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Conferenza
"Parola e Numeri"
Padova - Novembre 1999

---------3° parte-------



GALIMBERTI:
Sentiamo Di Petta, volevo sentire……

DI PETTA:

Grazie al prof. Galimberti, grazie al prof. Patarnello. Certo l'auditorio è anche un po' stanco, un po' saturo, e poi le cose dette sono state dette in modo magistrale, diventa difficile aggiungere qualcosa che abbia un senso; voglio cogliere un po' i coriandoli di quello che ha incendiato l'atmosfera, ed ancora, io vedo scendere. Ci sono delle cose che mi hanno colpito sia nella relazione del prof. Resnik, sia in quella del prof. Galimberti. Volevo semplicemente far risaltare, far scintillare, così… rivolgerle. La psicosi, l'esperienza psicotica come via alla conoscenza dell'essere umano, questo era un passaggio che mi sembra cruciale del prof. Resnik. Voglio dire che, in questo incrociare la lama tra psicoanalisi e fenomenologia, entrambe nascono forse prima come conoscenza che come terapia, come tentativo di conoscenza dell'essere umano. Laddove poi, da qualche parte, come sappiamo, come vediamo, come speriamo, il momento conoscitivo e il momento terapeutico diventano un serpente che si afferra la coda. Nell'istante in cui uno fa conoscenza… conosce… egli cura. Almeno questo credo che sia il filo rosso che unisce una serie di esperienze che poi sono completamente eterogenee tra di loro e difficilmente raffrontabili.
Poi il corpo. Certo il corpo come radicale pesante ed ineliminabile, è qualcosa che c'è, è come dire: “sono un corpo e perciò esisto” prima ancora che “cogito”. E certo il prof. Galimberti ci ha ricostruito benissimo la traccia della schizofrenia dell'Occidente, questo cancro, come lo chiamava Binswanger, della separazione dell'anima dal corpo. Ed un qualcosa che ha sicuramente imbalsamato la medicina, perché le ha tolto il fardello dell'anima, però l'ha anche avviata verso una via splendida di conoscenza e sperimentazione. È qualcosa che ha lasciato invece la psicologia e la psichiatria in una sorta di atmosfera sospesa, perché non hanno poi trovato nessun altro approdo dall'altra parte.
Questo sta facendo sì che la psicologia ripieghi sempre più su metodiche sperimentali quantitative, empiriste e testistiche; e la psichiatria oltretutto ha subito recentemente la perdita, la mutilazione, lo sganciamento della neurologia- questo letto di Procuste sul quale la psichiatria e la neurologia hanno viaggiato insieme per molto tempo si è definitivamente scisso. Per cui, come quando uno di pesante salta fuori dalla barca, la barca ha un forte contraccolpo, così la psichiatria trovandosi senza neurologia, senza filosofia, che cosa sta facendo? Sta ripiegandosi in una maniera drammatica sulle neuroscienze, diventando “psichiatria biologica” che è un ossimoro inpronunciabile, perché si farebbe meglio dire “psichiatria recettoriale”… è più corretto da un punto di vista scientifico. E quindi è molto difficile mantenersi in bilico, su questo crinale dove riescono, per poco tempo, gli psicotici quando entrano nella follia. Questo istante aurorale della “Whanstimmung”, questo momento in cui i significati perdono il loro valore, le cose non sono più le stesse, ma non ci sono ancora le nuove cose, non c'è ancora il delirio. Quindi è questo un momento di passaggio che ha i minuti contati, qualcosa che bolle sotto, e quindi poi c'è la ricostruzione delirante.
Ad ogni modo l'annuncio che ci fa la fenomenologia agli inizi del '900 e che noi alla fine del '900 siamo ancora qui in qualche modo, ed a qualche titolo a sostenere, è di aver messo le mani su un fenomeno che prevale, che sporge, che emerge. Qual è questo fenomeno? È il vissuto, l'esperienza vissuta, “erlebnis” come dicono i tedeschi. Parola che contiene questa radice “LIEB”, che come il prof. Galimberti ha indicato si affonda sia in “LIEBE”- amore che in “LIEBEN”- vita. E la parola fenomenologica, il linguaggio fenomenologico come dice Husserl, è “laib-na” cioè è in carne e ossa. È un linguaggio pieno di vita. Anche leib-na è una parola difficile da tradurre: il nostro “vitale” non ha molto senso. Certamente la lingua tedesca si presta bene a questa operazione di forgiatura in cui il linguaggio viene piegato, spezzato, tre parole insieme, quattro, cinque parole, il trattino che le unisce, neologismi assolutamente schizofrenici se fossero fatti in qualsiasi altra lingua che non fosse il tedesco. Tuttavia riescono a far entrare in certe atmosfere, in cui si ha veramente l'impressione che il colore, la forma, l'odore vengano catturati come un profumo, chiusi in una boccetta, una bottiglietta, in un qualcosa e riportano a questo straordinario fenomeno che è l'esperienza vissuta. E dunque il vissuto è all'incrocio tra corpo, da una parte, mondo, da un'altra parte, e IO da un'altra parte. E quindi il concetto di IDIOS, cui richiamava il prof. Galimberti, contiene il dramma però che il vissuto è un'esperienza mia. È un'esperienza mia propria.
