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La transizionalità nel rapporto terapeutico

Prof. Antonio Maria Favero

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6° incontro.


Oggi mi ero proposto di introdurre quello che sarà l'incontro della prossima volta nella quale volevo presentarvi un documentario che ho realizzato io nel 1995 insieme ad altri due colleghi; è un documentario che merita una breve spiegazione per cui pensavo di dedicare l'incontro di oggi proprio a questa introduzione con guida per capire quello che sarà il filmato della prossima volta. Oggi volevo inoltre rispondere ad alcune domande che mi sono state poste durante la settimana e quindi spero di esaurire queste domande in breve tempo e poi mi occuperò dell'introduzione al film della prossima volta.
Forse vi complicherò un po' la vita, ma credo che valga la pena proprio ad onore del vero, ad onore di una visione più corretta, riprendere i nostri schemi di prima, i soliti nostri schemi che oggi ha ripreso anche il Professor Ferlini e vederli in un'ottica più complessa , leggermente più approfondita, per arrivare ad una migliore spiegazione di quello che potrebbe essere una possibile lettura del delirio.
Allora torniamo ai nostri soliti schemi, ecco noi l'abbiamo sempre vista così:


schema

Un elemento Beta che viene inviato in un contenitore, questo elemento viene elaborato, viene restituito e reso accettabile, quindi non viene espulso, ma viene elaborato, viene restituito, e vedevamo che ciò che viene veramente internalizzato è questo processo di elaborazione, cioè noi impariamo i meccanismi di difesa.
Questi sono gli schemi che abbiamo visto in tutte le salse fino ad adesso, con tutte le varianti, con tutti gli impedimenti, ormai ne avrete a nausea, però un'obiezione che potrebbe essere fatta, è che questa schematizzazione sembra un po' di trattare le persone come degli oggetti, dei contenitori, delle pentole in cui si butta fuori la patata bollente, uno la raffredda, l'altra la restituisca e non rende fino in fondo la complessità del fenomeno che stiamo esaminando qui.
Abbiamo a che fare con persone, quindi questo è uno schema volutamente semplice, semplificato, uno schema didattico che serve a capire in linea di massa certi processi che sono in gioco, ma potrebbe essere un processo insoddisfacente se consideriamo, ripeto, che qui abbiamo a che fare con delle persone, mi spiego meglio.
Nel disegno noi rappresentiamo un soggetto, un paziente, una persona, potete essere voi, potrebbe essere ciascuno di voi, e rappresentiamo un altro interlocutore, l'altro, il nostro analista, il nostro vicino di banco.
Ci manca però un fattore fondamentale e cioè: "Noi dell'altro, cosa percepiamo?".
Percepiamo realmente l'altro come entità in carne ed ossa, reale, oggettiva.
Dopo che ci siamo tanto affannati a mettere in discussione questa presunta oggettività dell'altro, questa presunta oggettività del processo psicanalitico, rischiamo di farci rientrare dalla porta quello che abbiamo buttato fuori dalla finestra.
Allora questo Altro che elabora- capisce- restituisce- espelle, come fosse un'entità vera, reale è soprattutto una rappresentazione che noi abbiamo dell'altro, cosa di cui direi è importante tener conto .
Noi possiamo dire: " Il mio compagno di banco sta capendo profondamente il mio dolore, sta contenendo la mia angoscia". Noi lo pensiamo, chissà se è vero, chissà se l'altro veramente ci sta capendo, magari l'altro sta pensando ai fatti suoi e nonostante tutto funziona benissimo.
Quindi è necessario a questo punto introdurre una variabile che possiamo rappresentiamo in un disegno:

schema


Nella figura troviamo il soggetto 1, con i suoi oggetti non elaborati, ed il soggetto2 che si mettono in relazione. Potremmo essere noi e il nostro compagno, il nostro analista, quell'altro in carne ed ossa che vediamo; ed un osservatore esterno ci individuerà come coppia.
Noi abbiamo del nostro interlocutore una rappresentazione interna, ciò che dell'altro vediamo, ciò che noi attribuiamo all'altro; ritorniamo un po' ad una visione classica della proiezione, di certi meccanismi intrapsichici.
Quindi l'altro, in gran parte, è quello che noi immaginiamo che l'altro sia. Tuttavia l'altro è anche un altro reale, che spesso ci può smentire, quindi noi abbiamo una certa opinione, il nostro compagno ci sta capendo bene perché noi vogliamo questo, vogliamo essere capiti, siamo convinti che l'altro ci capisca e fin che l'altro sta zitto magari ci sentiamo ben capiti, l'altro fa una battuta e a quel punto cominciamo a dubitare che forse non ci ha capiti fino in fondo, o magari sì. C'è un elemento imponderabile che è la realtà dell'altro, quello che l'altro poi effettivamente fa, quindi potremmo dire che questa nostra rappresentazione interna dell'altro, è modificata continuamente, in un continuo processo interattivo di modificazione, dall'altro reale, l'altro ha una voce, ha un corpo, ha un dire, ha un modo di affermarsi, per cui possiamo rappresentarla anche un po' così:

