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La transizionalità nel rapporto terapeutico

Prof. Antonio Maria Favero

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8° incontro.


Oggi trattiamo un caso clinico in maniera molto circostanziata, cercando i riferimenti che ci interessano in base alle teorie e ai vari approcci teorici che abbiamo visto.
Come introduzione a questo caso vorrei leggere un e-mail che mi è arrivata in questi giorni di uno di voi che pone delle domande, delle considerazioni, rispetto al video di Bolognini, che trovo molto interessanti, quindi faranno da introduzione al caso di oggi.
Questa persona dice: “ per Kernberg il narcisismo distruttivo va esplicitato al paziente, cioè va interpretato, bisogna dire, tu stai in questo momento attuando un narcisismo di tipo distruttivo, quindi un narcisismo che ti isola dall'altro; mentre per Kohut è più utile agire in maniera da favorire la spontanea evoluzione verso la auto-bonifica, lasciamo che le cose vadano, dice Kohut, e poi in qualche modo si bonificheranno attraverso la relazione. Quindi, se Kernberg non permette al paziente di tenere in piedi delle difese, che il paziente non può abbandonare così facilmente, quando penso ad un narcisismo distruttivo, penso anche ad una difficile relazione del soggetto con la realtà, una relazione anch'essa con dei tratti di pericolosità per l'Io del paziente, a suo modo vissuta come potenzialmente distruttiva. Probabilmente la reazione di chiusura narcisistica assolve comunque una funzione protettiva, anche se può virare verso un'auto-esclusione, ed in tal senso racchiudendo il paziente in una condizione in cui egli stesso è luogo del bene e del male a se stesso “. La considerazione che viene fatta qui credo che sia quello che costituisce la “ linea del Piave “ tra le posizioni kohutiane e quelle di una psicoanalisi tradizionale che considera le difese e le resistenze, infatti la parola resistenza dà già l'idea di un conflitto, come atti che si oppongono al lavoro terapeutico, quindi vanno abbattuti, vanno buttati giù come se non servissero a nulla”. È un po' quell'atteggiamento di quei medici, o di quei genitori, che non appena il bambino ha la febbre trovano subito un modo per fargliela passare, in realtà la febbre non è una malattia, è semplicemente la difesa, serve, aumentando la temperatura del corpo, per abolire certi agenti patogeni, quindi l'eccessiva fretta di abbattere la febbre a volte può essere più dannosa del male stesso, ecco, egualmente in psicoanalisi, un'eccessiva tendenza ad interpretare le difese, ad abbatterle, come se le difese fossero dei fenomeni patologici, può essere poco opportuna come azione terapeutica. Opposto invece l'atteggiamento di Kohut che non considera le difese come entità negative ma le considera come modalità del paziente di relazionarsi con il mondo; quindi sono due posizioni estremamente diverse, l'una dice che la difesa è proprio la materia con cui la persona si relaziona con l'altro, quindi va rispettata, va sviluppata, va semmai emendata, bonificata, interagita nella relazione, l'altra posizione invece è quella di dire che la difesa va assolutamente interpretata. È chiaro che, per proseguire la metafora di prima, se la febbre è troppo alta è anche giusto intervenire perché si potrebbero creare danni irreversibili, quindi non voglio dire che la posizione di Kohut è sempre e comunque valida, spesso un'interpretazione logica, razionale, sul piano del processo secondario, di una difesa o di una resistenza terapeuticamente può rivelarsi molto utile, sta ad ognuno di noi trovare il giusto equilibrio tra una posizione alla Kernberg di interpretare e demolire sistematicamente le difese narcisistiche o una posizione alla Kohut, invece , di saperle contenere e permettere che evolvano in maniera positiva.
Qui il vostro collega fa una battuta interessante, un paragone, dice: “ Kohut non interpreta le varie fasi evolutive transferali, le fa accadere ed attende di poter agevolare la filogenesi.
