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Laboratorio Letture di Psicoterapia Analitica. Spinea- Venezia

"La clinica delle Relazioni Oggettuali
tra psicoterapia e psicoanalisi classica"
intervista a
Dr. Stefano Bolognini

a cura di:
A.M. Favero - R. Folin - G. Spezzani

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"Ciò che prima è interpersonale diventa intrapsichico
e, in seguito, ciò che è diventato intrapsichico
si esprime nelle situazioni interpersonali"
A.J. Horner


Bologna, Settembre 1995.

Uno degli aspetti del modello pulsionale era quello di rendere conscio l'inconscio mediante l'interpretazione, in che misura, secondo lei, il modello proposto da Kohut ha ampliato questa visione?

Rispondendo con un'immagine di facile effetto si potrebbe dire che alla formulazione di Freud per cui “là dove c'è l'Es ci sarà l'Io”, con Kohut si potrebbe invece affermare che “là dove c'è un Sé frammentato ci sarà un Sé più coeso”. Un Sé che assorbirà una minore quantità di energia, economicamente, e che consentirà quindi all'Io di strutturarsi nella maniera più armonica e funzionale. Il lavoro di presa di consapevolezza dei contenuti inconsci viene parzialmente sostituito da un lavoro di trasformazione della aggregazione del Sé che consente, attraverso una certa presa di coscienza
1 ,una trasformazione dei livelli basali del Sé. In questo senso, quindi, amplia notevolmente la prospettiva precedente perché l'lo non è più il protagonista assoluto dell'esplorazione psicoanalitica ma diventa in questi casi un testimone e un collaboratore di un'operazione più profonda che è quella della trasformazione del Sé.

Con quali vantaggi e con quali limitazioni le teorie e gli insegnamenti cimici di Kohut possono, secondo lei, validamente applicarsi a una casistica che non sia propriamente quei/a dei disturbi narcisistici?

Questo è un punto sul quale si sta dibattendo moltissimo. La “Commissione per lo Studio delle Patologie Gravi in Psicoanalisi” di cui faccio parte, sta discutendo da quattro anni proprio sul problema dell'applicabilità delle teorie di Kohut, oltre che di altri importantissimi autori, ad una gamma di forme patologiche che non rientrano strettamente in quelle che erano state previste dall'autore di questa teoria. Ci sono dei colleghi che sostengono che i livelli basali di coesione del Sé sono implicati nella maggior parte delle patologie attuali e che quindi anche per quanto riguarda le psicosi, i borderline e le depressioni sia comunque quasi sempre in campo anche quest'area della formazione interna dell'individuo e che quindi un aspetto, per così dire, kohutiano nel trattamento sia sempre pertinente. Altri colleghi non la pensano cosi. Pensano ad esempio che dove è in campo la scissione come fondamentale meccanismo di difesa, il lavoro reintegrativo debba richiedere degli interventi interpretativi di tipo diverso. Per fare un esempio teorico potremmo dire che il lavoro interpretativo di Rosenfeld, come appare dai suoi scritti nettamente diverso da quello di Kohut, richiede all'lo del paziente una partecipazione ed una collaborazione cognitiva motto diversa: il paziente deve prendere consapevolezza delle sue scissioni con l'Io centrale e lavorare in senso riparativo utilizzando soprattutto l'Io. Nel modello di Kohut le scissioni sono meno importanti. E' più importante la mancanza di coesione. Il mio parere personale è che nella maggior parte della patologia grave tutti e due questi livelli sono implicati e che non si può lavorare solo con Kohut né ignorando Kohut.

Lei parlava di una patologia grave. in che modo il mode/io di Kohut potrebbe essere utilizzato anche per una patologia di tipo nevrotico?