schema


Una sorta di compenetrazione.
Abbiamo una rappresentazione interna dell'altro, abbiamo un altro reale che modifica questa rappresentazione e questo comporta nel processo analitico l'estrema importanza che ha l'atteggiamento terapeutico, cioè deve essere un atteggiamento che sta contemporaneamente su due scarpe, sta qui e là, dentro e fuori. Un atteggiamento che deve riuscire ad integrare la realtà condivisa con quello che è necessario che l'altro senta di noi. Questo concetto sarà più chiaro tra dieci minuti quando incominceremo a parlare un po' della teoria kohutiana che è una teoria che si è molto occupata di queste problematiche qui. Comunque, per rispondere alla domanda che è stata posta via Internet, direi che il campo relazionale non è altro che questo incontro tra un soggetto, l'altro..
In cui questo processo di elaborazione e di re-internalizzazione direi che avviene proprio qui: in questo campo di intersezione tra ciò che io immagino sia l'altro e ciò che l'altro è poi realmente. Questa implicazione è importantissima non solo in terapia, ma è importantissima in tanti altri casi.
Vi faccio alcuni esempi molto terra-terra che tutti possiamo ben conoscere: il fedele, cioè colui che crede in Dio, spesso si trova in contatto con Dio e prega Dio senza parlare, cioè si rivolge a Dio esclusivamente pensando. "Mio Dio aiutami" dice tra sé e sé. Mentre dice questo sta supponendo nel suo mondo interno un'entità che è dentro di lui, che però è altro-da-lui, perché quando il fedele parla con Dio nella sua mente, non sta dicendo: "Sto parlando fra me e me", dice " Mi rivolgo a un altro, che mi sente perché è onnisciente, mi sente per qualsiasi motivo, ma non ho bisogno di verbalizzare, ce l'ho dentro e mi rivolgo solo pensando a Lui". Oppure in maniera molto più comune noi facciamo delle esperienze, un viaggio, vediamo una bella cosa e pensiamo tra noi: "Questo mi piacerebbe raccontarlo all'amico, alla persona amata al mio compagno.." e quindi ci immaginiamo il discorso che faremmo all'altro. Ecco, qui c'è più consapevolezza che stiamo parlando a noi stessi , ma ne parliamo un po' come se l'altro fosse lì e ci sentisse, quindi il supporre un altro-da-sé, dentro di noi, è un processo assolutamente normale, un processo importante, è un processo sano. Si dice comunemente che la persona fedele, il fedele, non ha bisogno di tante terapie, non ha bisogno di psicoterapie, nel senso che chi ha una fede incrollabile, ha una grande religiosità sta bene perché trova in sé la soluzione ai propri problemi.
Noi potremmo tradurre nel nostro linguaggio che trova in sé un altro-da-sé con cui poter interloquire. Rifacendosi al nostro discorso supporre un altro dentro noi stessi vuol dire che questo processo che è relazionale, noi possiamo farcelo anche dentro, tra noi e noi, anche in assenza dell'altro. " Cosa direbbe la mamma in questo momento, cosa direbbe il mio maestro in questo momento, cosa direbbe il mio amico così esperto in questo momento, cosa farebbe?" e magari riesco a dare una risposta. Ecco, sto supponendo un altro dentro di me.
Vi ripeto: un altro che io ho pensato, ma che viene completamente emendato dall'altro poi reale, quindi può smentire o meno. C'è una domanda.

Domanda: "Quindi il campo relazionale sarebbe quel luogo dove si incontrano oggetti interni e oggetti esterni?"

