Prof. Antonio Maria Favero ~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~~ Oggi cominciamo con dei casi clinici: alcuni di essi sono tratti da libri, altri sono miei; da qui partiremo a sviluppare la teoria. Il primo caso è di Antonino Ferro: ascoltatelo lasciandovi un po' andare, non prestate troppo orecchio; cominciate ad esercitarvi a quella che si chiama attenzione fluttuante. Quello dell'attenzione fluttuante sarà un tema di cui oggi parleremo abbastanza, e che contrapporremo a quella che potrebbe essere definita una ricerca attiva, dentro se stessi, di elementi empatici. Queste sono le due coordinate entro le quali si svolge il nostro lavoro di ascolto dei pazienti. E' necessario quindi esercitarsi, anche quando si ascolta un testo o la relazione di un caso clinico, a questo doppio polo dell'attenzione fluttuante da un lato e dell'attiva ricerca di elementi empatici dall'altro. Per ora lasciatevi andare tranquillamente, cercate di essere il più vuoti possibile, ascoltate il caso, vedete le emozioni che vi evoca e poi confrontatele a quello che può essere lo sviluppo concettuale. "Mimmo viene in analisi per un malessere molto indefinito, che lo porta a trascurare gli studi, a lasciarsi andare, ad annoiarsi, spesso a lamentarsi." Vi descrivevo le sindromi narcisistiche, i disturbi del Sé, i disturbi dell'autostima come problematiche molto frequenti; vi capiterà molto spesso di incontrare questa tipologia di persone. "Quando lo vedo alla porta, nel suo grigio vestito da uomo, penso: - Che noioso e conformista che deve essere: mi sembra l'ultimo sopravvissuto di un'altra epoca.- Poi percepisco come un guizzo improvviso nei suoi occhi, che mi fa inaspettatamente pensare: - O forse no? Sembra un selvaggio.- I primi tempi sono duri, con lunghi silenzi da parte mia: c'è noia e sonnolenza, sento che vi è qualcosa che viene addormentato, ma non capisco bene cosa, né trovo vie per aprire una breccia verso qualcosa di più vivo e vitale." Anche questo è un clima frequente nel nostro lavoro: c'è un primo colloquio interessante in cui il paziente ci seduce, ci piace, ci interessa, poi il lavoro spesso cade in una routine talvolta noiosa, sonnolenta. "Andiamo avanti così, sicché ci capita un incidente del tutto inconsueto." Non trascurate mai la portata degli incidenti che avvengono nel rapporto terapeutico: gli incidenti non sono mai casuali. Ce l'ha insegnato Freud ne La psicopatologia della vita quotidiana e lo impariamo tutti i giorni quando nella routine - così nebbiosa, così anonima- si inserisce un fatto nuovo, un fatto sorprendente: lì è sempre una svolta, bisogna saperla cogliere, bisogna saper imparare cosa c'è dietro. "Una sera d'inverno, mentre comincia un temporale, va via d'improvviso la luce. Non sono attrezzato a far fronte a quest'evenienza, perché in tanti anni non mi era mai capitato, ma mentre rimango al buio sono invaso da un terrore indicibile, che tutt'oggi non so descrivere." Chi ha orecchio per il discorso dell'Identificazione Proiettiva cominci a pensare a questo meccanismo; vi ricordate l'identificazione proiettiva? Un immotivato sentimento forse (usiamo l'ipotesi forse) indotto dall'Altro. "Un vero e proprio panico." L'analista è nel suo studio con questo ragazzo, grigio e anonimo ma un po' selvaggio; manca la luce, c'è il buio e c'è il panico, un panico ingiustificato vista l'evenienza fattuale. "Ho il terrore che Mimmo mi possa saltare addosso, uccidermi, pugnalarmi, squartarmi. Immagini di una violenza inaudita mi invadono la mente. Nel frattempo Mimmo continua a parlarmi con la stessa voce monotona. Torna la luce, la seduta continua, ma ho queste scene che mi si sono aperte dentro che non so come utilizzare. Decido di soprassedere, ma sono in tensione; alcuni giorni dopo, la mia attenzione è attratta da un basco che Mimmo comincia a portare in seduta." Immaginatevi questo ragazzo strano: un giovane con un vestito grigio da uomo, che da un certo periodo in poi viene in seduta con un basco, un cappello abbastanza originale, insolito, quantomeno non adatto all'abbigliamento che lui abitualmente porta. Ferro scrive appunto: "Un elemento in assoluta dissintonia con il suo vestire, e una volta che esso gli cade per terra all'uscita, mi trovo a raccogliere il basco." A Mimmo cade per terra il berretto e l'analista dice: Mi trovo a raccogliere il basco. "A questo punto ho un'intuizione, che mi consente di collegare quanto avevo vissuto, quanto avevo cominciato a notare rispetto ad una tendenza a mie interpretazioni non sufficientemente modulate con quanto sta accadendo, e mi dico: - E' proprio il Basco che bisogna raccogliere! -" In questa seconda accezione, Basco ha il significato di uomo dei Paesi Baschi: - E' proprio un Basco che devo raccogliere! - Attenzione che qui stiamo utilizzando un modalità di analisi che non si basa sui contenuti, sui concetti, bensì sui significanti, cioè sulle parole, sulla materialità del suono, sull'elemento