La risposta a questa domanda è necessariamente generica. Nel senso che la personalizzazione dei singoli pazienti è un concetto verso il quale ci stiamo orientando sempre di più. E' sempre più difficile dare delle qualifiche univoche al paziente che viene a chiedere un trattamento. Si tende piuttosto a valutare in maniera accurata ogni singolo settore funzionale dei diversi livelli di personalità. Capita ancora di definire un paziente prevalentemente nevrotico o tendenzialmente borderline però questa divisione è meno netta di un tempo. Diciamo che per andare sul piano pratico della tecnica, per esempio, non c'è paziente oggigiorno verso il quale non capiti di lavorare un po' con Kohut, vale a dire fornendo un'empatia di tipo prevalentemente concordante verso i livelli bisognosi, feriti, del Sé di questa persona. Però è anche vero che con molti pazienti questo è l'atteggiamento più consigliabile e prevalente, con altri non lo è assolutamente anche se nel corso del trattamento vi saranno fasi di questo tipo. I pazienti, per esempio, nei quali prevale la scissione e nei quali ci sono delle sconnessioni interne particolarmente pronunciate non possono trarre vantaggio solo da un'empatia concordante, vale a dire che si sintonizza in maniera specifica sul vissuto soggettivo del paziente. Questi casi richiedono invece un tipo di contatto molto più articolato e complesso nel quale l'analista non si dispone immediatamente a immedesimarsi col nucleo egosintonico soggettivo del paziente ma resta attento a tutte le produzioni che sono ignote al paziente o in contrasto col suo vissuto egosintonico. Un'empatia complessa e articolata. In quei momenti non lavoriamo con Kohut, lavoriamo piuttosto, ad esempio, con Rosenfeld che percepisce delle intrusioni di parti del paziente non riconosciute dal paziente stesso che vengono messe dentro l'analista. Quest'ultimo, se è in buon contatto con se stesso, percepisce che c'è qualcosa di non suo dentro di sé, lo riconosce come qualcosa che proviene dal paziente, individua di cosa si tratta, cerca di formulare in maniera comprensibile questo qualcosa che gli è stato messo dentro e quando il paziente è in condizione di riprendere contatto con quel qualcosa di sé che aveva messo nell'analista, l'analista glielo propone. Qui non stiamo lavorando con Kohut. Potremmo dire, in linea di massima che la tecnica di Kohut è apparentemente più passiva in quanto si tratta di sintonizzarsi col paziente e di concordare in maniera molto morbida con lui lasciando evoluire la trasformazione del Sé che trova finalmente un ambiente empatico in cui poter progredire. La tecnica alla Rosenfeld, viceversa, presuppone una partecipazione molto più attiva dell'analista che interpreta in maniera significativa e che propone all'lo del paziente delle visioni nuove di sé. Sono due tecniche diverse. Oggigiorno è difficile lavorare con una sola di queste due tecniche se non si appartiene specificamente ad una ben precisa scuola di formazione.

Uno dei più significativi fattori su cui si basa la cura psicoanalitica, secondo la teoria
pulsionale, è di rendere conscio l'inconscio mediante un sistematico lavoro interpretativo.
Secondo la teoria delle relazioni oggettuali, quali sono i fondamentali fattori terapeutici?.
Cioè. che cosa veramente “cura”?

Beh, intanto dovremmo dire che come “teoria delle relazioni oggettuali” è molto difficile circoscrivere un unico modello. Moltissimi autori che possono rientrare sotto questa denominazione hanno proposto schemi e modelli diversi e quindi dovremmo immaginare una dimensione piuttosto allargata di interventi analitici che rientrino sotto questa denominazione. Cercando un comune denominatore fra le scuole che possono essere definite delle “relazioni oggettuali”, credo che scopo e strumento fondamentale della cura sia il concetto di “bonifica della relazione”. Vale a dire un lavoro complesso, svolto a vari livelli e con varie modalità di intervento che si prefigge di ridurre la quota persecutoria nella relazione con l'oggetto, ridurre l'importanza e l'entità delle scissioni, rivitalizzare là dove è possibile le aree morte dell'oggetto e della relazione con l'oggetto e, in definitiva, favorire le introiezioni o le reintroiezioni, a livello costitutivo profondo, di elementi vitali e amorevoli nella relazione. Questa come definizione molto ampia nella quale possono rientrare modelli più specifici di vari autori. Come questo venga effettuato è probabilmente un'impresa molto difficile da definire nel senso che i livelli di scambio tra analista e paziente implicati in questo lavoro di bonifica sono molto diversi. Noi sappiamo che ci sono dei momenti e delle situazioni nelle quali l'lo del paziente è felicemente collaborativo con l'analista nel senso che è in grado di comprendere molto bene quello che viene detto e di trasmettere al mondo interno del paziente stesso una convincente nuova visione delle cose. Sappiamo invece che ci sono degli altri momenti e delle altre fasi del lavoro analitico nelle quali l'lo del paziente viene quasi “bypassato”. C'è una trasmissione più diretta di elementi trasformativi che passa direttamente, potremmo dire, dall'orecchio del paziente al cuore del paziente. Non siamo assolutamente in grado di prevedere né di codificare, né di programmare attivamente quando questo può accadere. Possiamo però affinare la nostra capacità di percezione riguardo a quando questo accade, cioè quando sentiamo che il paziente è particolarmente aperto nei suoi canali interni di comunicazione, che il preconscio è particolarmente in contatto col profondo e con l'Io cosciente, che i canali alimentari interni del paziente sono abbastanza aperti. Quando noi sentiamo che le cose stanno così, allora sappiamo che possiamo lavorare con una particolare fertilità e che l'analisi diventa molto nutriente. Io paragono di solito queste circostanze felici a giornate di sole. Giornate nelle quali la nebbia, la foschia e le nuvole che potrebbero essere gli equivalenti simbolici di difese particolarmente arroccate, di strozzature nel canale alimentare, cedono il passo invece ad un sereno fruttuoso. Allora in questi casi noi sappiamo che possiamo proporre al paziente un lavoro più intenso del solito, più impegnativo e, se non commettiamo delle mancanze di tatto grossolane, possiamo contare su di una partecipazione ricca del paziente. In altre giornate in cui il clima, viceversa, è tempestoso, quando cioè aumenta la quota persecutoria, o grigio, quando cioè sono in ballo delle difese di tipo anestetizzante, allora non ci resta altro da fare che attendere sviluppi più favorevoli. In linea di massima però la bonifica di una relazione oggettuale è un'operazione che richiede lunghi tempi. Non ci si può illudere che per qualche giornata di sole le cose si siano sistemate. Per esempio, un buon inizio d'analisi è qualcosa di positivo ma non significa assolutamente che non si incontreranno delle bufere o delle tempeste. La bonifica la si verifica a distanza di molto tempo.