Esattamente questo, perché se il campo fosse esclusivamente composto da un oggetto presunto oggettivo, totalmente esterno non sarebbe un campo relazionale. Con la Tourre Eiffel non ci si può relazionare perché è lì , e non possiamo supporre nessun pensiero che essa faccia nei nostri riguardi…e nemmeno con un manichino. Se invece l'altro fosse tutto dentro, e quindi impermeabile alla realtà, lo stesso avremmo una visione molto poco relazionale, me la faccio a mio uso e consumo, il che succede. Allora nella patologia, parliamo della patologia molto grave, si parla di impermeabilità psicotica, lo psicotico non considera tanto gli altri. Una persona delirante non tiene tanto conto dell'altro, l'altro è ..così come diceva Schreber "Qualcuno di fatto fugacemente" . Lo psicotico va avanti con il suo pensiero delirante, è sordo ed impermeabile ad ogni osservazione. Il delirio come sapete si caratterizza per essere una grande certezza, un'immutabile, rigida, adamantina certezza che non ha spazio per i dubbi, cioè l'altro in quanto tale, esiste solo come rappresentazione dentro di sé, e quindi potremmo dire che non è un altro simbolico, un altro continuamente emendabile e correggibile. È un altro costruito da noi, fatto per noi, che non ha nessuna vestigia di realtà. Quindi possiamo dire che per lo psicotico l'altro, la rappresentazione che lui ha dell'altro, è una rappresentazione staccata.

schema


…E' staccata da quello che potrebbe essere l'altro in carne ed ossa. Esempio: "Io sono convinto che una determinata persona, un vicino di casa voglia uccidermi, dunque egli è un assassino". Quindi la mia rappresentazione interna della criminalità, la criminalità dell'altro - fattore K - , è dentro di me, è incistata dentro di me, è intoccabile ed è totalmente immune da ogni influenza esterna. Quindi quest'altro può essere un santone, può essere qualsiasi cosa, ma non conta niente, quello che conta è la rappresentazione che io ho dentro. Questa rappresentazione interna, essendo così staccata dalla realtà condivisa, quindi essendo staccata da una logica di comunicazione diventa, diciamo così, una realtà non simbolica, pre-simbolica: la chiamerei una realtà vuota, una realtà fatta a proprio uso e consumo, quando un bambino finge di essere un altro in un gioco e si convince così tanto che poi diventa l'altro, perde il contatto con l'esterno. Allora se, e qui torniamo ai nostri schemi vecchi…

schema


… il processo di elaborazione, quindi espulsione dell'elemento intollerabile, elaborazione di tale elemento, e restituzione, avviene nel campo relazionale, nel campo transizionale, come abbiamo visto in tutti i casi che abbiamo considerato prima. Si potrebbe supporre che nello psicotico questo processo avvenga qui, in questo nucleo autistico, internalizzato, asimbolico, indipendente dalla realtà. Se ciò è vero, se è vero che l'elemento intollerabile viene espulso in questa parte di sé considerata altra, considerata delirante, costruita a proprio uso e consumo per ridefinire il mondo (voi sapete che lo psicotico ridefinisce il mondo, crea un mondo a suo uso e consumo), che razza di elaborazione potrà avvenire qui? Avverrà una pseudo-elaborazione, e avverrà con il processo in cui ciò che viene gettato fuori ci ritorna dentro, ci ritorna da fuori, ma in questo caso il fuori non è una realtà, non è l'aria che sta attorno ad una persona, ma è questo altro impermeabile, unico e slegato che è tutto il resto. Il processo psicotico si potrebbe definire una proiezione in questo punto vuoto, asimbolico perché non condiviso e il ritorno da questo punto vuoto in termini di allucinazione, di voce, di delirio, di certezza che non viene elaborata, quindi è un processo di auto-alimentazione da una realtà delirante. So che è abbastanza complicato ed è molto astratto ed ancora una volta scivoliamo in una metapsicologia bieca, però se non vi è chiaro ditelo, e ci fermiamo pure su questo.

Domanda : " Senta, ritengo possibile che questo fatto possa essere asimbolico dall'esterno, perché non condiviso, però penso che comunque abbia… un significato… nel senso che non penso sia asimbolico ma simbolico".

Ecco , attenzione: io intendo per simbolico, tutti i rapporti oggettuali che, anziché basarsi sulla triade, si fondano sulla diade. Il rapporto duale madre-bambino, è un rapporto carico di elementi simbolici, affettivi ed emozionali; nel momento in cui però introduciamo il terzo, e quindi il simbolo, introduciamo l'elemento terzo, tra soggetto ed oggetto , tra soggetto e cosa, l'elemento simbolico è quella parola, quell'elemento, quello spazio verbale o concettuale che aiuta il soggetto a vedere la cosa. Nel momento in cui il soggetto percepisce la cosa attraverso un simbolo, non vede più la cosa, ma vede esclusivamente il simbolo e lavora sul simbolo. Io mi permetto di parlare di asimbolizzazione nella realtà psicotica perché, come diceva Freud, lo psicotico tratta le parole come cose e quindi non ha questo spazio terzo, ma un rapporto proprio con la cosa in maniera diretta. Stiamo parlando però di costrutti puramente teorici, c'è sempre poi un grado intermedio...

