Prof. Antonio Maria Favero ~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~ Riprendiamo il nostro discorso sull'identificazione proiettiva, dicendo che essa è un processo che coinvolge due soggetti: un inviante ed un ricevente. Idealmente l'inviante invia al ricevente dei contenuti psichici grezzi, non elaborati indicati da Bion come elementi Beta- , che, per mezzo dell'identificazione proiettiva, verrebbero depositati nel ricevente affinché egli se ne faccia carico, li elabori, dia loro un senso e li restituisca elaborati all'inviante. Tale processo di contenimento, elaborazione e costruzione di senso è stato definito da Bion come funzione Alfa. Quando il ricevente restituisce all'inviante gli elementi Beta elaborati, quest'ultimo li interiorizza: ciò che viene interiorizzato è generalmente un meccanismo di difesa. In altre occasioni questo meccanismo circolare si spezza e L'elemento beta, anziché venire iniettato proiettivamente in un Altro (umano), viene "gettato fuori" dal soggetto verso la sua realtà esterna. Ed è proprio da questa realtà esterna che il contenuto così espunto fa ritorno in forma di allucinazione o costrutto delirante. C'è anche però da dire che, per esempio nel cosiddetto "delirio a due", è un Altro (umano), non la realtà esterna, che restituisce un elemento beta non elaborato né aderente al campo simbolico condiviso, ma funzionale a motivazioni autistiche della coppia. Ma questo è solo un accenno, questi concetti un po' complessi che andrebbero meglio approfonditi. Ma torniamo al nostro processo iniziale avente un mandante ed un ricevente. Quando si attualizza la funzione Alfa nella realtà clinica, non segue sempre il processo ideale che abbiamo descritto, ma finisce con l'essere influenzata da evenienze che possono interromperne la continuità ed ostacolarne il pieno funzionamento. Questo venir meno della funzione elaborativa ideale può essere considerato come l'effetto di uno scacco delle capacità del terapeuta di utilizzare le risorse del proprio mondo interiore, di fronte alle insostenibili identificazioni proiettive del paziente. Dobbiamo comunque ricordare che tale mancanza può costituire anche una modulazione difensiva in grado di proteggere tanto il terapeuta quanto il paziente, garantendo ad entrambi la possibilità di continuare a sostenere la prosecuzione della terapia. Possiamo ipotizzare tre scenari per descrivere quelle che possiamo considerare delle eccezioni alla situazione ideale di cui dicevamo all'inizio, scenari attraverso i quali rappresentare ciò che accade in una psicoterapia psicoanalitica allorquando il terapeuta, destinatario di un processo di identificazione proiettiva, venga a mancare delle seguenti funzioni:
I tre scenari ipotizzati (che chiameremo, rispetto alle funzioni suddette, rispettivamente: parete impermeabile, scambio tautologico e accumulo oblativo sacrificale) benché possano portare alla rottura o alla cristallizzazione del rapporto terapeutico, possono anche rappresentare, nella loro forma più comune, un tessuto connettivo senza il quale non potrebbero prendere corpo quei fantasmi, quelle emozioni e quei contenuti che costituiscono la specificità e l'unicità del campo relazionale in cui si svolge l'incontro tra paziente e terapeuta. Un atto interpretativo, inteso nella sua più ampia accezione, acquista infatti il suo senso più pieno e mutativo solo se emerge sullo sfondo di momenti di attesa, ascolto, inintelleggibilità, sospensione e reciproco distacco, momenti senza i quali la differenza tra figura interpretativa e sfondo difensivo verrebbero ad annullarsi fino a svuotare di ogni significato il quadro terapeutico. Quando manca il contenimento: la parete impermeabile Il primo scenario riguarda una modalità di interazione in cui l'inviante tenta di depositare nell'altro i suoi oggetti psichici intollerabili, ma non riesce in questa operazione poiché l'altro antepone ad essi una sorta di metaforica parete difensiva, che impedisce ogni penetrazione e rimanda all'inviante il suo oggetto tale e quale era stato inviato; ciò che viene comunicato dall'inviante viene cioè respinto, spesso attraverso la frettolosità, la facile liquidazione del problema che egli porta, di fronte al quale il ricevente si porrebbe in una posizione di aiuto rimanendo però sordo all'angoscia