L 'ascoltare a lungo il paziente in modo autenticamente empatico, riducendo al minimo ogni interpretazione verbale diretta, può essere un fattore sufficiente a causare un effetto terapeutico? Può insomma bastare il solo clima transferaIe per apportare rilevanti e stabili modificare al mondo interno del paziente?

Questa domanda ci ricollega alla meteorologia affettiva ed emotiva della situazione analitica. E' stato Viederman, un analista argentino, che ha parlato di clima dell'analisi e di atmosfera della seduta. Egli ha individuato nel clima dell'analisi una caratterizzazione abbastanza costante della temperatura emotiva e della capacità illuminativa dell'Io nel corso del trattamento per cui ogni singola analisi ha mediamente un proprio clima caratteristico al quale concorrono, naturalmente, prima di tutto il paziente e poi, un po', anzi forse più di un po', il terapeuta. L'atmosfera invece è quell'insieme di elementi di temperatura e di visibilità che caratterizzano la singola seduta o addirittura fasi della singola seduta o, più ampiamente, di un trattamento. Durante tali fasi ci possono essere delle oscillazioni significative della metereologia emotiva della coppia al lavoro. Si capisce che l'ascolto empatizzante da parte dell'analista di solito contribuisce a migliorare clima e anche atmosfera del trattamento. Tengo a precisare che io non sono un rappresentante della Psicologia del Sé, pur avendo molto apprezzamento per le teorie di Kohut e ritenendo che non se ne possa fare a meno nel trattamento medio di un paziente. Oggigiorno noi non possiamo ignorare Kohut lavorando coi nostri pazienti. Però io non sono di formazione kohutiana e quindi ho un punto di vista abbastanza apprezzativo per certi aspetti e critico per altri. Un punto di vista critico è questo:
l'ascolto cosiddetto empatico è un concetto, secondo me, non così semplice e non così univoco come si tenderebbe a ritenere. L'ascolto empatico è, secondo me, una velleità. Ci possiamo disporre con il miglior intendimento di questo mondo ad empatizzare col paziente ma i fattori che contribuiranno a creare un'effettiva situazione di empatia sono per me molteplici, spesso imponderabili, non controllabili e non programmabili. E' certo che se un analista non si mette in condizione di voler lavorare fattivamente col paziente, sarà difficile che possa costruire qualcosa di utile, però da questo all'empatia ce ne corre. Secondo me, uno dei punti deboli della teoria kohutiana riguarda proprio la programmabilità dell'ascolto empatico. Empatizzare, a mio avviso, non è una cosa che si può fare a comando, è una circostanza che capita più che non un atteggiamento, un assetto di cui possiamo disporre dentro di noi. A meno che, per “empatizzare” non si intenda un sintonizzarsi concordante con una parte specifica del paziente. E forse qui si tratta di intendersi sui termini. Kohut, lo sappiamo bene, privilegia l'ascolto da parte del terapeuta di una parte specifica del paziente che è 1' homo tragicus, cioè la parte ferita dalla mancanza di capacità empatica del genitore in età precoce. [n questo senso, quando Kohut si dispone monitorando il vissuto di sé del paziente a sintonizzarsi specificamente con la parte ferita, compie un'azione intenzionale che ha tutta una sua dignità e una sua funzione. Rischia però di lasciare fuori campo tutto quell'insieme di parti e vissuti del paziente che il paziente stesso non riconosce come propri, che non sono collegati strettamente al suo vissuto di sé, ma sono oggetto di scissioni e proiezioni. Lì si sviluppò la famosa controversia tra Kohut e Kernberg, una controversia nella quale, a rileggerne i passi anni dopo, si può vedere che avevano buone ragioni entrambi e che non possiamo ignorare nessuno dei due contendenti. Le ragioni addotte erano ottime. Kernberg faceva notare che il campo di contatto dell'analista col paziente non può essere circoscritto al vissuto egosintonico del paziente e che, appunto, tutte