Intervento: "Sì…,però si tratta di una relazione simbolica…"

…Si tratta di una relazione simbolica, in questo senso è simbolica. Dopodiché il delirio è un mondo ipersimbolico, che però io intendo come una revisione in cui, mancando il terzo esterno, il terzo condiviso, è una visione simbiotica tra Sé e Sé.

Domanda: " Parlava appunto della condizione psicotica...mi chiedevo: nel campo del fedele che parla con Dio, questo elemento Beta viene mandato verso ciò che è dentro di me o…"

Ecco, diciamo che, senza entrare in tematiche filosofiche complesse, a volte quello che dovrebbe distinguere, queste sono parole di Freud non mie, per esempio un nevrotico ossessivo da una persona di fede, è una differenza non da poco, anche se sicuramente sembra una differenza minima, e cioè che l'uomo di fede si rivolge a una realtà condivisa. Tutti i rituali dalla preghiera, tutte le procedure delle liturgie sono condivise da un gruppo e tanto basta per trovare l'elemento simbolico forte, per cui anche se il processo apparentemente è delirante, però essendo condiviso con la realtà sociale, religiosa, comunitaria, produce qualcosa perché la persona va in cerca e trova dentro di sé quegli aspetti idealizzanti che sono condivisi con il gruppo. Diciamo che non c'è grande differenza, se non il fatto che nella nevrosi ossessiva certe forme deliranti sono religioni individuali. Diciamo che il nevrotico ossessivo è legislatore, creatore di liturgie proprie e personali, inventate da lui; negli altri casi, quelli dell'uomo di fede, è una realtà condivisa e, quindi, questo introduce l'elemento sociale che ha una grande funzione.

Domanda: "Lei ha detto che l'idea allucinata dello psicotico avviene lontano da se stesso perché lui ha perso l'oggetto esterno giusto? Quindi cosa succede…

E quindi ritorna non elaborata in forma delirante. Il vissuto delirante, tipo la voce interiore, non è altro che un processo in cui l'elemento non elaborato viene espulso , ma non all'esterno dove può essere condiviso, ma all'interno della realtà intrapsichica e quindi ritorna come percezione delirante. È un processo che può fare a meno dell'esterno…

Domanda: " Ma all'esterno nel senso che comunque lui sente una voce che per lui è esterna…"

…Per lui è esterna, il suo vissuto è esterno, solo in quel senso.

Domanda: " E' una considerazione che un po' ricalca la sua ultima parte di riflessione. Rispetto allo psicotico, più che un'introiezione di una rappresentazione di un interno, non può esserci una costruzione di un esterno che è una proiezione? In questo senso l'espulsione di un contenuto Beta ha senso perché inaccettabile se percepita all'interno, ma accettabile, seppur con sofferenza, se percepita all'esterno ."

Esattamente questo, cioè io mi costruisco un mondo virtuale che io considero esterno,pur sempre dentro di me, un mondo fatto di spie, di persecutori, di santi, quello che volete, che fa sì che io possa integrare in questa realtà virtuale creata da me, gli elementi intollerabili. Ma siccome poi è tutto un gioco, un inferno autistico, tutto ciò che ritorna indietro non è sufficientemente elaborato e torna in forma difficile da sostenere, la voce è angosciosa, il vissuto è persecutorio, angoscioso, non è mai bella. Talvolta può essere anche un grande piacere, può essere un'esaltazione, il più delle volte però…

Domanda :"
Ma la domanda che mi pongo è…essendo questo gioco, diciamo autistico, come modalità, che ruolo ha a questo punto il terapeuta che può diventare una delle voci di questo paziente? "

Questo è il grande problema della terapia delle psicosi. In effetti il terapeuta dovrebbe costituire quell'elemento esterno che integra, emenda, cambia in qualche modo o interagisce con questo mondo autistico. Ci deve essere un pezzetto, una propaggine di questa persona disponibile ad agganciarsi un po' alla realtà. Diciamo che lo psicotico puro, se esistesse, sarebbe inanalizzabile perché è appagato dal suo mondo e questo è il grosso problema della terapia delle psicosi, ma meriterebbe un discorso lungo e complesso perché…fino a che punto è inanalizzabile la psicosi? Come può essere trattata? Quali sono i punti di aggancio? Ecco, nella teoria di Benedetti si forma questo soggetto transizionale che sarebbe il potersi agganciare a degli elementi che sono assolutamente autistici, ma che comunque chiedono. Ci sono dei residui da un rapporto all'altro e quindi diventa possibile entrare in questo gioco a poco a poco, perdendo la propria identità, assottigliando la propria scorza e via via fondersi con l'altro; e forse l'altro chiede proprio questo. Ma è un processo estremamente difficile.