Tempo addietro discutevo con un ragazzo che sosteneva che la funzione del terapeuta era quella di liberare il paziente dalla sua emotività vischiosa, quella legata a fatti passati che non permetteva al paziente stesso una vita serena e fluida. L'impressione che mi fece il discorso era che ciò che si dovesse fare era una sorta di “pulitura del disco” di freudiana memoria. Credo che questa sensazione mi fosse rimasta per la scelta di certi termini come “togliere”, “liberare dall'emotività potenziando la comprensione cognitiva dell'accaduto”, cose sulle quali posso essere d'accordo ma solo a patto che siano infelici metafore
”.
D'altra parte la metafora rappresenta la nostra visione della realtà, se noi usiamo metafore come: estirpare, cancellare, abbattere, è chiaro che avremo un rapporto con l'altro molto diverso che non se utilizziamo metafore come: bonificare, contenere.
Mi pare che fosse un po' questo il senso: due posizioni terapeutiche, due posizioni cliniche, alla Kernberg o alla Rosenfield o freudiana tradizionale, contrapposta ad una visione della relazione oggettuale e del setting contenitiva, meno propensa ad interpretare sistematicamente.
“Oggi voglio proporvi un caso, molto interessante e molto complesso, che può essere interpretato e letto un po' ricorrendo a vari parametri interpretativi, parametri di lettura clinica. Un po' ve lo leggo, un po' ve lo spiego”.
Chiameremo questa persona Marlene. Non è un caso mio, è un caso trattato da una mia collega, importante perché durante il trattamento di questo caso la collega fu supervisionata proprio da Bolognini. Successivamente, ad analisi finita, questo caso fu discusso con Luigi Ruggiero, molti di voi lo conosceranno perché ha scritto un libro sulla nevrosi ossessiva, ed è un analista kohutiano ortodosso, il quale lesse l'andamento e l'evoluzione di questo caso in termini strettamente kohutiani, quindi noi avremo la possibilità di studiare, di capire questo caso, da due ottiche interpretative molto diverse, una molto tradizionale, alla Bolognini, e una innovativa, alla Kohut.
Quindi cercherò di sintetizzavi le due prospettive schematizzando il caso a scopi didattici.
Questa donna, nel momento in cui inizia la terapia, ha 36 anni. È sposata con un uomo maggiore di lei di tre anni, una figlia quindicenne. Questa signora ha due diplomi di scuola superiore, evento alquanto singolare, un diploma di istituto magistrale e una maturità scientifica. Attualmente è impiegata in un ente pubblico, il padre è morto una decina d'anni fa di leucemia, una malattia molto lunga e dolorosa che ebbe un lungo decorso, la madre è tutt'ora vivente; Marlene ha una sorella di cinque anni maggiore d'età e un fratello di cinque anni minore che vive a Londra.
Questi sono i dati biografici che si mettono sempre in una anamnesi, in un resoconto clinico.
Bionda, pelle bianchissima e levigata, lineamenti regolari, cercate di vederla, di immaginarla, piuttosto piccola di statura, tendente al rotondo, una donna “ rotondetta “, dice nel primo colloquio di essere anosmica che significa che non sente gli odori, questo è un dato importante, è il primo sintomo.
Dal diario dell'analista che l'ha presa in cura: “ dal primo contatto mi affiora alla memoria, e mi passa davanti agli occhi il contrasto tra l'aspetto angelico e pulito, quasi da lattante, non a caso Marlene va pazza per il latte, panna, simili, queste cose bianche le piacciono, la sua seduttività dolce e supplichevole, disarmante, con cui chiede aiuto e il terrore di disfacimento che emana, che emana dal suo interno, che bene si esprime attraverso il timore di non essere presa per l'odore”.
Vi spiego questo passaggio: si fanno dei colloqui prima di cominciare un'analisi, e il terapeuta valuta alcune cose, generalmente si riserva dopo il primo colloquio di prendere o no in carico il paziente, quindi: “ mi lasci un po' pensare “, “ ci vediamo un'altra volta “, “ decideremo ”; generalmente sono valutazioni sia di tipo diagnostico, cioè se il terapeuta è in grado di prendere in carico questa persona, oppure anche valutazioni di tipo molto pratico, cioè se il paziente avrà i soldi per pagare, potrà sostenere un lungo lavoro, potrà venire più volte alla settimana, considerazioni che in genere, in una normale relazione con il paziente, il paziente capisce, coglie.
