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La transizionalità nel rapporto terapeutico

Prof. Antonio Maria Favero

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4° incontro.

Oggi volevo iniziare rispondendo ad un paio di domande riguardo al tema dell'identificazione con l'aggressore.
Avevo accennato le primissime volte che, secondo me, questo cosiddetto meccanismo di difesa è estremamente importante ed interessante perché si situa proprio in quell'area intermedia tra una concezione della difesa, quindi dell'apparato psichico, come interna all'individuo (delimitata dalla pelle) e qualcosa invece di più relazionale (possiamo ipotizzare, all'estremo opposto, utilizzare l'altro come agente dei nostri meccanismi di difesa, la famosa induzione di ruolo, ma non solo).
Quindi per i modelli-continuum che vanno da una teoria pulsionale ad una teoria relazionale (vale a dire da un mondo intrapsichico ad un mondo di relazione) abbiamo una serie di meccanismi di difesa puramente intrapsichici quali: la rimozione, l'identificazione, la formazione reattiva, e così via; qui invece abbiamo dei meccanismi di difesa relazionali in cui il cardine ruota attorno alla cosiddetta identificazione proiettiva.


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L'identificazione con l'aggressore è un meccanismo che si situa a metà strada tra questi due opposti (intrapsichici e relazionali).
Questo è un meccanismo molto diffuso, più di quanto si ritenga.
Seppure venga definito dai manuali e da Anna Freud stessa, come un meccanismo piuttosto regredito, piuttosto vicino all'ambito delle patologie gravi, delle nevrosi gravi, se non addirittura delle psicosi, è in realtà un meccanismo comunissimo che possiamo trovare per esempio nel gioco.
La tendenza spontanea dei bambini a giocare al dottore non è semplicemente un gioco sessuale, la scoperta del corpo dell'altro, ma è essenzialmente un gioco in cui si mette in causa il far finta d'essere ciò che più spaventa.
Siccome il dottore con il suo camice bianco spaventa il bambino (perché gli fa male, o perché provoca in certi versi un'invasione corporea), ecco che allora il bambino gioca al dottore per imitare, per incarnare, per mettersi addosso la pelle di colui che più lo spaventa.
Le tribù dell'Africa centrale utilizzano la danza in cui i personaggi di questo rito incarnano la pelle (proprio fisicamente) del leone, delle fiere che temono di più.
Cioè, se io incarno il leone, se io sono il leone, se io danzo come il leone, il leone mi farà meno paura.
E' una sorta di corpo a corpo con colui che ci spaventa.
Quindi, quando l'altro ci fa paura o si scappa via o lo si abbraccia( perché se lo si abbraccia non potrà né spararci, né colpirci), perché in questo corpo a corpo, in questo abbraccio psicologico, l'altro sarà reso innocuo il più possibile.
Poco fa si stava facendo riferimento anche a “Doppio sogno”, libro da cui poi è stato tratto il film “Eyes wide shut” di Kubrick, in cui l'essenza della storia, per lo meno in una mia lettura, è essenzialmente un'identificazione con l'aggressore.
Cioè, nel momento in cui il protagonista maschile viene a conoscenza, in modo abbastanza ambiguo, sottile, di questo presunto, vero o falso che sia, tradimento della moglie, lui mette in atto una serie di tradimenti, mette in atto un meccanismo di identificazione con l'aggressore.
Quindi è una situazione in cui si va oltre l'identificazione, è qualcosa di più, si diventa l'altro, ci si mette le scarpe dell'altro.
Uso volutamente questo termine “mettersi le scarpe dell'altro” perché è un termine usato da alcuni autori quando tentano di definire il concetto di “empatia”; ecco che allora cominceremo un po' a familiarizzarci con questo doppio binario tra patologia e meccanismi di difesa (quindi terapia).
Noi possiamo avere un primo livello che potrebbe essere quello in cui noi ci relazioniamo all'altro e lo imitiamo. Quindi un livello d'IMITAZIONE.
Imitare uno significa assumerne i modi (di vestire, di parlare, …).
Questo è un processo anche evolutivo molto frequente, per esempio, l'assunzione di certi comportamenti sessuali, soprattutto in una primissima fase, è per imitazione.
Su un piano relazionale più intenso si passa dall'imitazione all'IDENTIFICAZIONE tout court.
L'identificazione è un processo che in parte ha origine da una forma imitativa molto forte, ma diventa anche un processo in gran parte inconscio, inconsapevole.
Spesso in analisi una delle affermazioni classiche è: “Lei s'identifica con…”, “lei ha assunto questi comportamenti perché si è identificata con…”.
Se viene portato all'esasperazione, quest'identificazione può portare ad una PERDITA DI IDENTITA'.
Quindi, ad un certo punto, non so bene più chi sono, sono confuso, non so bene se sono io o l'altro; l'altro mi ha così “plagiato” che penso come lui, voglio pensare come lui; addirittura accantono e tradisco i miei pensieri originari, i miei atteggiamenti, i miei sentimenti, perché sono diventato in gran parte come lui, un tutt'uno come lui.
Questo è un atteggiamento un po' di confusione cui segue quello che potrebbe essere un processo d'appersonazione in senso forte, vale a dire DIVENTARE L'ALTRO, diventare proprio l'altro in maniera totale.
Qui è la posizione del folle che crede d'essere Napoleone: “Io non sono uno che crede d'essere Napoleone, io sono Napoleone”.
Quindi, da un meccanismo d'imitazione assolutamente normale, via via si scivola fino a perdere l'identità in un divenire l'altro, quindi una perdita totale del sé.