letterale slegato dal significato: il berretto cosiddetto basco infatti (credo che sia un berretto di origine francese) ha la stessa struttura verbale e fonetica della parola con cui indichiamo una persona dei Paesi Baschi: allora l'analista raccoglie il basco nel senso che mentre raccoglie il berretto gli viene un collegamento del tipo: Io devo raccogliere il Basco, cioè colui che proviene dai Paesi Baschi. "La seduta successiva faccio cautamente entrare in scena questo personaggio: il basco che cade, e che forse tocca a me raccogliere, non è forse un Basco di cui non ho mai avuto sentore?" Ripeto: il basco che cade cioè il berretto che cade -, e che forse tocca a me raccogliere, non è forse un Basco - cioè un ragazzo basco, un ragazzo spagnolo- di cui non ho mai avuto sentore? Una breve parentesi: vi ricordate quando Freud ne L'interpretazione dei sogni parla di una modalità interpretativa del sogno che è quella di considerare il sogno come un rebus? Praticamente il rebus è quel gioco enigmistico in cui determinate figure vengono chiamate col loro nome, vengono associate a determinate lettere, e dall'associazione risulta una frase; ora la figura del rebus, prima che noi lo risolviamo, può essere un paesaggio: generalmente ci sono due donne pie, una casetta sullo sfondo, un amo da qualche parte, una rete di pescatore, qualche C, qualche L, una scena bucolica o marina; di solito sono questi gli scenari dei rebus, dai quali otteniamo un proverbio, roba che non c'entra assolutamente nulla con l'immagine che vediamo. Freud dice che nel sogno accade qualcosa di molto simile: quando noi raccontiamo un sogno lo narriamo nel suo contenuto manifesto; c'è una possibilità di decodificare il sogno e trovarvi degli elementi latenti che sono assolutamente straordinari, assolutamente eterogenei rispetto al contenuto del sogno stesso. Vedremo che sogno, delirio e realtà se non sono fratelli sono cugini, cioè sono delle modalità di elaborare i contenuti Beta non risolti in cui noi costruiamo quello che vogliamo costruire e vediamo quello che vogliamo vedere. Ciò legittima questa tecnica, questa possibilità di accostamento al contenuto del paziente che si basa sulla parola, nella fattispecie la parola basco: quindi non sul significato del basco. Sono infatti due cose diverse, perché il basco inteso come berretto non c'entra un accidente con l'abitante dei Paesi Baschi; questi due significati non hanno nulla a che fare l'uno con l'altro se non la struttura fonetica della parola, il nome, che nel nostro lavoro ve ne accorgerete- ha tanto più peso del concetto: è infatti attraverso i nomi che si costruiscono i sogni, attraverso le assonanze del nome, da cui nasce anche la poesia. "Si sviluppa da questo momento in avanti tutto un racconto sui Baschi, sull'importanza che le miniere di ferro hanno per la loro economia " Una nota che dovete sapere, egualmente collegata al significante, è sul fatto che le miniere di ferro hanno una grande importanza per l'economia dei Baschi; l'analista che scrive questo articolo si chiama Ferro di cognome: anche qui si gioca molto sulla parola. " e sul particolare carattere esplosivo che li contraddistingue tristemente i Baschi sono famosi per l'ETA- ,anche se recentemente un giovane Basco ha sposato una sua cugina cui è molto affezionato, e lui (Mimmo) si è persino interessato alla loro lingua, che sembra non appartenere ad alcun ceppo conosciuto. E poi le bombe: sul bisogno di indipendenza dei Baschi, sulle sopraffazioni dell'identità Basca, sino, in sedute successive - passando attraverso racconti di film, i bisonti delle Americhe, gli animali feroci di un viaggio recente in Africa, dove il papà ha inaspettatamente avviato un'attività di import-export -, ad arrivare al dramma degli Albanesi e dei loro bisogni." Cosa succede qui? Nel momento in cui l'analista ha l'intuizione, attraverso questo raccogliere il berretto basco, che c'è in questo ragazzo qualcosa che ha a che fare col terrorista Basco, la sola consapevolezza di questo concetto da parte dell'analista, che non comunica verbalmente al paziente la propria intuizione, porta il paziente stesso ad una catena associativa, che qui viene riassunta brevemente, che tocca tutti questi aspetti qui, finendo agli Albanesi, a storie di profughi, di ribellioni, di ingiustizie, di viaggi, di bisonti, di animali, di tutto quello che qui è stato riassunto. Praticamente la consapevolezza di un'identificazione proiettiva mette in moto una serie di contenuti verbali; tutte le analisi sono piene di queste cose, io direi che tutte le relazioni umane lo sono, solo che non le cogliamo. Solo nello spazio della terapia ci si prende l'onere di raccoglierle e di impararne qualcosa , ma tutti i rapporti umani sono carichi di questo sottofondo immaginario e immaginifico. "Una breve riflessione sui personaggi: essi dapprima erano stati aggregati nella mia mente a partire verosimilmente dalle identificazioni proiettive di Mimmo .." D: Lei ha detto identificazione proiettiva, ma intende che l'identificazione proiettiva del terapeuta porta il paziente a dire certe cose? Diciamo così: la restituzione che viene fatta porta il paziente a dire certe cose. La prima identificazione proiettiva avviene quando manca la luce: è un'identificazione proiettiva in un contesto regressivo - quindi è facilitata- in cui il paziente proietta sull'analista questi elementi Beta di angoscia, di terrore, ingiustificati. Ricordiamo che l'analista ha il terrore di essere accoltellato, di essere squartato, di essere ferito in questa circostanza di buio. Questa è una prima fase di identificazione proiettiva. La funzione Alfa di elaborazione manca nel terapeuta, in quanto egli vive l'angoscia in senso pieno, non elaborato; nel momento in cui il terapeuta realizza che in questo giovane grigio e anonimo vi è un Basco, cioè vi sono aspetti di terrore, nel momento in cui realizza che bisogna raccogliere l'elemento trasgressivo e bombarolo di questo ragazzo, è sufficiente che abbia in mente questo affinché avvenga una sorta di restituzione. Probabilmente - qui non è spiegato, ma è senz'altro così- tutto quello che da quel momento in poi, orientato dalla consapevolezza, l'analista dirà al paziente funge da restituzione, che chiamiamo la terza parte dell'identificazione proiettiva. In questo caso possiamo quindi parlare dell'identificazione proiettiva dell'analista verso il paziente, ma in forma di restituzione: questo mobilita nel paziente tutte le associazioni che abbiamo visto, che sono molto pertinenti, in quanto vediamo storie di deportazione, di dolore, di morte. Fare luce sul meccanismo dell'identificazione proiettiva è molto utile, anche se, affinché funzioni, è necessario averlo presente e poi dimenticarlo, in quanto è come l'arte della spada: perché funzioni bisogna dimenticarla. L'altra volta chiedevate come si fa a sapere; in questo caso è piuttosto evidente: non è successo niente, l'analista è nel suo studio, manca solo la luce, è con un buon ragazzo vestito di grigio: perché dovrebbe pensare che questo si alzi, lo faccia a pezzi, lo distrugga, gli dia fuoco? Perché mai? E' ingiustificato, quindi possiamo probabilmente pensare all'introiezione di un elemento Beta. L'analista è riuscito ad introiettarlo, non ha messo un muro davanti, se l'è presa tutta l'angoscia, tutta la paura, e questa è una cosa che ha funzionato, nel senso che si è bucato l'Io pelle, ed il contenuto del paziente è entrato dentro l'analista. In questa fase però siamo in sospeso, non abbiamo concluso granché; probabilmente il paziente starà un po' meglio perché ha messo dentro l'analista un po' di questo terrore, ma non abbiamo ancora risolto nulla. Accade l'incidente del basco, l'analista raccoglie il basco e c'è quest'intuizione, questa simbolizzazione, questo costrutto dato l'elemento grezzo, questa funzione Alfa direbbe Bion che è intrapsichica nella prima fase; l'elemento Beta, informe, diviene quindi un elemento elaborato sta a vedere che questo paziente è un Basco; io non ho colto l'aspetto Basco in questo ragazzo, e di questo devo farmi carico -. Avviene quindi un momento di restituzione, in cui l'elemento Beta, informe, viene a sostituirsi con un concetto ben più elaborato, che permette al paziente di mandar fuori tutta una serie di cose. Sono queste le tre fasi che dovete avere ben presenti; attenzione però a non cadere nell'ingenuità che questa restituzione sia necessariamente in forma di interpretazione (del tipo: Guarda che ho capito che tu hai dentro di te un Basco che vuole uscire, un terrorista Basco): non è assolutamente detto che l'interpretazione sia il modo privilegiato di comunicare queste cose. Tecnicamente questo modo di operare viene chiamato saturazione, per cui saturiamo il rapporto dando spiegazioni; non occorre assolutamente saturare: la consapevolezza - il sapere, l'avere piena coscienza di un meccanismo - possiamo tenercela dentro, in quanto comunque rimane appiccicata a tutte le parole che diremo, a tutti i gesti che faremo. Lavoreremo per identificazione proiettiva: comunque arriverà qualcosa al paziente, l'esperienza clinica ce lo conferma. Tant'è che questo giovane grigio, che, chissà, avrà perso ore di sedute a raccontare della scuola o dei cartoni animati che vedeva, in realtà comincia a parlare di storie a tinte forti; salta fuori un cugino realmente Basco, saltano fuori storie di Albanesi e altre cose. D: Secondo Lei il fatto che questo ragazzo si presenti in seduta con questo basco è del tutto casuale o è un messaggio rispetto a qualcosa che vuole affrontare? Sostanzialmente penso che sia un messaggio, non consapevole D: una strada che anche lui sta cercando, così come l'analista ha recepito l'angoscia, anche lui cerca di dire: Se tu hai recepito la mia angoscia io ti do un mezzo per decodificarla o è una casualità? Mi resta un po' un dubbio Non abbiamo prove né dell'uno né dell'altro. A noi piace pensare