E da una parte, e qui c'è un'altra grossa ambiguità, diventa chiave d'accesso all'altro, perché ci posso entrare solo attraverso di me ed attraverso quello che io provo, per cui tutta la psicologia jasperiana sulla psicologia di “WELT”: la vita può essere accostata solo con la vita, posso comprendere solo ciò che provo, ciò che vivo. E quindi tutta la costruzione jasperiana della derivabilità di un'esperienza da un'altra. Fino dove arriva la comprensione, arriva la concatenazione che io stabilisco di vissuto in vissuto. Dove si ferma la mia comprensione, una roccia scivolosissima, senza appigli, è l'incomprensibile. Però anche il delirio è un vissuto, comunque. E allora è derivabile o inderivabile l'esperienza vissuta? È comprensibile o incomprensibile? È dicibile o impredicabile? Assolutamente mistica, mia, silenzio? È una chiave d'accesso all'altro o diventa una porta chiusa che mi sbarra la via di un chiasma, come è stato ben ricordato da Stanghelini, originario che ci interrela tutti?
Io lascerei per Leibnis, il vissuto, l'esperienza vissuta proprio in questa ambiguità, in cui in fondo forse possono toccarsi per le dita anche la parola e il numero. Cos'è il vissuto? Una parola predicabile attraverso il linguaggio? O è numericamente quantificabile? Perché io non posso dire che l'ITEM di ridling-scale non corrisponde ad un vissuto? In fondo mi piaceva, stamattina ne parlavo con Giovanni a colazione, la teoria dell'indeterminatezza di Eisenberg: dire che un fotone, la più piccola unità luce può essere un corpuscolo, ma può essere anche un onda. Se lo vedo come un'onda non può essere un corpuscolo, se lo fisso come corpuscolo, non è più un'onda. Se il vissuto fosse questo: nel momento in cui io lo congelo in un item, perdo la sua continuità, il suo carattere di spettro, di tracciante. Però nel momento in cui io lo vivo, non lo fermo, allora sento tutto questo flusso che scorre. Questo flusso Bergsoniano, come ci ricordava Resnik.
In qualche maniera credo che molte cose della fenomenologia vadano senz'altro riviste, rivedute; ciò nonostante forse “l'esperienza vissuta”, questo concetto, deve rimanere dentro di noi, veramente come un fondamento infondato. Come una sorta di zolla di terra che uno può toccare in un mare di forme in movimento. Una sorta di relitto a cui uno può aggrapparsi di volta in volta. Ma il discorso su questo è lungo e magari avremo modo di continuarlo. Certamente……………
Gli psicologi continuano a pensarsi come i destinatari di un mandato sociale, di curare il fatto. E quindi accettano questa delega. Però che cosa accade? Che poi vanno a lavorare non su un organo bersaglio, come fanno gli altri con successo, ma sul DASEIN, questo ci ricorda la fenomenologia: non tanto sull'encefalo, quanto sulla storia, sull'esistenza, sul mondo. E quindi diventa veramente presuntuoso a questo punto pensare di poter intervenire in modo puntiforme con i farmaci o con le parole su quel singolo caso clinico azzerando il mondo del paziente. Però diventa anche presuntuoso ed onnipotente voltare le spalle al paziente e rivolgersi alla cura del mondo. Quindi la posizione delle scienze psichiche, direbbe uno psichiatra scomparso, Ronald Leing, è una posizione intenibile, di fatto ricorda molto la posizione dello psicotico nel passaggio tra follia e norma. E qui subentra l'accenno alla psichiatria transculturale fatta dal prof. Resnik. Oggi abbiamo ad esempio Tobinatan a Parigi, dove ha aperto il suo reparto in cui ricovera pazienti extracomunitari in crisi psicotica; ma Tobinatan, è vero, come dice Resnik affermando che la psicosi ha delle invarianti, ha un carattere di invarianza; ma sta di fatto che forse almeno dai lavori dell'ultima etnopsichiatria, sta venendo fuori che, appunto, etnica non è tanto la psicosi, quanto forse sicuramente la psichiatria. La psichiatria è la forma che la civiltà occidentale si è inventata, negli ultimi 250 anni, per far fronte allo scarto umano, alla differenza umana che non rientrava in quello che era l'assetto che la società ha cominciato a prendere. Però finché non avremo dei nostri testi di anatomia patologica, almeno noi medici dobbiamo dirlo per correttezza scientifica, finché nei testi di anatomia patologica non ci sarà un capitolo con tutte le malattie mentali, noi dovremmo sempre tenere aperta l'ipotesi che la malattia non sia tanto una malattia, o non solo una malattia, quanto forse una variante antropologica. Cioè c'è un certo numero di persone il cui cervello adotta un certo spettro percettivo ed ideativo che non corrisponde alla logica Aristotelica del principio di non contraddizione, dunque va per sinestesia più che per percezioni legate a singoli oggetti. O che comunque carica quello che la fenomenologia chiama l'intenzionalità, un valore estremo per cui non ha più importanza se questo telefono, che sta qui davanti a me, se sta nella mia idea, io ne senta anche il tatto.
E se le cose stanno così, ritorniamo e chiudiamo con quell'idea che la psicosi potrebbe essere una via di conoscenza all'essere umano; però se le cose stanno così dobbiamo ricordarci ogni volta che stiamo davanti ad un paziente, che accanto alla relazione tecnica, terapeuta-paziente, medico-paziente, psicologo-paziente, scatta un altro tipo di relazione d'incontro, di non incontro, come vogliamo chiamarlo, con tutti i suoi limiti, ma anche con tutte quante le sue verità, che è quello di un uomo di fronte ad un altro uomo.