le parti scisse e proiettate entreranno nel campo percettivo dell'analista un po' alla volta e spesso un po' per caso. In sostanza, le obiezioni mosse da Kernberg a Kohut erano di due tipi. Una riguardava una critica al concetto troppo univoco di narcisismo che Kohut aveva adottato. Kernberg sosteneva cioè che esiste un narcisismo mortifero, Rosenfeld avrebbe detto “distruttivo”, che non trae beneficio dall'ascolto empatizzante ma che richiede di essere individuato, esplicitato e trattato in maniera consapevole da entrambi i membri della coppia analitica perché non passibile di trasformazioni dall'interno attraverso l'ascolto empatico. Ovverosia, secondo Kernberg, il paziente dovrebbe essere responsabilizzato, messo al corrente delle proprie componenti distruttive. In questo senso Kernberg deriva dalla Klein questo tipo di assetto volto più all'interpretazione e anche al riconoscimento della qualità delle componenti del Sé. Secondo Kernberg il narcisismo distruttivo va dichiarato come tale al paziente, più o meno come secondo la tecnica kleiniana l'invidia va riconosciuta ed esplicitata al paziente il quale poi provvederà a collegarla alle sue situazioni interne ed esterne ed eventualmente a modificarla consciamente. Kohut invece ritiene che il narcisismo primitivo del paziente venga trasformato essenzialmente da una modalità di trattamento accogliente, tollerante ed empatica. Tale narcisismo evolverebbe per sua trasformazione interna trovando un pabulum adatto nel quale essere coltivato fino ad una sorta di autoriduzione spontanea. Un po' come la coda del girino che si trasforma per effetto di una crescita e di un'evoluzione e non per effetto di una castrazione. La seconda obiezione di Kernberg a Kohut riguarda sostanzialmente il trattamento delle parti scisse. Anche lì Kernberg ritiene necessaria una presa di coscienza in quanto ciò che è scisso e proiettato tende a sfuggire a una ricognizione empatizzante
2 . Concordando col vissuto egosintonico del paziente l'analista non si accorgerebbe di quello che il paziente gli attribuisce o addirittura gli fa vivere con l'identificazione proiettiva e quindi larghe parti dell'esperienza di sé del paziente non potrebbero svilupparsi. La reintegrazione e la reintroiezione sarebbero possibili solo attraverso l'interpretazione o quantomeno l'evidenziazione. Per Kohut invece il movimento spontaneo di reintegrazione del Sé avverrebbe più per sostegno empatizzante che non per interpretazione diretta. Dal mio punto di vista sono interessantissime entrambe le proposte. Sono convinto che vi siano delle situazioni in cui l'attività interpretativa risulta intrusiva e persecutoria e nelle quali invece un ascolto tollerante e facilitante rende il paziente più capace di riprendere contatto anche con le parti scisse. Credo anche che ci sia una tendenza reintegrativa spontanea nella vita mentale. Devo però dire che ci sono tante situazioni di lavoro nelle quali è facile che l'analista venga in qualche maniera irretito dalla porzione egosintonica del paziente e non riesca ad entrare in contatto con le parti scisse, siderate, proiettate e spostate. Questo non significa, ovviamente, che ci si trovi di fronte ad un piano criminoso del paziente.

Si può dire che la teoria de/le relazioni oggettuali sia più adattabile alla psicoterapia psicoanalitica, contrapposta alla psicoanalisi classica, di quanto non lo sia la teoria pulsionale? In altre parole, è corretto affermare che mentre i presupposti teorici e le applicazioni cliniche della teoria pulsionale assumono il loro pieno senso quasi esclusivamente nella psicoanalisi classica (quattro sedute la settimana sul lettino,), la teoria delle relazioni oggettuali può essere validamente utilizzata anche nella psicoterapia psicoanalitica (una o due sedute la settimana vis-à-vis,,)? Insomma, il superamento di un modello strettamente puisionale offre maggiori possibilità operative alla psicoterapia psicoanalitica?