che sia un segnale, e, se è vero che è un segnale, chissà quanti altri ne sono arrivati e ci sono sfuggiti. Noi sappiamo la storia di questo segnale che è arrivato a buon fine; quanti altri vengono perduti per strada? Forse le analisi sono così lunghe perché si perde per strada tanta roba, e non tutti si è così pronti da cogliere D: io mi chiedo quanta parte c'è di casualità e quanta parte ha invece in sé un momento di genialità D'altra parte le grandi scoperte scientifiche sono un po' casuali, un po' errori e un po' frutto di conoscenze; l'importante è essere pronti, nel senso di avere un terreno psicologico. Io spero che durante questo seminario si arrivi a definire bene qual è questo terreno psicologico che rende particolarmente recettivi a questo tipo di comunicazioni. D: Un altro dubbio che mi rimane riguarda la questione del comprendere, dell'accogliere, per cui non si può parlare di errori bensì, appunto, di comprensione ed accoglimento; rifletto però sul fatto che il terapeuta non sempre riesce a comprendere e ad accogliere: mi viene in mente la protagonista del film Diario di una schizofrenica, che stava per ammazzarsi, che stava per morire. Se l'avessero soccorsa solo un attimo più tardi, la terapeuta avrebbe avuto poco da accoglierla sarebbe morta. Quindi l'errore se non vogliamo usare questo termine, comunque c'è un movimento mi trovo sempre in imbarazzo tra la casualità e la volontà di accogliere In terapia si fanno anche spesso degli errori a proposito di questa osservazione interessante che sta facendo la vostra collega, tratteremo senz'altro durante un lezione ciò che concerne l'empatia. In relazione a quest'ultimo intervento, in linea di massima possiamo dire questo: il perdurare della relazione terapeutica è il primo indice che ci dice che la relazione sta funzionando, che la terapia sta andando avanti. Ricordatevi che un grosso lavoro che dovrete fare, specialmente nelle prime 10, 15, 20 sedute, è quello di lavorare affinché la relazione continui; il primo obbiettivo non è guarire, curare o comprendere, bensì favorire tutti quegli aspetti che permettono alla relazione di continuare, perché se la relazione continua tutto quello che avviene è all'interno del processo relazionale. Anche se ci sembra di salvare il paziente all'ultimo minuto, per cui potremmo trovarci a dire: Bastava un minuto dopo e l'avrei perso, Bastava non aver colto questo particolare e la terapia non sarebbe andata, apparentemente questa è la storia che ci appare, ma, all'interno di una relazione, noi siamo ben corazzati e ben sicuri del fatto che le cose funzionino se la relazione dura. Direi quindi che è solo apparente il brivido che potremmo provare nel pensare che sarebbero bastati 30 secondi in più e tutto sarebbe stato perduto; se la relazione c'è nulla è perduto. Si possono fare degli errori empatici; bisogna avere l'onesta intellettuale di riconoscere che quando il paziente va male, quando ci aggredisce, quando lo perdiamo può essere stato un errore nostro. Se si è lavorato bene prima però difficilmente si tratterà di errori irreparabili. Questo argomento meriterà un lavoro seminariale nostro a parte, perché è un discorso di non poco conto. Un'ultima osservazione che fa Ferro rispetto a questo caso è la seguente: "Un caso come questo mi sembra porre due problemi: quello della permeabilità rispetto alle identificazioni proiettive - e quindi della necessità che il più possibile di ciò che proviene dal paziente possa trovare accoglienza - e il problema, non da meno, del limite dell'ipotesi interpretativa." Io mi fermerei qui rispetto a questo caso del ragazzo perché già mette abbastanza carne al fuoco; volevo invece parlarvi di un altro caso, mio, molto più breve, che è sulla linea di questo Caso del Basco, anche se la modalità è un po' diversa e forse un po' più attiva. Voi avete presente che spesso lo avete visto anche voi e molti di voi lo vedranno , mentre si ascolta qualcuno che parla, viene spontaneo disegnare su un pezzo di carta: uno fa le stelline, le freccette, i quadrettini e così via; mi risulta che qualcuno abbia anche ipotizzato delle diagnosi psicologiche sui pasticci che una persona fa quando aspetta (gli scarabocchi). Anche in molti resoconti di cronache di processi americani, per esempio in cui c'è in ballo la condanna a morte, si vede il giudice che pasticcia, che scarabocchia; diventa allora anche interessante soffermarsi su che cosa rappresentino questi scarabocchi. Io credo che anche questo tipo di scarabocchio possa essere una linea guida, non certo per definire la personalità di chi disegna perché personalmente non ci credo molto, anche se poi qualcuno potrebbe argomentare il contrario -, ma per capire che cosa sta succedendo in un certo ambito relazionale. Vi parlo allora di un mio scarabocchio: io di fronte ad una paziente che mi sta parlando di cose sue (sinceramente penso sia irrilevante dire di cosa stesse parlando). E' un'analisi piuttosto