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Questo continuum c'interessa perché da un certo punto di vista l'identificazione con l'aggressore potremmo situarla nel terzo momento (perdita d'identità), in un'area fumosa più o meno larga:
Ma quello che interessa per il nostro discorso non è solo questo fatto, è che se noi dovessimo chiederci dove si situa, in un rapporto psicoterapico, il meccanismo d'elaborazione di funzione alfa, di reverie, d'autentica comprensione empatica dell'altro, la risposta sarebbe la medesima: si situa tra identificazione e perdita dell'identità.
In pratica nel rapporto analista-paziente, ciò che è importante è saper oscillare tra una posizione in cui si riesce a cogliere quando noi c'identifichiamo con il paziente, con il suo male, con il suo dolore e quanto egli s'identifica in noi (meccanismo d'identificazione), via via fino ad un momento di quasi perdita d'identità.
E' chiaro che, se ci sono momenti in cui l'analista perde l'identità in rapporto al paziente, quello che conta è avere nei piedi una molla abbastanza forte per poter tornare al processo in cui si torna se stessi.
Quindi, sia l'area transizionale che riguarda l'identificazione proiettiva, l'empatia, sia l'area che può riguardare questa perdita di confini (che potrebbe avere a che fare con un malessere psichico e quindi anche con l'identificazione con l'aggressore) si possono situare lì.

Secondo quesito: rapporto che c'è tra un processo psicoterapico ben riuscito (letto in termini di empatia) e questi aspetti.
L'altra volta si era parlato dei fattori che identificano un processo d'identificazione proiettiva.


1. Bisogno
2. Pressione interpersonale
3. Re-internalizzazione


Si parlava innanzitutto di un gran bisogno (sofferenza mentale, dolore, angoscia, stato di forte malessere) che quanto più forte è, tanto sarà più facile che avvenga il processo d'identificazione proiettiva.
Si parlava poi di una pressione interpersonale.
Cioè, per avvenire un processo d'identificazione proiettiva bisogna essere molto vicini, attaccati.
Possiamo operare un meccanismo d'identificazione proiettiva, per quanto forte sia il nostro bisogno, con una persona che ci è molto vicina, una persona che vediamo quotidianamente, una persona che ha un rapporto chiaro e definito con noi, una persona sufficientemente recettiva, quindi occorre una persona interpersonale.
La terza fase è quella della reinternalizzazione.
Cioè una volta ricevuto l'elemento grezzo, non elaborato, l'elemento beta, dobbiamo elaborarlo dentro di noi e restituire all'altro la difesa che noi abbiamo utilizzato nel nostro interno.
Questi tre processi si riassumono così:

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Un elemento grezzo (elemento beta) viene internalizzato dall'altro (quindi viene capito: ” Capisco il tuo dolore…”)
Il dolore viene elaborato così (funzione alfa) e così il cartoccio informe diviene una bella pallina metallica e lucida (contenuto elaborato).
Questa funzione alfa viene poi reinternalizzata e diventa una pallina anche per l'inviante.
Naturalmente queste sono metafore.
Tale meccanismo d'identificazione proiettiva si può trovare sia in una patologica identificazione proiettiva (quindi il meccanismo di difesa in cui ci si scambia tra persone), sia in terapia.
Chi va in terapia, in analisi, ha un bisogno (perché sta male) ed è un bisogno che ha a che fare anche con un'illusione (“Perché mai se ho una nevrosi, o una fobia…andando da qualcuno, che si fa anche pagare, io dovrei risolverla?” Chissà, forse è un atto di fede.).
In una relazione terapeutica c'è anche la pressione interpersonale.
Infatti, la terapia è essenzialmente il setting.
Esistono molti manuali che insegnano com'è fatto il setting: il numero di sedute, cosa deve fare l'analista, come deve vestirsi, …ma nessuno spiega bene cosa succede in una seduta (anche perché è un evento unico e irripetibile).
Si possono portare esperienze, ma nessuno dice cosa bisogna fare se A risponde B, o se B dice che siamo A, e così via, non esiste nessun manuale a riguardo.
Freud diceva che in psicoterapia, come nel gioco degli scacchi, il maestro può insegnare al suo allievo le mosse, ma come si vince nessuno può insegnarlo.
Bisogna giocare molto, studiare le partite dei maestri, alcune strategie, ma poi la partita è un evento unico.
La cornice (il setting) è proprio ciò che serve per ottimizzare la pressione interpersonale.
Quindi: abbastanza sedute settimanali, ma non troppe; la durata della seduta deve essere stabilita; i tempi devono essere stabiliti; …
La pressione interpersonale è quello che ottimizza lo stare insieme di queste due persone.
Contrariamente a quello che si crede, il numero di sedute settimanali (cioè la frequenza delle sedute) è inversamente proporzionale alla gravità, alla patologia.
Uno tanto peggio sta, tanto più vicino al registro della psicosi, quanto meno sedute deve fare.
Il protocollo delle quattro, o tre, sedute settimanali (protocollo analitico classico) è adatto per dei nevrotici sufficientemente compensati; via, via che la patologia va sul versante psicotico, il numero delle sedute va diminuito.
Questo perché la persona non è più in grado di tollerare questa emozionante esperienza che è il contatto terapeutico.
Quindi se noi dobbiamo lavorare sull'ottimizzazione della pressione interpersonale, dobbiamo sapere quale è il numero migliore delle sedute, …
Terzo punto è la restituzione.
La restituzione è quel processo in cui noi diamo al paziente ciò che abbiamo imparato, capito.
Esempio di restituzione classica è l'interpretazione.
Altro tipo di restituzione è il silenzio: “E' sufficiente la presenza dell'analista”, una presenza dell'altro fortemente investita cui è attribuito un sapere, un gran valore d'idealizzazione, quindi identificabile.
Se questa funzione è svolta secondo i canoni di una comunicazione autenticamente empatica, di una profonda, reciproca comprensione, allora funzionerà.
Questo spiega come mai talvolta una persona può guarire benissimo anche senza interpretazioni: proprio perché la restituzione avviene in modo non verbale, per identificazione proiettiva.
Oppure una persona può non guarire affatto, nonostante grandi e brillanti interpretazioni, cioè non ha funzionato la funziona alfa (è una pseudo funzione alfa, ciò che è stato restituito è un nulla, un nulla teorico, ben impacchettato, ma assurdo).
Questo infine spiega come mai molti guariscono anche con le interpretazioni.
Freud ne parlò nel famoso aforisma (“Ciò che era Es diventerà Io”).
Nel momento in cui noi traduciamo una pulsione istintuale in un modello verbale, storico, abbiamo operato un gran passo verso la guarigione.
Sarebbe da chiederci, in questa nostra prospettiva relazionale, se e che cosa guarisce davvero quando un'interpretazione riesce.
Mi ricordo un aneddoto di un agopuntore (cioè un medico appassionato d'agopuntura) che presentò ad un congresso una relazione di com'egli aveva guarito uno schizofrenico attraverso l'agopuntura.
Credo che, proprio in quest'ottica, ciò che forse curò quello schizofrenico non furono gli aghi, ma fu quella dedizione continua (la gran fede che aveva questo medico, il dedicare al paziente costantemente attenzioni, affetti di cui probabilmente aveva bisogno).
E' quindi molto importante la profonda convinzione di chi mette in gioco un'azione terapeutica, un atto di fede.
Intendo per “atto di fede” un insieme di valori molto forti, molto radicati (ma dimenticati), che però guidano e orientano l'azione terapeutica.
Questo è un aspetto molto importante: ciò che guarisce è quindi un clima, un clima affettivo.