Questa è una domanda difficile e impegnativa riguardo alla quale devo proprio specificare che il mio punto di vista è strettamente personale nel senso che sono convinto che molti colleghi darebbero risposte diverse da quella che darò io. Il mio parere è che si può dire che la teoria delle relazioni oggettuali sia più adattabile ad una psicoterapia psicoanalitica che non la teoria pulsionale. Ma si può dire, secondo me, per una serie di fattori complessi che adesso cercherò di esporre. La teoria pulsionale rischia di diventare un'informazione del paziente, cioè rischia di fornire al paziente delle informazioni sul proprio funzionamento interno che il paziente può trovare anche particolarmente interessanti o ingegnose ma che possono facilmente restare estranee all'esperienza interna, profonda, del paziente se non avvengono e si trasmettono m una situazione di relazione fra analista e paziente particolarmente partecipata, coinvolgente e tale per cui questi elementi vengono trasmessi al paziente in una condizione di autentica permeabilità interna. Se io dico al paziente che mi sta usando, per esempio, come un oggetto parziale per scaricare la sua rabbia e glielo dico in una situazione di chiusura o di distanziamento emotivo tra noi due, quella che può essere una utile rappresentazione della situazione interna del paziente che io cerco di trasmettergli, può rimanere un'informazione esterna all'esperienza in corso. Il paziente può dire: “beh, la ringrazio di questa notizia che lei mi dà, suppongo che lei abbia buoni motivi per dirmi tutto questo, credo che lei, avendo un'esperienza in materia, possa avere ragione, ci penserò... per il momento però è un'informazione come un'altra”. Altro è invece, nell'autenticità di un momento relazionale vissuto da tutti e due, sentir mettere in parole una cosa che si sente che sta effettivamente avvenendo. In questo senso, quindi, la ingegnosa topografia o economia o strutturalità freudiana, può essere utilmente comunicata al paziente proprio quando egli sta effettivamente vivendo quelle cose insieme al suo analista in un momento in cui non se ne sta difendendo troppo e quindi quando l'interpretazione giunge matura a dare un nome e una rappresentabilità a delle cose che il paziente sta già sentendo e che l'analista sta sentendo con lui. Allora, in quel momento, l'interpretazione è la ciliegina sulla torta, completa un'opera dando le parole alle cose. Se invece non c'è questa situazione relazionale, sappiamo che viene meno il timing, viene meno la scelta di tempo, viene meno il senso di verità che una buona interpretazione comporta. Allora, la domanda che potremmo porci è questa: è più facile che situazioni così partecipate e approfondite avvengano con molte sedute la settimana o con una sola seduta la settimana? La risposta è semplice: con molte sedute la settimana. Questo non toglie che ci siano dei trattamenti anche a una sola seduta settimanale nei quali si possano raggiungere momenti di altrettale e altrettanta autenticità e profondità. E' solo una questione di diversa probabilità e di diversa frequenza di questi accadimenti. Viceversa, quello che viene proposto dalle più moderne teorie relazionali
3 per cui, ad esempio, non è tanto il ricordare e la conoscenza del passato lo scopo fondamentale del trattamento ma il riconoscere ciò che accade nel presente e nella relazione attuale, magari utilizzando i riferimenti alla storia personale del paziente e utilizzando i suoi ricordi, in quelle teorie, dicevo, dove il focus è esattamente posto proprio sulla relazione in atto, io credo che in questo caso sia più facile e più frequente che un lavoro psicoterapico, ad esempio ad una seduta la settimana, possa attingere forza e partecipabilità comune. Devo però far notare che quando si va a toccare un punto vivo e nevralgico come quello della relazione nell' hic et nunc, non usufruendo di una base di continuità come in analisi, il tatto, il timing e la capacità immedesimativa del terapeuta devono essere ancora più acute, in un certo senso, che in analisi perché, in effetti, si lavora con una minore base di condivisione continua e si hanno anche minori possibilità poi di riparare gli strappi relazionali, le piccole ferite e i micro-traumi intra-seduta che si possono verificare. Da questo punto di vista, quindi, una psicoterapia richiede un'abilità non minore di quella richiesta da un'analisi.