lunga, piuttosto complessa: ascolto, non so dove voglia andare a parare; è una delle tante sedute anonime, in cui cerco un po' di ascoltare ed un po' di lasciarmi andare ai pensieri per vedere dove mi portano, quali risonanze evocano. Io disegno, non amo fare pasticci tipo quadrettini, freccioline o scarabocchi: generalmente faccio dei disegni figurati che mi vengono al momento. Non lo faccio sempre, non vi sto spiegando una tecnica che utilizzo sempre; talvolta lo faccio, talvolta no. Vi prometto anzi di dedicarvi un'intera lezione al tema dello scrivere in analisi, cioè a cosa scrivere, cosa non scrivere e perché scrivere quando si è in terapia. Noi siamo abituati a vedere, nei film e nella letteratura, l'analista che ha sempre il suo blocco di appunti e che scrive, quando, se ben ricordate, negli scritti tecnici, Freud raccomandò di non scrivere nulla e di lasciarsi andare all'ascolto fluttuante. Ciò non toglie che noi siamo liberi di scrivere - per darci un contegno, per ripararci dallo sguardo dell'Altro - o che si possa scarabocchiare. Vi segnalerò anche un mio articolo, uscito di recente, proprio su questo tema dello scrivere, della scrittura in terapia. Chiusa parentesi. Durante la seduta a cui ho poc'anzi accennato io sto disegnando un aeroplano; stranamente mi salta fuori un aereo. Mi lascio andare a questa fantasia, mentre questa donna parla di tutt'altra cosa fuorché di un aereo; io però disegno un aereo. Perché? Non me lo chiedo più di tanto e mi lascio andare a questo disegno; ad un certo punto mi accorgo che sto sottolineando in maniera particolare la cabina di pilotaggio. In quel momento mi viene in mente un'altra paziente, che non c'entrava nulla con questa, che di professione faceva l'hostess, e che spesso nelle sue sedute mi aveva spesso raccontato delle riunioni che avvenivano in cabina di pilotaggio. Quindi io associo il mio disegno dell'aereo e la cabina di pilotaggio a quell'altra paziente, all'hostess, e mi chiedo come mai, visto che quella che avevo di fronte certamente non era un'hostess, certamente aveva un'altra età, e allora la prima cosa che mi viene in mente è che questa hostess era una persona molto sola: era una persona , nonostante fosse sposata da vent'anni era allora un'hostess in pensione di una solitudine straordinaria, che nonostante la sua vita fosse piena di contatti, di relazioni, viveva una solitudine abissale. Dunque, disegnando l'aereo, io avevo disegnato qualcosa che concerneva quella paziente; forse la solitudine era proprio il giunto che congiungeva il mio disegno alla paziente che avevo di fronte (è un po' come il basco che si diceva prima). L'aver in mente che forse questa donna che portava tutt'altri problemi, mi testimoniava un vuoto profondo, una grande solitudine, rompe quella monotonia e apre qualcosa di nuovo (è il basco dell'esempio che dicevamo prima). Improvvisamente, nel momento in cui io ho in mente questo tema della solitudine, riesco a farmi strada tra le migliaia di associazioni, di contenuti che questa mi manda, ed entrare in una relazione nuova. Ha funzionato; questo è un altro esempio. Allora: qual è l'atteggiamento che noi dobbiamo porci di fronte ad una terapia? Leggerete dell'ascolto fluttuante e vi leggerò anch'io un articolo su che cos'è l'ascolto fluttuante; ne parla a lungo Freud, e consiste grossomodo nel porsi in un modo molto rilassato, non ascoltando molto i contenuti di ciò che ci viene detto, ma ascoltando invece molto i territori emotivi-affettivi che vengono evocati dal racconto dell'Altro dentro di noi. Dove mi porta il discorso dell'Altro? Che emozioni mi provoca? A chi mi fa pensare? Che associazioni mi porta? Questo è l'ascolto fluttuante: non mi interessa molto sentire nei dettagli quello che la persona mi racconta, bensì vivere ciò che mi viene raccontato come veicolo di emozioni che verranno suscitate in me. Questo è un atteggiamento che si chiama attenzione fluttuante: un atteggiamento di epochè, di sospensione del giudizio, un atteggiamento di non ricorso a testi sacri (Ah, questa paziente mi ha detto così, come diceva quell'autore, quindi ha questo tipo di disturbo), per cui ascoltiamo, annullando ogni memoria e ogni desiderio, come diceva Bion; ricordate Bion? Egli diceva: Fate le sedute senza memoria né desiderio. Non occorre fare il punto della situazione, chiedendoci per esempio a che punto siamo, cosa è stato detto nelle sedute precedenti; Bion dice: Vivete ogni seduta come fosse la prima, ossia vivetela nel momento del qui ed ora, che è un momento di sospensione temporale, di sospensione di memoria e di storicizzazione, al fine di recuperare la vera storia. Allo stesso tempo continua Bion- non abbiate nessun desiderio: non desiderate di curare, non abbiate il furor curandi, non abbiate un intento di mostrare il vostro sapere, la vostra conoscenza, di mostrare che avete capito il paziente, che contenete ciò che lui vi dice; non abbiate desideri, non abbiate memoria. D'altro