dell'altro. Accade spesso, nel rapporto terapeutico, che questo atteggiamento di ricevente impenetrabile sia determinato da una fede cieca in una teoria da parte del terapeuta, che sarebbe particolarmente attento a non commettere errori tecnici ma poco empatico: in questo modo verrebbe ad essere preclusa la possibilità di entrare in una relazione di ascolto autentico, mentre prevarrebbe, da parte del terapeuta, un atteggiamento di frettolosità interpretativa che non permetterebbe agli elementi beta di configurarsi in un autentico spazio transferale. La parete impermeabile rappresenta spesso un tentativo di difendersi dagli angoscianti elementi beta portati dal paziente. Questo aspetto difensivo può essere considerato sotto due diversi punti di vista: se, infatti, da un lato essa può condurre quantomeno ad un malessere del paziente che nel non trovare nel terapeuta un interlocutore sufficientemente coinvolto sentirà venir meno il carattere trasformativo, emozionante e sorprendente della relazione terapeutica- , dall'altro può svolgere una funzione di protezione, tanto per il terapeuta quanto per il paziente. L'atteggiamento di chiusura, di forzato non-coinvolgimento possono rivelarsi infatti delle unità salvifiche per il terapeuta, che in questo modo non si farebbe travolgere da affetti ed emozioni per lui inamministrabili, che potrebbero devastarlo; allo stesso tempo questo processo difensivo può portare al paziente il beneficio di percepirsi come una persona la cui distruttività può essere ben sostenuta dall'altro. In questo modo l'utilizzo della parete impermeabile benché non conduca ad alcuna elaborazione dei contenuti angoscianti portati dal paziente- può aver sortito l'effetto di consolidare la relazione e costituire la base per un successivo scambio veramente elaborativo. Quando manca l'elaborazione: lo scambio tautologico Lo scambio tautologico rappresenta una situazione in cui chi riceve il contenuto grezzo lo accoglie in sé, lo confronta con gli oggetti del suo mondo interiore e, infine, lo restituisce senza tuttavia apportarvi alcuna modifica; possiamo dire che in questa modalità di interazione vi è, da parte del ricevente, un transitorio contenimento, privo però di significative elaborazioni.Nella situazione psicoterapeutica può per esempio accadere che l'analista, pur sentendosi emozionalmente toccato da un angoscioso appello del paziente, non riesca a rispondere ad esso se non con vuote e formali rassicurazioni, o pseudo-interpretazioni, che non modificano né l'assetto intrapsichico del paziente né la qualità del rapporto analitico; il ricevente entra cioè in contatto con il contenuto in lui proiettato, ma, non sentendosi attrezzato per elaborarlo, lo riproietta a sua volta all'inviante. Lo scambio tautologico spesso rappresenta una fase della relazione terapeutica apparentemente di stallo, in cui terapeuta e paziente si parlano, ma senza arrivare a nulla; il terapeuta allora, spinto dall'incalzante pressione transferale, potrà cercare delle coordinate teoriche al fine di dare al paziente una buona risposta cognitiva: questo non cambierà nulla dal punto di vista del rapporto terapeutico, in quanto- per quanto raffinata dal punto di vista teorico- la suddetta risposta cognitiva renderà al paziente lo stesso contenuto che il terapeuta aveva ricevuto, tuttavia è un buon primo passo. Dobbiamo infatti tenere presente che, specie all'inizio della relazione terapeutica, lo scambio tautologico è un momento costruttivo, che viene utilizzato dal terapeuta e dal paziente per conoscersi ed entrare in un rapporto di fiducia reciproca. Quando manca la restituzione: l'accumulo oblativo sacrificale Parliamo di accumulo oblativo sacrificale in relazione all'atteggiamento terapeutico di coloro che tendono a raccogliere in sé gli elementi beta inviati dal paziente ma, anziché elaborarli e restituirli dando avvio ad un sistema di reciproco scambio, li tengono per sé e cercano di controllarli mediante le proprie risorse difensive intrapsichiche. Per questi terapeuti, che nei casi più estremi appaiono molto coinvolti e sempre disponibili a farsi carico degli episodi più critici dei loro pazienti, è come se la relazione clinica consistesse in un continuo lavoro di contenimento in cui le parti grezze inviate loro dal paziente per mezzo dell'identificazione