Domanda: " Che differenza c'è tra l'oggetto transizionale di Winnicott ed il soggetto transizionale di Benedetti? "

Ecco Benedetti intende tutti e due. La differenza è che Winnicott è su un registro descrittivo in cui ci sono degli oggetti, che possiamo chiamare oggetti transizionali, che sono per il paziente né suoi né della realtà esterna, sono oggetti intermedi: l'orsacchiotto del bambino, la coperta…sono fuori ma anche dentro. È un oggetto così che può essere oggetto fisico, non pensante. Benedetti invece introduce il concetto di soggetto transizionale perché questo altro è una persona che inizia a pensare un po' come pensava lui e cioè entrambi delegano e alienano in questa entità che è essenzialmente una relazione, un rapporto che è comune a tutti e due.
Il soggetto transizionale può essere un quadro che tutti e due fanno…Uno inizia con un disegno e l'altro lo elabora…Ecco, quando Winnicott parla degli scarabocchi come teoria, fa già un abbozzo di quello che potrebbe essere un soggetto transizionale perché all'inizio c'è uno scarabocchio, l'altro elabora questo e tutti e due costruiscono questo oggetto-altro che non è né dell'uno né dell'altro ma di entrambi. Benedetti fa un passo in più. Da vita, anima a questo concetto e dice :"Io penso come non penserei se fossi solo, ma penso così perché sono in relazione a te e tu pensi così perché sei in relazione a me. Questa nostra creatura, questo nostro nuovo modo di pensare è un soggetto terzo che appartiene ad entrambi e non appartiene a nessuno dei due". È un grosso salto qualitativo che se volete può essere un elemento in più per dire :"Ma, come si fa?". Questo testimonia una prima rottura di quella scorsa che se fosse così risoluta sarebbe indistruttibile.

Domanda: "Non mi è chiara una cosa. Quando si è parlato dello psicotico e del suo mondo delirante, io non ho capito se questo mondo delirante è il risultato della sua elaborazione di quello che ha internamente. Non mi è chiaro dove avvenga questa elaborazione. Non ho capito se il mondo delirante è allo stesso tempo sia il luogo in cui avviene l'elaborazione, sia il prototipo dell'elaborazione, cioè il delirio. Non mi è chiaro se il mondo delirante è quello che il soggetto attraverso questa elaborazione interna è riuscito a produrre e quindi a fornire di senso, il delirio. Però questo mondo delirante è anche un produrre del soggetto all'interno del quale avviene questa elaborazione delle sue cose non elaborate, dei suoi elementi Beta…"

Forse non ho compreso la sua domanda, ma credo, se ho inteso bene, che ci siano tutti e due questi fattori a seconda della gravità della patologia delirante. Esistono, per quelle che Racamier chiamava psicosi fredde, che sono delle psicosi in cui il delirio è incistato, mi corregga se non è quello che voleva dire lei, ma ci sono delle situazioni che una persona vive normalmente, tranquillamente in un mondo condiviso, con tutti, una persona stimata, nessuno direbbe che è psicotica, dopo noi parliamo con questa persona, mentre stiamo prendendo un caffè con lui e ci racconta la sua teoria su un mondo sotterraneo, su un mondo fatto di grandi complotti che stanno sotto…Ecco, ci mostra un delirio molto strutturato che ha a che fare con una sua profonda convinzione. Allora in questo caso tutta la sua teoria che è assolutamente delirante, è incistata dentro ad un luogo dentro di sé, quindi quello funziona come un altro-da-sé che lui utilizza per elaborare tutte le sue angosce, quindi nel momento in cui lui ha un'angoscia insostenibile, pensa che questa gli è dovuta da un'influenza sotterranea che attraverso la luce arriva a lui e finisce lì. Per il resto il suo mondo simbolico è assolutamente condiviso e penetrabile dalla relazione con l'altro.