Stranamente Marlene, però, ha una fantasia su queste riserve dell'analista, dice: “ lei, forse, è incerta se prendermi o no in terapia, perché io puzzo, perché io ho un cattivo odore, quindi lei probabilmente sente un forte, cattivo odore, una puzza, ed è incerta se prendermi o no come sua paziente “. Questo lascia esterrefatta l'analista perché sul piano di realtà questa signora è estremamente pulita, levigata, profumata, quindi assolutamente nulla di tutto ciò che ella teme.
Quindi c'è questo contrasto tra il senso di disfacimento, di timore di puzzare, e la realtà, tanto più che lei non sente gli odori, questo è un punto importantissimo che vedremo poi, che spiega il sintomo dell'anosmia. La ragazza non sente gli odori per cui deve fidarsi della sua sensibilità, su quello che pensa che l'altra persona provi, su quello che proietta sull'altra persona.
Timore davvero sconcertante e bizzarro “, scrive l'analista, “finché non emerse il ricordo-racconto infantile di una sua enterite e della smorfia di repulsione della madre all'atto di cambiarla, smorfia che la paziente ricorda”. È un episodio reale, ad un età abbastanza infantile, ma probabilmente non abbastanza da non poterselo ricordare. Poniamo l'attenzione su l'episodio dell'enterite e disgusto materno. Poi questi elementi ve li monterò secondo l'ottica kohutiana e secondo l'ottica tradizionale.
Ora, quando è mestruata, prova lo stesso timore, che l'odore dei suoi secreti le sfugga, restandole inavvertibile, infatti lei non sente odori, quindi, gli altri forse sì, e questo timore di puzzare è più forte durante le mestruazioni. La paura è giunta al parossismo nell'adolescenza, quando la paziente tentò di disinfettarsi con un clistere di Citrosil, e corse un grossissimo rischio di vita. Questo episodio è molto drammatico nell'adolescenza, il timore di puzzare, il timore di emanare cattivo odore, la porta ad un passaggio all'atto molto grave che chiameremo l'episodio del Citrosil e che inseriamo nello schema. Rischiò la vita in quella circostanza, gravi ustioni a livella intestinale, che però furono, per fortuna, curate in modo sufficiente.
Attualmente, oltre all'anosmia, il motivo principe che la porta in analisi è uno stato di profonda e diffusa angoscia, di tipo claustrofobico, persistente da alcuni anni, ed accentuatasi dopo una vacanza in montagna. Tutt'ora, ella percorre il tragitto da casa al luogo di lavoro, in macchina, in treno, ma non riesce a prendere né autobus, né vaporetti ( lavora a Venezia ) perché teme di perdere i sensi e di non riuscire a controllare i suoi visceri. Il timore di questo attacco di panico che prende la paziente, è di svenire e, una volta svenuta, di defecarsi addosso o urinarsi addosso, il corpo non funziona più come contenitore nel momento in cui lei sviene. Questa è un'angoscia agorafobia.
Abbiamo dei sintomi di tipo claustrofobico, che si sono sviluppati durante un viaggio in funivia, mentre era in montagna, quindi l'angoscia dei luoghi chiusi. Con claustrofobia intendiamo angoscia per i luoghi chiusi in senso ampio, non necessariamente ascensore, stanze piccole, ma tutti quei luoghi dai quali non si può fuggire, ad esempio l'autostrada dove è molto difficile fermarsi, non si può tornare indietro, bisogna andare sempre avanti, se poi, per di più c'è una coda in autostrada, per cui ci si trova imbottigliati, si possono avere attacchi di tipo claustrofobico.
Inseriamo nello schema sia i sintomi claustrofobici sia i sintomi agorafobici.