Un valore, una profonda convinzione, può favorire un processo terapeutico.
“La teoria è il sistema di valori (affettivi più che scientifici, la scelta di un indirizzo terapeutico è essenzialmente affettiva) che fa da tessuto connettivo, da sostegno, da supporto, ad una relazione che altrimenti rimarrebbe sospesa nel vuoto.
Ciò che distingue una relazione terapeutica da una relazione amicale è essenzialmente (oltre il setting, …) il fatto che uno dei due ascolta l'altro facendo riferimento ad un sistema di valori, scientifico, culturale”.
Molto spesso un terapeuta giovane non funziona perché non è tanto convinto della sua teoria (in realtà molto spesso i terapeuti giovani funzionano molto meglio perché investono di più sul proprio caso).
Tante volte un terapeuta più vecchio è un po' più disilluso, quindi non aderisce con tanta passione ad una teoria e magari arriva ad un atteggiamento nichilista (che nessuna teoria in realtà serve) e questo talvolta funziona bene (perché è una convinzione anche questa), altre volte invece può essere d'ostacolo.
Sul fatto della profonda convinzione, tenete conto che ci sono tante situazioni nella vita in cui la convinzione ha un grandissimo valore.
Spesso vi capiteranno dei genitori che verranno da voi dicendo: ”Mio figlio fa determinate cose, io non vorrei che lui facesse queste cose. Glielo ho detto 100 volte, ma niente da fare!”
Tenete presente che se il genitore non è convinto, non ci sarà mai possibilità di convincere l'altro.
Questo lo sanno i buoni truffatori, infatti, se si vuole operare una vera truffa, bisogna essere convinti che non è una truffa.
Per esempio chi ha venduto un appezzamento di territorio lunare a qualche americano sprovveduto, in quel momento era davvero convinto che si potessero vendere appezzamenti di territorio lunare e quindi ha convinto l'altro.
Quando noi siamo profondamente convinti di qualcosa, siamo a metà strada, non c'è bisogno di argomentare molto.
Schopenhauer ha scritto un trattatello sull'arte di convincere l'altro.
Questa certezza interiore che dobbiamo avere è un fattore fondamentale, non si può ingannare l'altro se noi non ci crediamo.
Anche l'attore: è tanto più convincente e tanto più portatore di meccanismi d'empatia (evocare in noi forti emozioni), tanto più egli è convinto di quello che fa.
Ci sono due fasi nel lavoro di un attore.
C'è una fase puramente cognitiva, in cui lui studia il personaggio, discute col regista del personaggio, ragiona, legge, …
C'è acquisizione cognitiva di dati.
Nella seconda fase è importante che sia dimenticato ciò che si è visto, perché deve essere entrato nella pelle, è agito.
Infatti, anche per noi le cose che sappiamo fare bene sono quelle che abbiamo dimenticato; per esempio, sappiamo camminare bene proprio perché mentre lo eseguiamo non ci stiamo ricordando di farlo.
Le cose che veramente sappiamo sono quelle a cui non pensiamo, quelle che abbiamo dimenticato, che il nostro corpo ricorda, che la nostra psiche ricorda.
Questo se vale per il camminare, il guidare, il parlare, …, dovrebbe valere anche per la psicoterapia (come arte, come azione, come operazione verso qualcuno).
Quindi la psicoterapia deve essere preceduta da un grande momento d'apprendimento (non può essere improvvisata), ma poi deve essere dimenticata (allora veramente la si è imparata).
Troviamo il tema dell'eccesso del ricordo in tante situazioni, per esempio nell'inibizione.
A volte riusciamo a parlare bene quando dimentichiamo che stiamo parlando; nel momento in cui ci sentiamo osservati, o una parte dentro di noi ci autosserva, ci imbalbettiamo.
Bisogna essere vuoti, come dicono gli orientali, più si è vuoti più ci è facile essere noi stessi, comunicare empaticamente con l'altro.
Volevo poi incominciare ad introdurre quelle che potrebbero essere le modalità reali che entrano in gioco in un rapporto psicoterapeutico.
Cioè, mentre noi ipotizziamo in maniera molto teorica questo meccanismo (elemento beta, funzione alfa, restituzione) ed è tutto così bello e che funziona, in realtà questo non avviene quasi mai.
Non avviene quasi mai perché la realtà è un'altra.
Quando ci si trova in una situazione di questo tipo, noi ipotizziamo tre possibilità, tre declinazioni di questo meccanismo ottimale (che era: espulsione, elaborazione, reitroiezione).
Una prima situazione che possiamo incontrare è la seguente: un soggetto, un suo contenuto non elaborato (elemento beta) e l'espulsione di questo contenuto verso il ricevente.
Nella situazione ottimale viene bucato l'altro, viene bucata la sua anima e lui si prende tutto dentro, si prende il male dell'altro, lo coglie, lo capisce.
In realtà una prima situazione che troviamo nella pratica quotidiana non è questa, ma è che, nel momento in cui noi intuiamo che qualcosa può ferirci profondamente e non siamo attrezzati per contenerlo, mettiamo una parete impermeabile (cioè una difesa massiccia tale che il contenuto che l'altro cerca di mandarci gli viene restituito tale e quale).