La sistematica interpretazione delle resistenze e del transfert costituisce uno degli aspetti caratteristici della teoria psicoanalitica. Tuttavia, per poter essere attuato, tale lavoro interpretativo richiede, come si vedeva anche prima, metodi e tempi propri della psicoanalisi classica. E' possibile che una diversa visione dei fattori terapeutici, per esempio quella di Modell
4 o di altri teorici delle relazioni oggettuali, sia in grado di modificare tali metodi e tali tempi?


Questo è un problema molto antico. Tanto antico che ci riporterebbe addirittura, naturalmente parlando di fatti grossolani che non hanno a che vedere con le teorie attuali di Modell o dei relazionalisti, al problema dell'ipnosi. Il fatto se interpretare sistematicamente le resistenze e il transfert possa essere una condotta tecnica evitabile o no ci riporta al problema dell'ipnosi perché noi sappiamo che uno dei motivi per cui l'ipnosi non è ritenuta dalla maggior parte degli analisti una tecnica risolutiva è dovuto al fatto che anche se si acquisiscono importanti informazioni sulla vita interna o sul passato di una persona ma non si va a modificare la struttura dell'Io difensivo inconscio e quindi tutta l'attività resistenziale del paziente in seduta e dell'Io difensivo nel rapporto intrapsichico con le altre parti della persona, l'acquisizione di nozioni sul mondo interno rimane lettera morta. Potremmo dire, semplificando molto, che da un altro punto di vista uno degli scopi dell'analisi è quello di ampliare i canali interni di comunicazione tra le parti della persona, di fluidificare il passaggio dei contenuti attraverso il preconscio fino al conscio e di bonificare strutturalmente i rapporti tra Io, Es e Super-Io. Per fare queste cose non è sufficiente conoscere i contenuti ma è necessario lavorare anche sulla tonicità dell'Io difensivo inconscio che con le sue strozzature impedisce il passaggio intrapsichico delle emozioni o delle rappresentazioni. In questo senso, allora, il lavoro sulle resistenze dovrebbe essere e rimanere fondamentale proprio per allargare questa pervietà interna della vita intrapsichica. Però è vero che questo schema fondamentale è stato via via contestato con sempre maggior ragione da molti teorici. Kohut, secondo me, si colloca a un estremo opposto. Per quanto ne sappiamo, Kohut non interpreta attivamente le varie fasi evolutive del transfert ma si propone di lasciarle accadere e semmai di favorirne l'accadimento. Sono due cose diverse: già lasciarle accadere è un'impresa difficile perché, senza pensare alla persona qualsiasi che, messa di fronte ai fantasmi del Sé grandioso, irromperebbe subito sulla scena dicendo al paziente : “ma cosa ti salta in mente!”, già un analista di formazione diversa da quella kohutiana, non dico che irromperebbe ma perlomeno interverrebbe sulla scena o denotando, mettendo in evidenza, l'irrealismo delle formulazioni megalomaniche che possono venir fuori da un Sé grandioso che fiorisce nel corso di un trattamento, o quantomeno, e questo sarebbe già un atto di maggiore civiltà, andrebbe a ricercare i vissuti di indegnità, di inadeguatezza o di depressione che richiedono come difesa specifica lo sviluppo di una componente megalomanica e grandiosa. Kohut lascia invece capire che la miglior cura per gli aspetti grandiosi non è quella di una ricognizione del “perché” o del “reattivamente a che cosa” essi si siano formati, ma è quella di accoglierli e di non fuggire atterriti, né di scandalizzarsi, né di correre subito ai rimedi. La cura principale è proprio quella di accogliere questo Jourassic Park che il paziente sviluppa e di lasciare che la filogenesi venga ricapitolata e spontaneamente si risolva consentendo poi lo sgonfiamento spontaneo di queste forme. Dopo il Sé grandioso si arriverà ad una idealizzazione delle immagini parentali, il che già vorrà dire che, in qualche maniera, l'oggetto entra in scena investito naturalmente di una serie di aspettative e valorizzazioni che sono proporzionali al bisogno estremo di un Sé in difficoltà che deve poter contare su oggetti parentali dotati di grandi capacità e quindi un Sé che deve poter idealizzare l'oggetto. Avremo quindi un'idealizzazione dell'analista che non dovrà essere riportata ad un confronto con la realtà, non dovrà essere interpretata più di tanto ma dovrà essere lasciata accadere. Prima parlavo di “lasciar accadere” e di “favorire” come di due cose diverse. Effettivamente, il “favorire” ha qualcosa di più del “lasciar accadere”. Nel “lasciar accadere” l'analista può tacere o dare al paziente il conforto di un qualche fonema accetante tipo: “hum..., ah..., sì..., ecco..., appunto...”