L'agorafobia è quel senso di disperazione che si manifesta generalmente con attacchi di panico, quel senso di profonda paura, di solitudine radicale in cui il soggetto teme la morte, teme la malattia, lo svenimento, o teme la brutta figura. Ci sono due radici dell'agorafobia: una di origine conflittuale, in cui il timore è quello della morte, di tipo ipocondriaco, e poi esiste l'agorafobia di tipo narcisistico, in cui il timore è di fare brutta figura.
Comunque, Marlene manifesta entrambe, l'aspetto claustrofobico e quello agorafobico.
Questa donna si è sposata a vent'anni, era incinta, aveva conosciuto il suo partner da pochi mesi, con lui e con la figlia c'è, attualmente, una relazione intima e salda, sembra di assistere alla smagliatura di un tentativo di simbiosi, che si ripeterà poi nella relazione terapeutica.
"In una prima fase della terapia la paziente viene vista dall'analista come una persona alla ricerca di un profondo rispecchiamento, preceduto da - e qui leggo dal diario dell'analista- “ un mettermi alla prova, una specie di immagine-oggetto transizionale, un cilindro di plexiglas in cui M. era avvolta e che usava per tenere a distanza e nello stesso tempo essere vista” .
L'analista ha questa immagine, che tutti questi sintomi che la paziente porta la facciano vedere come una persona dentro un cilindro di plexiglas in cui non può essere toccata, ma può essere vista da tutte le pareti, sono fantasie che spesso gli analisti fanno, e che poi, generalmente, si rivelano anche feconde, nel trattamento. Ciò confermerebbe quanto dice Kohut stesso, in un suo scritto, che il paziente sperimenta ad un livello profondo, una fusione con il terapeuta, mentre allo stesso tempo rimane in uno stato in cui non entra in relazione con l'altro.
I bersagli delle difese ipocondriache della paziente erano prevalentemente l'area urogenitale e l'ultimo tratto intestinale, ricordate l'episodio del Citrosil, e ricordiamo la paura di espellere delle feci attraverso lo svenimento; in pratica la sua angoscia era quella di non poter contenere e trattenere. Immaginiamo questo corpo psichico come un corpo non compatto, un corpo che si rappresenta come pieno di buchi, con delle perdite, non affidabile. Poco dopo la nascita della figlia Marlene aveva dovuto sottoporsi ad un intervento chirurgico per una specie di prolasso dell'apparato urogenitale, da qui, anche, l'investimento di quest'area corporea. In seguito aveva attraversato un periodo di forte depressione e di insonnia, quasi uno scompenso che l'aveva tenuta per un po' lontana dal lavoro.
Marlene, poi, ha un altro sintomo abbastanza singolare, da sola non poteva spendere più di una certa cifra, solo se era assieme al marito poteva superare l'importo che corrispondeva, più o meno, al prezzo di una seduta di allora. Mi pare di scorgere in questa sorta di percezione endopsichica , per cui da sola poteva utilizzare solo una gamma limitata delle sue risorse, pena il contravvenire ad un dettame superegoico di origine familiare: risparmiare per acquistare beni solidi, frammento che getta luce sull'aspetto anale, ossessivo-compulsivo, della sua organizzazione pulsionale.
Durante il suo snodarsi mi pare che in questo primo periodo, in realtà prolungato, di tre anni di terapia, fosse da me “, è l'analista che parla, “ accentuata una funzione supportiva, nel ripensarci ora, fasi a grandi linee conclusive, mi sembrava di essere stata, in termini kohutiani, un oggetto-sé speculare e idealizzato. La paziente “ beveva “ le mie parole e pareva farne tesoro, a livello di controtransfert sentivo difficoltà a mantenere un ascolto rispettosamente neutro, e spesso uscivo dalle sedute come se fossi una caraffa piena fino all'orlo, ricordo di come una sera mi sia trovata a sfiatare tutte le valvole dei caloriferi di casa mia “. Episodio chiarissimo di identificazione proiettiva.
La paziente ha messo dentro alla terapeuta questo senso di pienezza, perché è chiaro che se un sintomo come quello di un corpo che non contiene, un corpo che in qualsiasi momento può lacerarsi e far uscire ciò che contiene, in senso metaforico, in senso reale, la difesa di questo contenimento può essere invece un riempimento assoluto, cioè la difesa è questa carenza di contenimento e probabilmente è questa che viene introiettata, per identificazione proiettiva, nella figura della terapeuta.
