio perché la psicologia è ormai senza più alcuna ombra di dubbio considerata a tutti gli effetti una “scienza autonoma”, essa può riprendere a confrontarsi con altre discipline che incrocino il suo cammino, senza temere di perdere indipendenza nella definizione dei propri costrutti teorico-applicativi, tornando a vivificare quelle indicazioni che i primi maestri già tracciavano agli esordi dell'ultimo secolo del secondo millennio. È forse anche per questo che oggi viviamo un'interessante parificazione tra gli approcci più squisitamente empirici e quelli culturalisti, grazie al prezioso lavoro offerto dalle proposte socio-costruzioniste. Non possiamo quindi dimenticare l'essenziale apporto di George Mead e dei suoi epigoni, fino a giungere alla rivoluzione innescata da Kenneth Gergen e da coloro che, sulla scia di un rinnovato interesse per i temi della cultura e della storia, hanno riscoperto il valore di Vygostkij.
Sono consapevole di aver liquidato con poche battute un territorio troppo vasto, sul quale si cimentano personalità illustri che meriterebbero di esser considerate più seriamente o almeno citate; non credo però che questo sia il momento migliore per approfondire tali tematiche, perché non potrei mantenere la promessa d'esser breve. Ma quel che è importante è già stato accennato, per dire che noi adesso ci collochiamo qui, in questo alveo di riflessioni, in una Facoltà di grande prestigio internazionale, capace di dimostrarsi all'altezza di tali fermenti intellettuali, grazie al lavoro di numerosi docenti che sanno imporsi all'attenzione della comunità scientifica con contributi innovativi nel senso appena indicato, pur senza voler sminuire l'ineclissabile valore che deve essere ed è costantemente riconosciuto alla tradizione più classica e convalidata della ricerca scientifica psicologica. Perché non sta nella contrapposizione “il” problema e neppure la sua soluzione: ma questo è un altro tema importante, che forse potremo affrontare in futuri incontri.
Dicevamo dunque che Chiara Levorato ha aperto la giornata sotto l'egida della crisi che investe il rapporto “soggetto-oggetto”, e la psicologia culturale accoglie portandolo fino alle estreme conseguenze questo tratto generatosi all'interno della gnoseologia, lungo il corso della filosofia moderna e contemporanea, e ripreso dalle più attuali teorie della conoscenza. Dire dunque che la psicologia si interessa di un tale tema significa non temere di rinnovare l'incontro con altri linguaggi, tra i quali emergono quello filosofico e quello artistico. È proprio la natura dell'oggetto della psicologia a richiedere un tale avanzamento, poiché è lo stesso uomo a presentarsi come entità fortemente diveniente e ricca di infinite possibilità di interpretazione, poiché – e da questo problema non possiamo per il momento uscire – è l'uomo che, come ricorda Martin Heideger, studia l'uomo e costruisce teorie su se stesso. L'uomo nella ricerca psicologica è inevitabilmente soggetto e oggetto del proprio pensarsi, ed egli si scopre nelle proprie infinite manifestazioni possibili.
Il Diciannovesimo secolo è stato perlopiù caratterizzato dalla volontà di spiegare secondo paradigmi causali forti gli eventi umani; ciò ha comportato la dipendenza delle incipienti conoscenze psicologiche da teorie biologiche e fisicaliste. Il Novecento ha successivamente decretato il relativismo come principio primo addirittura nel campo della fisica, mettendo in rapporto i temi della casualità con quelli della causalità. Tale fenomeno intellettuale è intrinsecamente legato al declino del principio epistemico delle “cause prime” (cause “necessarie”, ossia “immutabili” e capaci di resistere a qualsiasi “divenire”). La relativizzazione del concetto di causa e l'estensione del potere attribuito alla contingenza casuale si sono quindi accompagnate alla celebrazione della concorrenza di soggetto e oggetto nella costituzione dei fenomeni osservabili. Questo tratto ha in tal senso definito l'impossibilità di acquisire alcun sapere certo rispetto alla realtà, cosicché tutta la conoscenza è divenuta una rappresentazione probabile di qualcosa di giammai totalmente indipendente dall'atto dell'osservazione.
Possiamo di conseguenza certo dire che il declino del rapporto soggetto-oggetto è innanzitutto derivato dal toglimento della stessa idea di “realtà esterna al pensiero” (già ampiamente confutata dall'idealismo), ovvero di un'“oggettività” indipendente dal pensiero; ma altresì essa è il risultato della messa in discussione e quindi della stessa crisi del concetto di “soggetto”. L'impossibilità che esista una “oggettività” indipendente dal soggetto che la pensa è stato il grande progetto che ha coinvolto tutto il corso di sviluppo della filosofia moderna, inaugurata con la soluzione del dubbio iperbolico cartesiano. Infatti Cartesio, postosi dinanzi all'abisso terribile della possibilità di non aver certezza di nulla, risolse l'eventualità di una disgregazione assoluta del sapere fondando la conoscenza incontrovertibile sul “soggetto”. Ma la sua risposta alla minaccia estrema restituiva, contro qualsiasi scetticismo, attraverso il cogito, la possibilità della conoscenza imperniata sul logos, ovvero sul sapere certo e incontrovertibile della verità. Il soggetto pensante moderno, è espressione del logos ed erige ogni sapere sull'incontrovertibilità dell'episteme. Se il Novecento decreta il tramonto di questa dimensione della fondazione della conoscenza, dopo aver definito l'impossibilità di qualsiasi verità assoluta, è proprio da questa posizione che parte per determinare conseguentemente la crisi essenziale del “soggetto”.