Domanda: "Quindi in questo caso: delirio come prodotto…

Esattamente. In altri casi però non è così. L'idea del mondo soggettiva e quelle che possono essere sia i prodotti, sia la piattaforma su cui poter esistere, non è così incistata, ma invade un po' tutto il mondo simbolico del soggetto; in questo caso i due elementi, causa-effetto, cioè prodotto e teatro della psicosi si confondono. Ci sono tutte e due con gradualità diverse, non me la sentirei di dire o una o l'altra. Ci sono casi in cui l'una segue l'altra. Dove c'è coincidenza tra le due cose penserei ad una patologia più grave.
Vi ripeto, queste sono le tavole schematiche, ma poi avrete a che fare con persone che delirano, che stanno male, che hanno la loro visione del mondo.
Poi sarebbe veramente da vedere che cos'è il delirio e in che termini il delirio si caratterizza proprio come una forma tipica di pensiero.
Bisognerebbe vedere come la questione del delirio sia una questione legata alla realtà: uno può delirare anche su fatti assolutamente veri… non solo, ma in altri casi la nostra misura non può che essere delirante, perché noi continuamente dobbiamo adattarci, mettere in ordine, selezionare e confrontare quello che noi concediamo con quelle che sono le nostre convinzioni profonde, per star bene siamo costretti un po' a delirare. Lo facciamo ad occhi aperti, lo facciamo nel sogno, quindi sono confini che non sono poi così netti.
Noi stiamo tratteggiando dei riferimenti puramente didattici, che poi ci servono come base su cui poi lavorare completamente con i pazienti.
Ci sono altre domande? È un argomento che ha suscitato parecchio interesse.

Domanda: "Il delirio quindi lo si può vedere per il fatto che, quando magari il bambino è nato
sano, e non ha avuto ritorni elaborati e quindi si è un po' abissato da solo…."

Anche. Una possibile lettura è questa, non è l'unica ma potrebbe essere anche così, anche se un non contenimento da parte dell'altro e una necessità di aggiustarsi un po' da solo, potrebbero produrre moltissime cose. Non solo psicosi, ma anche un carattere facilmente adattabile, che ha dovuto far da solo; potrebbero produrre ovviamente i nevrotici e potrebbero produrre psicosi.
Io però sono sempre molto cauto nel definire la genesi della psicosi, io preferisco partire sempre dalla clinica e dopo eventualmente affrontare le ipotesi sulla genesi in seguito.
Comunque sono molto cauto nel dire: "Uno è psicotico perché ha fatto questo".
Ho di fronte una persona con pensiero delirante, una particolare sofferenza, una difficoltà relazionale e mi chiedo quali sono gli strumenti clinici per entrare in rapporto.
Quello che dice lei è una possibile cura, non la sola possibile.
Anche perché non mi stancherò mai di dire che questa è una visione possibile delle cose, non è la visione che vi spiegherà tutto il mondo.
Ci sono altre letture anche più efficaci di questa. Sto seguendo un mio percorso per dare forse anche una visione etica della psicanalisi che vada oltre l'interpretazione classica che quindi sia più al passo coi tempi, con quelle che sono certe necessità cliniche.
Altre domande su questo tema?
Eventualmente lo riprenderemo visto vi interessa così tanto.

Veniamo alla presentazione dell'incontro della prossima settimana.
La prossima volta vi presenterò un filmato che è stato realizzato nel 1995: è un'intervista, una lunga intervista ad uno psicanalista italiano, ad una persona di grande sensibilità, di grande intuito.
Ha scritto diverse cose, forse molti di voi lo conosceranno si chiama Stefano Bolognini.
Noi con questa intervista ci siamo posti il problema di come rileggere la teoria classica della psicoanalisi, quella che avete studiato in Psicologia Dinamica, quella che avete visto sui vostri manuali (per esempio il Nagera), ripartendo dagli scritti tecnici di Freud, proprio dalla psicoanalisi classica. Possiamo rappresentare il processo classico in questo modo:

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Ciò che è inconscio dovrebbe diventare conscio, quindi c'è del materiale rimosso, non consapevole e c'è un materiale cosciente. Il detto freudiano classico, da stamparvi sulle magliette era:
"Who Es war, soll Ich werden"… "Dove c'era l'Es ci sarà l'Io".
Dove c'era inconsapevolezza ci sarà coscienza, e quindi attraverso l'interpretazione, l'inconscio sarà reso conscio.
Vi hanno insegnato che uno sta male, è nevrotico, ha dei sintomi perché ha un conflitto tra le sue pulsioni, quindi tra questi istinti biechi, queste voglie e una morale che si identifica con il Super-io. È una conflittualità, appunto, in cui si mette in gioco la morale, senza averne un concetto morale, e l'interpretazione: l'interpretazione favorisce la cura.
Ve la sto banalizzando, ma questa è una teoria che può essere riassunta un po' così.
Che cosa viene interpretato? Allora si interpreta innanzitutto il transfert, le resistenze, le difese. C'è quindi tutto un catalogo di azioni, di modalità che il paziente utilizza, che vengono interpretate come resistenza alla terapia, come difesa all'interpretazione, come difesa del conflitto, perché se io qui ho un conflitto tra Super-io ed Es, è chiaro che questo conflitto mi produce un sintomo e sia il Super-Io che l'Es non vorranno cedere agli interventi esterni, quindi si difenderanno e queste sono le difese.
Noi abbiamo considerato un autore che abbiamo trovato molto importante: Heinz Kohut.
Heinz Kohut è uno psicoanalista di origine tedesca, è nato nel 1913, emigrato negli USA nel 1939. Le sue grandi opere (scritte dal '63 all'81) hanno quasi tutte dentro al titolo la parola "Sé", infatti è diventato il massimo rappresentante della "Psicologia del Sé". Kohut è morto 1981.
Kohut è una figura interessante perché ha dato un rinnovamento globale alla teoria della psicoanalisi, l'ha rinnova totalmente; è stato un grande rivoluzionario che non è sceso a compromessi e che paradossalmente, proprio per questa ventata di rinnovamento, è stato contrastato dai suoi colleghi con dei ruoli istituzionali molto forti.
Kohut osserva questo: il lavoro sul paziente, e cioè l'interpretazione che rende consapevole, non sempre funziona. Ci sono dei casi in cui un attento e faticoso lavoro sull'interpretazione passando dall'Inconscio al Conscio non produce pressoché nulla. Si fanno anni e anni di analisi per niente, e sembrerebbe che più si va avanti e più questi fallimenti del protocollo classico della teoria psicanalitica aumentino. La cose non vanno.
Allora lui elabora una teoria attraverso vari passaggi, che è appunto la "teoria del Sé" ( lui nasce in origine come psicologo dell'Io e quindi con Kris, Hartmann…) e ipotizza che alcuni elementi che nella teoria classica vengono visti come resistenze, in realtà siano elementi importantissimi che devono essere utilizzati in un modo diverso.
Secondo Kohut, sempre di più, le nevrosi basate su un conflitto, stanno per essere superate, ce ne saranno sempre meno. Egli dice: "Ogni disturbo psichico, ogni malessere psichico, specialmente un malessere grave, quindi di tipo borderline, o di tipo psicotico o comunque la patologia grave, non rientra nella schematizzazione del conflitto, ma rientra nel modello del deficit.
Consideriamo il Sé come un'entità che tutti abbiamo, che fa parte della rappresentazione che noi abbiamo di noi stessi; se questo Sé è integrato, ben funzionante, ben articolato ed integro, noi viviamo bene, viviamo una realtà adattata e siamo felici. Se invece il Sé ha delle carenze, ecco che si crea la famosa sintomatologia di tipo narcisistico.
Vi leggo qualche riga per farvi capire quale può essere il tipo di paziente che ha questo tipo di disturbo:
"Sono dei pazienti caratterizzati da una specifica vulnerabilità, la loro autostima si presenta come insolitamente labile ed in particolare essi sono particolarmente sensibili ai fallimenti, alle delusioni, alle offese. Presentano una sintomatologia che tende ad essere all'inizio poco definita e vaga, cioè il paziente quando si presenta non sa definire bene il suo disagio, non presenta una costellazione di sintomi precisa, come può essere un paziente nevrotico. Quindi è una patologia all'inizio vaga e confusa che però già all'interno dei colloqui di esplorazione psicologica, presenta una costellazione particolare di sintomi che vanno dalla sensazione di vuoto e di depressione sottile e diffusa alla mancanza di entusiasmo, scarsa vitalità, difficoltà nell'ambito della realizzazione lavorativa e sentimentale. Oscillazione nell'area dell'autostima e sensazione diffusa con tendenza alla comparsa di preoccupazioni ipocondriache o di sensazioni di estraneamento che sono legate molto spesso all'angoscia che Kohut dice di frammentazione".
Avete capito il "personaggio"? Un paziente che le ha tutte, ma non ha niente, non ha fobie, non ha attacchi di panico ma è insoddisfatto, la vita non gli sorride, i rapporti vanno sempre male, non sta malissimo però non è nemmeno contento, non riesce ad appassionarsi a nulla, si appassiona a qualcosa e poi disinveste. E' una tipologia che, ve lo assicuro, troverete con una grandissima frequenza.
Come intervenire praticamente? Ve lo accenno in una maniera estremamente sintetica:
Kohut partendo da questa teoria del Sé che deve essere integrato, dice: " Il Sé per essere tale e ben integrato, abbisogna di due coordinate che sono il rispecchiamento" quindi l'essere ammirati, ammirati dalla mamma compiaciuta, dall'altro, apprezzati per quello che si è, " e l'idealizzazione, cioè la possibilità di ammirare". Io bambino, ammiro la mamma, ammiro il papà, sono dei grandi modelli per me e siccome io sono amato da loro, io sono anche parte di questo grande tripudio di ammirazione e di forza.