. Nel “favorire”, invece, l'analista può fare qualcosa di più quando riesce a sintonizzarsi effettivamente in modo empatico col paziente. Dicendo “quando riesce mi stacco un po' da Kohut che dice che l'analista “empatizza”. Io dico invece che si mette in empatia quando gli riesce. Per Kohut l'empatia è uno strumento, per me è un felice accadimento. Naturalmente non penso che l'analista debba essere deresponsabilizzato rispetto all'empatia. Intanto, quando questa si verifica, l'analista deve saperla riconoscere, apprezzare e far fruttare. Ed è anche vero che l'analista non può concedersi un tipo di attenzione fluttuante quando il paziente è gravemente sofferente ad un livello del senso di Sé che vada oltre certi limiti. Mentre con pazienti nevrotici l'analista che riesce a far fluttuare nella maniera più libera la propria attenzione ha più probabilità di entrare in qualche modo in contatto con elementi che non escono in modo diretto dal paziente, con pazienti che hanno gravi ferite narcisistiche l'analista ha, a mio avviso, il compito di fornire un'assistenza più mirata e più vicina al paziente. Non però fino al punto di costringersi a concordare del tutto egosintonicamente col paziente. Potrei dare un esempio clinico di questa diversa impostazione riguardo all'interpretare o meno le resistenze. Quando si sviluppano dei transfert speculari, cioè dei transfert nei quali il paziente è portato a ritenere che lui e l'analista condividano molte cose, al di là della realtà, e che la pensino allo stesso modo su certe cose, che sentano insieme delle cose e così via, Kohut suggerisce di apprezzare sostanzialmente il fatto che questo stia avvenendo: vuol dire che una parte molto nascosta e remota del paziente sta venendo allo scoperto, accetta di vivere , di manifestarsi e chiede solo di essere assecondata e accolta. Quindi l'analista non dovrà riportare il paziente alla realtà del fatto che sono due persone diverse, che possono avere due punti di vista diversi e che il paziente tende invece a uniformare a sé l'analista. Secondo Kohut dovrà, appunto, accettare, apprezzare o favorire questo sviluppo. Altri analisti, invece, interverrebbero dicendo: “guardi che lei sta cercando di fare in modo che io non sia una persona separata da lei, lei vuole che io sia un po' come lei, che siamo all'unisono e quindi non mi lascia la libertà di esistere autonomamente rispetto ai suoi pensieri”. Dal mio punto di vista, credo di aver riscontrato nella pratica clinica delle situazioni nelle quali Kohut aveva ragione e delle situazioni nelle quali, invece, avrebbero avuto ragione gli altri colleghi. Ci sono delle situazioni nelle quali la specularità è richiesta dalle tragiche condizioni del Sé del paziente. Ci sono invece delle situazioni nelle quali il paziente può a buona ragione essere definito manipolativo o, quantomeno, resistenziale perché non entra in campo tanto una ferita quanto una sorta di piacere nel costringere l'altro in una certa condizione. Naturalmente i sostenitori della prima ipotesi diranno che questo piacere si è costituito come difesa rispetto a situazioni insostenibili e il vero bisogno del paziente è appunto quello di sentire una univocità, una uniformità e una specularità. Io credo che vi siano delle situazioni nelle quali il piacere5 si fissa e, a quel punto, diventa fine a se stesso o, quantomeno, autogiustificantesi al di là del fatto che le situazioni primitive di difficoltà o di disgregazioe del Sé possano avere richiesto quella specifica modalità di relazione da parte dell'oggetto. Questo è uno dei motivi per cui, secondo me, ma in questo seguo il parere di Kohut, le perversioni non sono trattabili con la tecnica della psicologia del Sé. Là dove entra una componente narcisistica “alla Rosenfeld”, cioè del tipo distruttivo, il fatto di compiacere un transfert speculare può semplicemente rinforzare un'attitudine perversa di manipolazione dell'oggetto. Questo non toglie che ci sono invece delle situazioni altrettanto leggibili, e più o meno frequenti, nelle quali il Sé davvero non ce la fà, invece, ad avere a che fare con un oggetto separato che ha una vita e dei pensieri propri e ha bisogno di condividere un tratto di cammino con un oggetto speculare.

In che modo, oggi, la cultura e la pratica psicoanalitica sono influenzate dalla teoria delle relazioni oggettuali?