canto vi capiterà di leggere alcuni scritti, specialmente di scuola Kohutiana della Psicologia del Sé -, in cui sembra che la raccomandazione vada in senso opposto, in cui vi raccomanderanno, ogni volta che ascoltate il paziente, di chiedervi attivamente qual è la vostra esperienza più simile alla sua, a cosa assomiglia ciò che lui vi dice, quando voi avete vissuto qualcosa di simile, cosa a voi sarebbe piaciuto sentirvi dire in quel momento, e l'invito è quello di restituire al paziente queste cose, di dirgli quello che voi avreste voluto sentire in un momento della vostra esperienza il più possibile analogo al suo. Sembrano due atteggiamenti in contraddizione; esamineremo diversi casi nel corso del nostro lavoro qui, e di volta in volta vedremo quale di queste due modalità è preferibile. Una tendenza abbastanza generale oggi è questa: cercate di mantenere l'ascolto fluttuante, la sospensione di desiderio, la sospensione di memoria, la sospensione di seguire con attenzione i nessi logici e concettuali; mantenete queste sospensioni per quello che è l'andamento a regime della seduta, quello che noi chiamiamo il tessuto connettivo, il tessuto di sostegno, il sottofondo, la continuità. Nel momento in cui però trovate un problema, nel momento in cui le identificazioni proiettive del paziente sono troppo forti, in cui vi evoca angosce molto forti, in cui è pressante da parte sua una richiesta di aiuto e non basta l'ascolto, non basta il contenimento passivo, né il ricevere, a quel punto usate pure la modalità attiva: ricercate dentro di voi quella che può essere l'esperienza più simile alla sua (porteremo proprio dei casi clinici specifici su questo, col tempo li affronteremo). Non abbiate paura di cercare in voi l'esperienza più simile a quella dell'angoscia del paziente, di vedere il vostro vissuto, di confrontarlo a quello del paziente, vedere che cosa vi ha tirato fuori, quali pensieri hanno tirato fuori voi, che cosa vi era utile sentirvi dire e restituirlo anche in forma interpretativa al paziente. Questo secondo vettore della restituzione può essere o semplicemente empatico (Lo so, ce l'ho dentro, e quindi in qualche modo ti arriverà), oppure può essere proprio l'interpretazione. Una modalità che vi invito sempre a tener presente è questa: voi sentirete parlare dell'Edipo, dei meccanismi di difesa, dell'interpretazione, dell'Ermeneutica, delle identificazioni proiettive. Sembra che ognuna di queste teorie tenda a diventare un po' il centro, per cui se il centro della nevrosi è l'Edipo non risolto, avremo un conflitto tra Es e Super Io e quindi porteremo tutta la clinica all'analisi di questo conflitto; oppure pensare che tutto stia nell'identificazione proiettiva, che in qualche modo, di conseguenza, diviene il centro dell'analisi. L'invito che vi faccio è a spazzare via tutto, a stare attenti al trabocchetto di porre al centro di tutto il vostro operare clinico una teoria; le teorie sono tutte buone, sono come delle pietanze tutte egualmente gustose: attenzione a non mescolare l'aglio con la cioccolata, due cose buone per conto proprio ma cattive se unite assieme (la battuta è di Freud, non è mia). L'importante è che non poniate al centro del vostro lavoro una sola teoria: ponete al centro quella che più vi aggrada, quella più conforme alla vostra personalità, quella più conforme alla vostra struttura, ma non dimenticate che le altre non vanno buttate via. Quindi, il saturare l'interpretazione con un'osservazione di tipo edipico non è sbagliato; fatelo al momento giusto, quando l'esperienza vi dirà che serve. Tacere un'interpretazione (il caso del Basco, il caso dell'aereo) è altrettanto buono e valido; ricordate che non è che una modalità esclude l'altra: dobbiamo essere un po' eclettici in questo, dentro però un contesto in cui sappiamo veramente quello che facciamo. Ricordatevi inoltre che il ricorrere alla teoria è sempre un meccanismo di difesa (questo lo avrete sentito un po' in tutte le salse): nel momento in cui noi per capire un paziente, per dargli una risposta, pensiamo a quello che ci hanno insegnato i maestri o che abbiamo letto su libro stiamo utilizzando un meccanismo di difesa. Utilizzare un meccanismo di difesa all'interno di una terapia non è il demonio, non è un grave reato, non è l'inferno: può essere una modalità buona per scappare e per salvarsi la pelle; io credo che il terapeuta abbia il sacrosanto diritto di difendersi. Ciò che conta è che egli sia consapevole del fatto che in quel momento sta utilizzando un trucco, un'escamotage il ricorso ad una teoria- perché è angosciato. Eissler, un grande psicanalista, negli anni 50 ipotizzò dei parametri i cosiddetti parametri di Eissler, li avrete sentiti nominare ; che cos'è un parametro di Eissler? Praticamente questo analista disse che se noi applichiamo in maniera rigida, severa, assoluta un protocollo analitico - quindi le tre sedute alla settimana (o quattro che siano), i 50 minuti di