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Allora: essere ammirati ed ammirare, queste sono le due cose importanti che all'inizio dello sviluppo infantile, quindi diciamo dai due anni in poi, Spitz e anche la Mahler parlano un po' di queste età qui, sono eccessive. Il bisogno di ammirazione e di essere ammirati sono eccessivi.
Dopodiché nello sviluppo la realtà libera piano piano questi aspetti e quindi questo Sé che si è nutrito del rispecchiamento dell'altro e dell'idealizzazione dell'altro, si cementerà abbastanza un po' con la realtà che non sempre è così generosa, e via via costruirà un Sé integrato.
Quando una di queste due coordinate è carente, o tutte e due, peggio ancora, sono carenti , cioè il bambino non è stato sufficientemente ammirato oppure non ha avuto possibilità di idealizzare un genitore, abbiamo un disturbo narcisistico, che è un disturbo dell'autostima.
Qui Kohut lavora su un registro di grande aderenza alla realtà, dice:" E' successo questo, è successo quest'altro, non lo hanno amato , non si è sentito amato…"; cioè lui dà a quello che è veramente accaduto un grande valore, cosa che era andato perso nella psicanalisi originaria. Qui si parlava di trauma, trauma subito, trauma fatto, nell'isteria o nella nevrosi ossessiva, ma questo concetto di trauma veniva via via a sfumarsi nella fantasmatica , nei fantasmi primari, in quella che poteva essere una rappresentazione del mondo che non era legata necessariamente ad accadimenti. Poi si diceva: " Se andassimo a fare delle ricerche, delle interviste, vedere nella storia di queste pazienti, quanto le violenze subite fossero state o meno vere, difficilmente troveremmo qualcosa, è qualcosa più legata al mondo fantasmatico"
Kohut dice: " No, è reale, erano dei genitori che non erano ammiranti"…una parentesi su questo, anche per rispondere ad una domanda che mi era stata fatta questa settimana, a cui risponderò più avanti perché è una domanda molto complessa…la domanda chiedeva se e quanto dire al paziente della nostra teoria. Ecco, io ho avuto a che fare con analisti kohutiani ortodossi, che sono pochi in Itali fra l'altro, e loro mi dicevano che dire al paziente: " Tu non sei stato amato da tua madre, tua madre si comportava così con te, tu non potevi idealizzare tuo padre perché…etc. etc". Dare una lettura pratica e reale di tutto quello che è accaduto, è una prassi molto comune.
Quindi i Kohutiani tendono a dire apertamente quello che è accaduto, anche se lo strumento terapeutico è un'altra cosa. Una carenza dell'aspetto del rispecchiamento e dell'idealizzazione porta ad un disturbo narcisistico. L'analisi è una seconda occasione che la persona ha nella vita di demendare queste carenze.
Nell'analisi il paziente tenderà a ricostruire parti che furono carenti allora, o il rispecchiamento o l'idealizzazione, quindi lui tenderà , all'interno della seduta analitica o a idealizzare l'analista o a cercare di suscitare a tutti i costi la sua ammirazione.
A differenza dell'analisi classica, in questo caso l'analista, secondo le indicazioni di Kohut, non dovrà interpretare questo bisogno di rispecchiamento o il bisogno di idealizzare l'analista come delle resistenze o delle difese, perché classicamente, il paziente che dice: " Ma lei dottore è fantastico, è meraviglioso" (come fa De Niro nel film "Pallottole e terapia") veniva interpretato come una difesa, come un modo per tenere lontano l'altro idealizzandolo per non metterlo in gioco.
Kohut dice: No, attenzione, questa idealizzazione del terapeuta è necessaria perché dobbiamo dargli oggi la possibilità di ricevere ciò che allora non ebbe, quindi nella dimensione della terapia, il fattore tempo è fondamentale. Oggi, qui ed ora, hic et nunc, tutto quello che noi facciamo, emenderà, trasformerà, cambierà quello che avvenne ieri. Quindi non è più la dimensione Conscio-Inconscio, non consapevolezza, pulsioni istintuali e conoscenza ad avere rilevanza ma è Ieri e Oggi. Quello che ieri non hai elaborato, oggi ti darò quel modello che tu allora non hai avuto e in questo modo costituirò il tuo Sé".

Allora in questo modo non servono interpretazioni, l'importante è creare un clima terapeutico, un clima di benevola ammirazione, un clima di empatia, dirà Kohut, o clima in cui il paziente possa anche idealizzare il suo analista e possa avere e portare a termine questa seconda occasione che egli aveva perso quand'era ancora bambino.
Anche per oggi il nostro tempo è finito. continueremo la prossima volta proprio con Kohut.
Buon lavoro a tutti.



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