A questo punto abbiamo abbastanza elementi per una lettura interessante del caso.
A proposito del denaro, quando Marlene usciva poteva fare piccoli acquisti, una maglietta, un libro, però oltre le 100.000 lire non poteva spendere, aveva un blocco assoluto che le impediva di comprare, almeno che non ci fosse il marito presente che faceva da garante . Questa presenza dell'altro che permette di fare cose che altrimenti non si fanno, la si trova spesso nei casi di agorafobia, persone che temono di uscire da sole, hanno attacchi di panico, hanno questi problemi, nel momento in cui sono accompagnate da qualcuno, ecco che ciò non sussiste più, è un grande aiuto la presenza dell'altro. L'interpretazione classica, ne parla anche Fenichel, è quella che, poiché alla base di questi episodi agorafobici c'è un timore di trasgredire ad un conflitto edipico, la persona farebbe da garante, sarebbe il genitore edipico che impedisce la trasgressione; Kohut da un diverso tipo di lettura che poi vedremo.
Vediamo di ricostruire sulla storia di questa paziente quella che è la lettura che fa Kohut, che poi il supervisore kohutiano fece a questo caso. Tenendo presente che nella posizione di Kohut è estremamente importante la storia reale, quella che fu poi la grossa diatriba tra realtà fisica, realtà fattuale e realtà fantasmatica in cui Freud spesso si dibattè, ricorderete la polemica con Masson su quello che poteva essere la realtà del trauma, per Kohut è abbastanza secondaria questa diatriba, perché Kohut dice: “ la storia è quella vera, abbiamo avuto dei genitori cattivi, genitori mancanti, genitori carenti, genitori poco ammiranti, realmente c'è stato, perché se no non sarebbe avvenuto un certo sviluppo “, quindi i kohutiani sono abbastanza aderenti alla realtà, non si pongono delle fantasie.
Questo supervisore dice: “ diamo un'ipotesi su questa famiglia: è una famiglia molto legata al denaro, una famiglia in cui il valore dei beni solidi è estremamente sentito, è un valore di grande importanza, non si possono buttare via i soldi per sciocchezze, tipo i libri, i dischi, spettacoli, i soldi vanno risparmiati per comprare le case “. Quindi c'è un valore familiare di questo tipo, comprare case, beni solidi, beni materiali e questa cultura familiare è molto forte. Veniamo ad apprendere un episodio strano di questa famiglia: Marlene si iscrive all'istituto magistrale e sua sorella si iscriva al liceo scientifico, la sorella con molta fatica riesce ad iscriversi al liceo scientifico, perché “ il liceo è un po' da perditempo, non da in mano nulla, sono soldi sprecati perché bisogna comprare i libri, poi non ti da nulla, devi fare l'università; l'istituto magistrale, quanto meno”, dicono i familiari, “ ti consente di trovare subito un lavoro, di fare la maestra, quindi tu Marlene vai a fare la maestra”. E questo è molto importante, la sorella con grandi lotte e conflitti riesce ad iscriversi al liceo scientifico. Marlene arriva a diplomarsi maestra, quindi, a concretizzare questo progetto di studio, la sorella invece, un po' ribelle, immaginate un carattere un po' particolare, lascia a metà gli studi.
A questo punto la ferita che ne riceve la famiglia è grande: “ guarda, dopo tutto quello che abbiamo fatto per te, ti abbiamo fatto fare questa scuola così inutile, e adesso tu ci pianti così”.