proiettiva, venissero fatte proprie e confuse con quelle preesistenti nella loro realtà psichica individuale. Ne consegue una scena in cui il flusso delle identificazioni proiettive sembra procedere in un'unica direzione, cioè dal paziente al terapeuta, senza che vi sia alcuna restituzione da parte di quest'ultimo. In tale scenario, le identificazioni proiettive del paziente raggiungono comunque un loro primo importante scopo che è quello di espellere ciò che è intollerabile e depositarlo nell'altro affinché questi lo contenga e se ne faccia carico. Nel paziente tutto ciò non può che provocare un significativo, anche se momentaneo, effetto sedativo per le sue angosce, un effetto che può dargli la gratificante sensazione di relazionarsi con un terapeuta altamente oblativo e funzionale. Tuttavia venendo a mancare la restituzione di contenuti elaborati, restituzione che è pur sempre una forma di alleggerimento per il terapeuta, questi finirà col sentirsi sempre più oppresso da ciò che gli viene evocato dalle identificazioni proiettive del paziente. Si tratta insomma di contenuti che, una volta inglobati nel mondo interno del ricevente, non riescono a trovare una via d'uscita attraverso la quale potersi reintegrare in un fecondo spazio relazionale. Proprio in questo intossicante ed opprimente accumulo è individuabile il versante sacrificale dello scenario che stiamo esaminando. Utilizzando un'immagine tennistica, la situazione oblativo-sacrificale potrebbe far pensare ad un giocatore-paziente che lancia decine di palline all'indirizzo di un giocatore-analista, il quale, anziché rimetterle in gioco rilanciandole, se le mette in tasca, diventando, di conseguenza, sempre più goffo ed impacciato nei movimenti. Tuttavia questa modalità è talvolta l'unica possibile allorquando ci si trovi di fronte alle massicce identificazioni proiettive che caratterizzano determinati accessi psicotici; in questi casi, lo scacco della possibilità di dare interpretazioni, se accompagnato da una sensibile ricettività empatica, finisca spesso col creare un profondo ed inspiegabile malessere nel medico, malessere che, generalmente correlato con la remissione dell'angoscia nel paziente, costituisce l'oneroso prezzo psicologico di quello che si chiama comunemente contenimento della crisi. Nella situazione che si costituisce attorno all'accumulo oblativo sacrificale, l'effetto clinico più frequente è una stasi colma di aspetti gratificanti per il paziente, che si sentirà però sempre più dipendente da un terapeuta così facilmente penetrabile, contenitivo, premuroso e oblativo, un terapeuta che, in sostanza, legittima e abita lo spazio transferale che realizza il fantasma del paziente; a questo proposito possiamo ritenere che la sindrome del burn-out sia un tangibile effetto del prolungato e non analizzato persistere di un accumulo oblativo sacrificale. Nella situazione psicoterapeutica, ciò che determina l'attualizzarsi di uno dei tre scenari piuttosto che di un altro è il combinarsi di tre fattori:
Una buona funzione alfa, reciproca e condivisa, è un piacevole nutrimento che innesca la cosiddetta "conversazione felice" che coinvolge entrambi i membri della coppia analitica. Domanda: se il paziente non riesce a comprendere l'elaborazione del terapeuta cosa accade? E' una funzione alfa incompleta o fallita. Non succede nulla, questo è il guaio. Si riproverà in un tempo successivo. Ma certamente il terapeuta non potrà restituire quelle difese che egli stesso non possiede: per questo nessun paziente, con l'analisi, potrà andare oltre quella condizione esistenziale cui è giunto il suo analista. Domanda: vorrei parlasse del rischio, come psicoterapeuti, di proiettare i nostri elementi psichici grezzi nell'incontro con il paziente piuttosto che favorire l'insight, e la consapevolezza di tale rischio. E' un rischio costante di cui, grazie all'analisi personale e alla supervisione, il terapeuta dovrebbe (almeno in gran parte) essere consapevole. Non è sempre così, ovviamente, ma dovrebbe esserci almeno un "tendere verso.." l'evitamento di tali rischi. Comunque non ci sono ricette per evitarlo, si spera solo che il paziente sappia difendersi adeguatamente da queste pioggie acide. Per oggi il tempo a nostra disposizione è terminato. Ci fermiamo qui. Buon Lavoro a tutti voi. |