È così che in ogni campo in cui si manifesta il pensiero, il soggetto viene destituito dalla posizione dell'assolutezza. Pensiamo per esempio all'arte. Fino all'Ottocento le raffigurazioni pittoriche e scultoree esprimevano – con i principi della prospettiva, con la declinazione delle gradazioni di colore che restituivano massa, spazio, luci e ombre all'oggetto descritto – la precisione di un istante dato e la posizione dell'osservatore tramite l'immagine evocata. Al soggetto – il pittore, lo scultore – perveniva il mondo con tutte le sue determinazioni per essere afferrato e reso immutabile attraverso l'opera d'arte. Era questo lo sguardo assoluto del “divino”, che conosce le leggi ferree tramite cui la materia prende forma e assume significato. Ricordiamo ora per converso la riflessione di Picasso, le cui immagini raccontano di un soggetto osservante che si perde nel divenire delle diverse posizioni ch'egli può assumere nello spazio, inafferrabile e impossibilitato a fermarsi per permettere ad alcuno di conquistare una posizione che stabilisca una prospettiva immutabile. Lo stesso accade in campo letterario. I romanzi ottecenteschi parlano di un soggetto che assume lo sguardo di Dio; il narratore è colui che conosce tutti coloro che sono coinvolti in un susseguirsi preciso di eventi; egli intende tutti i pensieri di ogni personaggio coinvolto, ogni sua azione, ogni implicazione, ogni causa e qualsiasi effetto. Il soggetto narrante osserva ogni particolare seduto sul trono dell'onniscienza. Nel Novecento entra in crisi la stessa forma espressiva del romanzo, che si fa sempre più breve perché ciò che è narrabile è ormai solo un frammento di quel che si vorrebbe dire; viene messo in evidenza primariamente l'uso del linguaggio che ha ormai perso i riferimenti centrali che ne definivano il senso rispetto all'assoluto. Colui che parla è immerso in uno spazio esperienziale infranto da infiniti scotomi, dove le principali azioni del pensiero sono quelle di ipotizzare un inizio e di rimandare oltre la narrazione qualsiasi conclusione. Il primo piano nel mondo letterario è ormai assunto dalla forma dell'interrogazione: si descrive per chiedere, non per affermare qualcosa. Ma di questo parlerò più diffusamente in un lavoro sul quale mi sto impegnando in questi anni. Ma non possiamo dimenticare che a cavallo tra Diciannovesimo e Ventesimo secolo sono proprio le riflessioni del neo-positivismo a mettere radicalmente in questione l'aspetto “essenziale” del soggetto. E la psicoanalisi se ne è fatta carico ottenendo grazie a questo elemento basilare un successo trionfale (infatti il soggetto freudiano è “vissuto da altro”, non è l'Io, è l'Es (egli), ciò che è vissuto dagli eventi pulsionali, il luogo più distante dal logos). Quando oggi si parla di “soggettivismo” pare che si intenda offrire una posizione privilegiata al soggetto, invece, e questa è la conclusione alla quale pervengo dopo questa breve disamina, si stanno chiamando in causa gli ultimi bagliori di una parola che perde sempre più la propria consistenza. Infatti diciamo che un'asserzione è “soggettiva” sia per darle il valore positivo consistente nel suo non porsi in una posizione assoluta, sia per ribadire parallelamente che non ha un grande valore perché comunque non ha ancora guadagnato l'approvazione del consenso intersoggettivo.
Ebbene, per concludere, la psicologia sta scoprendo di avere molte cose in comune con tali tratti fondamentali del sapere contemporaneo, ed è per questo che intende parlare di arte, di letteratura, senza per questo rinunciare ad essere scienza (ovvero, lo psicologo non è tale perché è pittore o scrittore, ma può assumere come campo di studio la pittura e la letteratura). E io partecipo volentieri ai momenti di incontro del gruppo di “Psicologia e letteratura”, perché in essi incontro l'interesse per l'accoglimento di questo nuovo tipo di esigenza di ricerca (la psicologia sta imparando a rifletter su se stessa, scoprendo di esser, come tutta la scienza, “cultura”).
Concludo dicendo che sono debitrice rispetto a molto di quel che ho detto nei confronti di Emanuele Severino. Devo altresì confessare di non aver affrontato il cuore delle ragioni indicate dal filosofo grazie alle quali è possibile affermare il declino del sapere espistemico e metafisico dal quale dipende il trionfo del sapere scientifico; ho infatti solo tangenzialmente accennato al concetto di “divenire” e sono debitrice nei confronti dell'uditorio per una tale forse imperdonabile mancanza. Ma avrei dovuto farmi coraggio e rubarvi molto più tempo, cercando una maggiore concentrazione.