Marlene cerca di risarcire la famiglia, e dopo il diploma magistrale si iscrive al liceo scientifico e ottiene la maturità scientifica, quindi, immaginate questa ragazza, pur di farsi amare, pur di risarcire la famiglia che fatica fa, quella di prendere due diplomi, cosa totalmente inutile, le risorse poteva impiegarle per una laurea, per un passo successivo, invece, pur di non far soffrire la famiglia, pur di captare la benevolenza della famiglia, prende due diplomi. Questo ci fa pensare ad una situazione molto importante, ricordate l'episodio dell'enterite e il disgusto materno, Kohut direbbe in questo caso che è mancata la madre ammirante, perché una madre che fa la schifata di fronte alle feci di una bambina piccolissima, è una madre molto poco ammirante. In realtà questo episodio di disgusto materno è un epifenomeno, è la punta dell'iceberg di un generale e sistematico rifiuto materno, oserei dire: “forse anche un rifiuto genitoriale, questa ragazza ha avuto dei genitori poco ammiranti, senz'altro una madre poco ammirante, una madre che l'ha assolutamente rifiutata, una madre che rifiutava ogni emanazione corporea di questa figlia”. Quindi, probabilmente, una madre altamente persecutrice, ma abbiamo imparato che quando abbiamo un persecutore di quelli “ tosti “ mettiamo in atto un meccanismo, e qui siamo nella psicoanalisi tradizionale, che si chiama “identificazione con l'aggressore “.Questa madre persecutore, questa madre aggressore, questa madre che non ama, e una madre che non ama è sempre un persecutore, crea nella figlia la necessità di creare un'identificazione con l'aggressore, questo in senso psicoanalitico tradizionale. Kohut, invece, dice che una madre rifiutante di questo tipo non permette al bambino di costruire in sé quell'oggetto-sé, quella parte del suo sé, che consente un narcisismo normale, quindi un bambino per avere un narcisismo normale, per non avere un disturbo del sé deve, prima di tutto, essere ammirato ed avere degli oggetti idealizzati da poter idealizzare, quindi una madre deve essere ammirata e un padre deve essere idealizzabile. Non sappiamo nulla di quanto il padre fosse idealizzabile, certamente sappiamo che la madre non costituì mai un oggetto-sé solido per la ragazzina, quindi una carenza di oggetto-sé, carenza materna; il sé di questa fanciulla era un sé carente nella parte del rispecchiamento, era un sé cui mancava la relazione materna.
L'identificazione con l'aggressore e carenza materna a cosa portano, ecco vi do una lettura binoculare sui due piani, che possono coesistere benissimo, nella psicoanalisi tradizionale e nella psicoanalisi kohutiana. Mentre l'identificazione con l'aggressore porta all'anosmia, la carenza materna mi porta all'agorafobia. Perché l'identificazione con l'aggressore mi porta all'anosmia ? semplicissimo: perché fintanto che sono anosmica , non sento alcun odore, potrò tranquillamente pensarla come mia madre, mia madre pensa che io puzzi, bene, io sono come mia madre, penso di puzzare, ma per sostenere questa idea ho bisogno di non sentire alcun odore, capite la funzione del sintomo in questo caso ?
Questa, da un punto di vista psicologico, è ineccepibile come interpretazione. “Poiché devo mantenere questa identificazione con l'aggressore, essere come mia madre, mi vieto la possibilità di sentire gli odori perché solo in questo modo potrò pensarla come mia madre, cioè io sono una che puzza, vedete come ci si difende a volte”.
Cosa porta, invece, la questione alla Kohut, la carenza materna, porta all'agorafobia, praticamente, nella visione kohutiana l'agorafobia è un senso di profonda solitudine, che si manifesta in alcuni momenti, perché dentro di sé non c'è un oggetto materno interiorizzato, “sento gli altri distanti, sono in un luogo affollato, sono sola comunque, sento tutti distanti, nessuno mi ama, tutti sono rifiutanti come mia madre”, e questo senso di profonda solitudine esistenziale porta all'attacco di panico, porta a questa grande solitudine, tant'è che, per esempio, i kohutiani, che sono gente molto pratica, dicono che mentre senti un attacco di panico, senti l'agorafobia, vai vicino a qualcuno, cerca di parlargli, cerca di entrare in relazione con l'oggetto, parla di qualsiasi cosa, distraiti, perché così hai la sensazione di un oggetto interno che ti scalda.
I due diplomi, in sostanza, sono i tentativi seduttivi, oblativi, di ricevere dalla madre quell'amore che mancava, quindi la prima difesa sono i due diplomi.