Mi verrebbe da prendere la domanda alla larga, nel senso che la storia del pensiero psicoanalitico è una storia fatta di successivi influssi e stratificazioni di nuove teorizzazioni che all'inizio vengono quasi sempre aspramente combattute e criticate, che danno luogo, se non a vere e proprie scissioni del movimento psicoanalitico, perlomeno alla formazione di scuole molto caratterizzate e spesso in conflitto tra loro. Salvo il fatto che poi molti degli strumenti, dei concetti, delle espressioni e dei termini di queste scuole col passare delle generazioni vengono via via accolti in tutta la comunità psicoanalitica internazionale. E' una sorta di vicenda familiare nella quale padri, madri, zii e zie vengono vissuti in maniera acutamente conflittuale dalle varie assi di discendenza ma vengono poi riscoperti e integrati dai nipoti e dai pronipoti che sentono meno un bisogno di affiliazione diretta o di lealtà scolastica e che tendono invece ad acquisire gli strumenti che giudicano utili. E' quello che, a mio avviso, sta accadendo adesso presso una larga parte delle generazioni attuali di psicoanalisti che stanno facendo un lungo lavoro integrativo di tutto quel bagaglio teorico-tecnico che aveva invece diviso in fazioni agguerritissime le generazioni precedenti. Credo che la cultura relativa alle teorie delle relazioni oggettuali sia già ampiamente in fase di integrazione al di là di quelle che sono poi le professioni ufficiali di credenza dei singoli analisti. Sia le formulazioni kleiniane riguardo alla relazione d'oggetto, sia le più recenti scuole relazionalistiche hanno ormai fatto entrare nel bagaglio di ogni analista una grande quantità di concetti e di strumenti. Anche se l'identificazione proiettiva suscita ancora delle resistenze o, in altri casi, viene abbandonata per nuove formulazioni
6 , tutto sommato capita sempre di più nella presentazione di resoconti cimici di sentir parlare della situazione analitica con un insieme di termini che mutuano da diverse scuole. Negli articoli di ordine squisitamente teorico viene invece mantenuta ancora una forte connotazione scolastica. Negli elaborati clinici, meno. Si vede che in realtà gli analisti utilizzano gli strumenti che di volta in volta si rivelano più utili. L'eclettismo è sempre stato fortemente criticato come una mancanza di identità e forse si può abbandonare la parola “eclettismo”. Potremmo dire che oggigiorno si assiste ad una progressiva integrazione degli strumenti. Cosa che, d'altra parte, è del tutto naturale perché assolutamente diversi sono i pazienti che giungono alla consultazione e sempre minore, come si diceva prima, è la tendenza a classificarli in maniera semplificata. Il lavorare con Freud, con la Klein, con Winnicott, con Kohut o via via con i più attuali maestri e colleghi, sta diventando una pratica sempre più diffusa per il semplice motivo che certi pazienti davvero ci richiedono e ci richiamano di più uno strumento e certi altri ce ne richiamano un altro. Con questo non vorrei però che andasse perduto un argomento positivo delle Scuole. Io ho sentito degli analisti kleiniani formulare delle interpretazioni assolutamente scolastiche, da un certo punto di vista, in situazioni che io forse avrei trattato diversamente, ma li ho sentiti farlo con un'efficacia specifica che si deve riconoscere loro.


Con la collaborazione dell'Ensamble ex allievi CERP, Venezia e Padova



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NOTE:

1) Nel lavoro di Kohut l'lo non è estraneo a quello che si svolge ma partecipa tollerando la comparsa sullo scenario mentale di formazioni e rappresentazioni grandiose. idealizzate di Sé e degli oggetti parentali. (Torna al testo)

2) In questo senso. Kernberg si avvicina di più al modello kleiniano e freudiano che basa sul lavoro dell'lo le possibilità maggiori di trasformazione del mondo interno. (Torna al testo)

3) Cito, come primo esempio che mi viene in mente, la formulazione di Mitchell che, secondo me è una delle più interessanti anche se, forse, ha ancora delle aree da mettere a punto: Mitchell 5. (1988), Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi, Boringhieri, 1993. (Torna al testo)

4) Modell A. 11. (1990), Per una teoria del trattamento psicoanalitico, Raffaello Cortina, 1994.
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5) Freud parla dell'lo che "prova gusto" alla difesa. (Torna al testo)

6) Adesso vanno molto di moda dei concetti come prompting (induzione) o tracking (trascinamento) che poi sono in pratica delle riproposizioni del concetto di identificazione proiettiva. (Torna al testo)