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Quindi, apparentemente siamo attenti ascoltatori, siamo empatici, in realtà non prendiamo niente di quello che l'altro ci dice, non gli diamo nulla, non ci identifichiamo con lui, il suo dolore è alto rispetto a noi.
Potremmo riassumerlo con “Sì, va be', ma non è roba mia”, “Sì, cerco di ascoltarlo, ma lo rifiuto”.
Questo apparentemente sembrerebbe una cosa cattiva, in realtà è un principio di buona coscienza il non accettare dentro di sé quello che si potrebbe bruciare, distruggere.
In attesa di tempi migliori, una buona parete impermeabile, difensiva può essere d'aiuto per noi e per il paziente.
Questo viene rassicurato sulla non distruttività di ciò che ci porta, sul fatto che questi contenuti non ci hanno distrutto (in realtà non ci hanno distrutto perché non sono stati presi, ma in un primo momento può funzionare).
Non bisogna interpretare questo come una non risposta, come un silenzio ottuso, spesso questa parete impermeabile si manifesta sottoforma di una rapida risposta.
Per esempio, noi possiamo dire ad un amico:”Sono molto preoccupato, sono cinque giorni che ho un forte mal di testa, non riesco neanche a muovere il collo”, e l'amico immediatamente risponde:” Non è niente, sta tranquillo che non è niente, tranquillo…” E' un esempio di parete impermeabile.
Anche se la restituzione apparentemente è elaborativa, non è stato elaborato niente, la risposta è standard, immediata, rapida.
E' l'intervenire con eccessiva fretta al dare una risposta.
Ma per oggi credo che dovremmo fermarci . Ricominceremo da qui la prossime volta.
Arrivederci.


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