Se l'identificazione con l'aggressore porta all'anosmia, perché in questo modo si può mantenere questa idea di essere come la madre, c'è, però, contemporaneamente, un altro aspetto, che è quello di sostenere comunque questo sintomo, e la profonda convinzione di puzzare, quindi, mantenuta dall'anosmia, porta poi a quell'agito terrificante che è il clistere con il Citrosil, agito distruttivo per mantenere l'identificazione con l'aggressore, è così forte l'identificazione con questa madre rifiutante che io stessa mi rifiuto, e arrivo a rifiutarmi così radicalmente da dimostrare con le piaghe del mio corpo che in realtà la mia puzza è un qualcosa di insostenibile.
Le cose sono così: “brava Marlene che hai preso due diplomi, brava che ci hai sostenuti”, dice la famiglia, “tu sì che sei una brava ragazza”, e Marlene finché ha questa pseudo ammirazione, quanto meno non conflittualità con la famiglia, tiene duro. Tiene duro, però, fino ad un certo punto, perché poi cresce, le cose cambiano, e trova, però, ad un certo punto della sua vita questo marito, personaggio anche lui sofferente, un ragazzo che ha subito degli abbandoni da parte dei genitori, quindi i due si ritrovano, un po', sulla “ via della sfortuna “, sono due che si sostengono a vicenda e quindi lui funge da oggetto sé , un oggetto-sé malato, gemellare, addolorato, sofferente, e riesce a controllare l'aspetto agorafobico e funziona bene per un certo periodo. Dopo di che, però, il marito a causa della prevalenza della propria sofferenza diventa un soggetto di continue richieste nei confronti di Marlene, non vuole essere lasciato solo, chiede sempre la sua presenza, e quindi il rimedio diventa peggiore del male, perché, se in una prima parte il marito aveva una funzione anti-agorafobica, quindi di riempire l'oggetto mancante, con le sue richieste troppo pressanti diventa un oggetto che causa claustrofobia. La claustrofobia è la percezione di un oggetto troppo vicino, troppo prossimo, troppo attaccato, è la sensazione di essere soffocati dalle richieste e dai bisogni degli altri, quando noi ci sentiamo troppo importanti per gli altri, sentiamo gli altri troppo dipendenti da noi, abbiamo questa sorta di soffocamento che si manifesta nel sintomo claustrofobico. Quindi, mentre l'agorafobia possiamo vederla come un freddo, dovuto ad oggetti mancanti, una stanza vuota, la claustrofobia è un contenitore troppo stretto, troppo carico, troppo soffocante.

domanda: “ il marito cerca una simbiosi con la moglie che la moglie rifiuta ? “

Non la può rifiutare ma sviluppa un sintomo di claustrofobia come manifestazione di questo disturbo .
Nasce la figlia e una figlia è un grosso risarcimento narcisistico per ogni donna, una figlia nasce e ancora una volta Marlene ha la conferma di essere una donna grande, adulta, emancipata rispetto ai genitori, e la nascita della figlia corrisponde ad un buon momento di crescita e di benessere ma, come si sa, i bambini chiedono, i bambini vogliono, hanno bisogno, e la figlia finisce anch'essa per diventare causa di una claustrofobia.
Questo è un caso osservato in una prospettiva di scorcio, quindi sono tante cose attaccate insieme, vi invito a considerarla in prospettiva, ma l'interessante è come le due visioni, quella classica, pulsionale, psicoanalitica, e quella kohutiana possono coesistere in un caso clinico
Un'ultima cosa: la terapia funziona nel senso di ricostituire una simbiosi che corregga e emendi la madre cattiva, la madre carente, quindi l'analista diventa la madre buona, ascoltante, ammirante, infatti il supervisore notava come quando la paziente dice io puzzo, l'analista ha una reazione di grande stupore e questo grande stupore è un messaggio forte dato alla paziente che si accorge che l'altra, e soprattutto lei, non è come la madre.
continueremo da qui la settimana prossima. Grazie.



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