seduta, l'interpretare solo quando si ha sufficiente materiale per farlo, interpretare prima le difese e le resistenze e così via, come prevede un protocollo di analisi propriamente detta (io credo che seguendo alla lettera queste prescrizioni non ci sarebbero più pazienti, nel senso che nessuno verrebbe, e che qualsiasi analisi sarebbe destinata al fallimento, perché un'analisi così perfetta è un'analisi teorica) lavorare con il paziente diventa quantomeno difficile; Eissler diceva, siccome lui era un grande ortodosso, che all'ortodossia non bisogna mai rinunciare, che il protocollo è sacrosanto e intoccabile, ma che, ovviamente, se vogliamo lavorare, dobbiamo introdurre delle modifiche, dobbiamo accettare di disfare continuamente il protocollo, dobbiamo accettare l'idea che la seduta può essere più lunga o più breve, che un paziente può anche non pagare le sedute, che può avere una serie di rassicurazioni o pacche sulla spalla così contrarie a quello che dovrebbe essere l'interpretazione pura e dura, che l'analista può uscire dalla neutralità per esempio; l'importante, diceva Eissler, è che l'analista sia consapevole di queste trasgressioni e che comunque, prima che l'analisi finisca, reintroduca il giusto cerimoniale interpretandole e comunicandolo al paziente. I parametri di Eissler sono delle praticamente delle eccezioni che noi possiamo introdurre all'interno del rapporto terapeutico, eccezioni più o meno lunghe, più o meno discostanti dal protocollo originale. Vi presento ora un caso clinico che è apparentemente singolare, che poi commenteremo insieme, perché qui si tratta di quella che chiamerei un'identificazione proiettiva vuota. Vi parlerò di un certo Pino (ovviamente è un nome inventato, ovviamente come dice Ferlini- è un caso seguito in Nuova Zelanda): Pino è un uomo sposato, di 40 anni, che lavora nell'azienda in cui il padre era un dirigente di successo - praticamente il padre aveva un ruolo importante in un certa azienda- ; lui eredita dal padre questo posto, lavora, si sposa in tarda età, a 38 anni - quindi in un'età relativamente avanzata per un matrimonio -. E' un ragazzo molto solo, che sposa la prima donna con cui ha una relazione sentimentale. Nasce una figlia: la moglie, in relazione alla nascita della figlia, diventa particolarmente soffocante, particolarmente esigente e tra i due nasce un aspetto conflittuale (chi ha visto L'ultimo bacio ha presente quel personaggio che si trova in condizioni analoghe): la conflittualità è molto forte tra i due. Lui sente dentro di sé l'emergere di istinti emozionali, di esigenze di libertà, esigenze che lui ha vissuto e soddisfatto fino a 38 anni. Pino sente insomma che il matrimonio gli sta molto stretto e sviluppa una forma di malattia chiamiamola così- che viene chiamata depressione, e che, visti i presupposti che vi ho fatto, possiamo definire molto classicamente una depressione di tipo nevrotico. Pino in effetti, benché abbia un forte vissuto melanconico, depressivo, continua in un primo tempo a lavorare. E' una persona che ragiona, non è scompensato. Visto quello che abbiamo detto, possiamo immaginare uno schema molto classico. Ovviamente quindi, quando marito e moglie si scontrano, nel paziente vi è un conflitto tra i desideri pulsionali di libertà - Voglio esser libero, voglio dare una pedata alla moglie- e le imposizioni superegoiche -Eh no, perché la Chiesa insegna che il matrimonio è divino, unico e indissolubile -; abbiamo un conflitto tra Es e Super Io e un risultato, che è la nevrosi, che è la depressione, che è la melanconia: quindi quest'uomo sta molto molto molto male. Questo quadro rientra in una visione molto pulsionale della nevrosi, come si studiava ai tempi di Psicologia Dinamica, quindi siamo entro i manuali. In determinate condizioni, diverse da queste, lui potrebbe, per esempio, rimuovere totalmente la componente superegoica - quindi staccarsi dalla moglie, separarsi e andare via per conto suo , oppure, in un'altra condizione, potrebbe, attraverso sapienti meccanismi di difesa, eliminare i suoi desideri di libertà e reintegrarsi in un sistema familiare tranquillizzante e senza conflitti. Eliminando quindi una delle due componenti del conflitto, probabilmente lui risolverebbe la sua nevrosi (siamo nell'ambito proprio più classico della Psicoanalisi dell'inizio del secolo); invece cosa succede? Con l'aggravarsi del suo stato depressivo, Pino utilizza la sua depressione, ma soprattutto il suo modo di comunicarla, per indurre nella moglie delle azioni di rifiuto nei suoi confronti, in modo che sia lei, esasperata, a cacciarlo di casa. In questo modo lui evita i sensi di colpa non compatibili con la sua struttura superegoica. Cosa succede? Quest'uomo assomiglia un po' a Clark Kent; sapete chi è Clark Kent? E' Superman nella sua identità segreta; quindi è vestito non con la tutina azzurra, bensì con i suoi abiti grigi, un impiegato tipico. E' molto massiccio, con un fisico proprio da culturista (quando muove il collo muove tutto il tronco), con una faccia proprio da Superman, molto regolare. Pino si presenta a me, al gruppo di terapia in cui lavoriamo, alla moglie, come un gran depresso: parla con una voce flebile, con una voce malferma, portando così il suo dolore. Il risultato finale di questa comunicazione è una caricatura. Questo Clark Kent, che parla con una voce bassissima, con una voce lamentosa, quasi da bambina, con il quale non è possibile parlare di nulla perché lui riporta tutto al suo grande inestinguibile dolore, è una caricatura, cioè tutto fuorché un depresso. E' troppo depresso per essere depresso; come le lamentatrici dell'antica Grecia o dell'Italia del Sud, che piangono al funerale, pagate per piangere: sono così false da essere fin troppo vere! E' la caricatura della morte, ma che serve proprio per esorcizzare la morte. Allora: da un certo punto di vista noi possiamo dire che Pino attraverso questa caricatura del suo dolore forse vuole proprio esorcizzare il suo dolore, che usa questa caricatura per indurci qualcosa di non drammatico; una persona, se vuole, sa comunicare all'altra la profondità del suo dolore, e altrettanto, se uno vuole, può comunicare all'Altro esattamente il contrario. Quindi, qual è il meccanismo che lui utilizza? E' utilizzare questa caricatura, questa masquerade di depressione, in modo tale che la moglie si arrabbi e lo cacci. Utilizziamo uno schema: che cosa arriva alla moglie? Tenete l'attenzione su questo punto, perché è il punto cruciale della nostra trattazione: se lui fosse davvero depresso, sempre e comunque, per identificazione proiettiva dovrebbe giungere alla moglie un vissuto di depressione, un vissuto di dolore; gli elementi Beta non risolti sono elementi di perdita, elementi di melanconia, quindi sono elementi che inducono nell'Altro, che evocano nell'Altro, quanto di peggio esiste nel senso di dolore esistenziale. In realtà alla moglie cosa arriva? Un vuoto, una palla vuota; dentro alla moglie arriva un senso di vuoto che scatena rabbia. Allora Pino è un depresso finto non perché non abbia un vissuto melanconico io credo che ce l'abbia -, ma perché lui, per identificazione proiettiva, non manda nell'Altro il contenuto appropriato, di accudimento, attraverso un messaggio del tipo: Sono depresso, quindi tu, che ricevi, soffri e di conseguenza accudirai me per accudire te stesso (che è il meccanismo comune della relazione melanconica), ma evocherà invece una risposta del tipo: Tu mi stai prendendo in giro, tu fai finta, tu piagnucoli, tu fai la caricatura, tu non mi trasmetti niente, quindi io ti odio; tu mi evochi rabbia e io ti caccio. Questa è allora un'induzione di ruolo vi ricordate Sandler, l'induzione di ruolo? L'avete studiato?- , che è un meccanismo in cui la difesa cessa di essere intrapsichica e diventa relazionale: noi utilizziamo l'Altro come agente per i nostri meccanismi di difesa. Si tratta di quel meccanismo di difesa che nonno Freud c'avrebbe detto svolgersi qui, e che la figlia Anna ci avrebbe insegnato come si poteva svolgere all'interno dell'apparato psichico come controbilanciamento di pulsioni, aumento del Super Io, diminuzione della componente superegoica e così via. Tutte queste componenti intrapsichiche, in una Psicologia Personale, sono cose validissime tutt'ora; vediamo però che possono avere anche un altro aspetto, in cui, se io non risolvo questo qua, mi risolvo la mancanza di meccanismo di difesa attraverso l'Altro: l'Altro diventa il mio meccanismo di difesa. Nel nostro specifico praticamente la moglie diventa quell'agente in questo caso non direi superegoico, direi dell'Es, direi agente proprio pulsionale che permette a lui di compiere un movimento centrifugo dalla famiglia a fuori, movimento che lui con le sue forze non poteva compiere. Questo è un esempio clinico di induzione del ruolo dettata proprio da una identificazione proiettiva vuota. D: Vorrei sapere: se questa induzione proiettiva io non la avverto, o comunque non la so capire, come faccio a mettermi in relazione col paziente? ( ) Si insiste finché non è; e se lei continua comunque a non capirla, per esempio perché sta mettendo in atto delle difese (vedremo poi la prossima volta le difese quali sono), cambia oggetto, trova un'altra strategia; può essere la moglie del paziente, può essere il terapeuta, ma, se non coglie, c'è questa pressione interpersonale finché non la coglie, e se lei continua a non coglierla cambia oggetto. D: Quindi è possibile rapportarsi in modo diverso? Sì, diciamo che in genere si spara proprio a raffica, nel senso che questa modalità qua la si mette in atto con la moglie, col vicino di casa, col collega, con l'analista, con gli amici, con tutti; poi il primo che ci casca, il primo che mi è utile me lo curo io, me lo lavoro forte, funziona così. Si privilegia poi una persona che, per motivi suoi, è più adatta a questo scopo. Per oggi ci fermiamo qui. Arrivederci a Luned́ prossimo. |