PATARNELLO:
Molto interessante veramente, anche se la questione della varianza antropologica è un concetto aperto che ha dei virus. È un concetto che ha un virus interno. Perché io mi domando: la lezione “ dove porta”? Sarebbe giusto che anche su questo si aprisse un dibattito, ed io ne anticiperei un frammento minimo: la psicosi più che una variante antropologica è una variante storica. Cioè è la variante della storia di un individuo. Ed è questo che consente di considerare quello che è la psicosi. Non le varianti rispetto alle modalità infinite del comunicare, e le maggioranze e le minoranze con gli stessi diritti; ma la questione riguarda la soggettività stessa nel momento in cui ha dovuto interrompere la sua storicità ed ha dovuto fare una svolta; ha dovuto risolvere qualche problema, nel senso che si è trovata a qualche cosa. Questo sì che è vero che possiamo ignorarlo, può darsi che sia impenetrabile definitivamente, ma una cosa appare fenomenologicamente: che la storia ha avuto qualche ragione per modificarsi e talora anche profondamente.
Ed allora questo rimanda al livello del primo piano, del protagonismo. Quando una persona, tralasciando di considerare la collocazione antropologica e culturale alla quale appartiene, ci dice: “Per qualche ragione ho dovuto o mi sono trovato a dover modificare le cose. Ho cambiato la visione del mondo, che per essere mio è tutto il mondo, l'ho visto trasformarsi da accogliente, a persecutore o terrificante”, capiamo che questo mutamento esce fuori dalla questione antropologica; ritorna sì nell'antropologia, ma della soggettività. Ed allora lì la questione non è più una variante né storica, né culturale, è una variante soggettiva. E di fronte ad una variante soggettiva uno chiede di sapere perché e come si affronta.
Scusate la digressione; ora tu Maria volevi prendere la parola…


ARMEZZANI
:
In tutti questi giorni, mesi, abbiamo raccolto, da quando c'è venuta l'idea di chiamarVi qui, alcune domande degli studenti sulla terminologia, sulla psicologia del significato, sulla possibilità di opporre qualche obiezione a quelli che ci dicono che non siamo scientifici, che non siamo bravi. Il motivo per cui si diceva anche ieri sera che i fenomenologi rimangono isolati per conto loro. Insomma, io ho raccolto tutte queste domande, le ho un po' sistematizzate, vorrei che almeno parte di queste domande fossero poste alla fine ai relatori che abbiamo perché c'è tutto un lavoro dietro. Per la verità queste domande, si articolano in lettere di cinque, sei pagine. Rileggendole, la mia impressione generale è che più che essere domande per sapere,( i vostri libri ce li hanno tutti, hanno letto, studiano a casa loro) erano quasi grida di aiuto, volevano più conforto, forse, che sapienza, in questa circostanza. L'impressione che io ho avuto di queste domande è come se qualcuno fosse attratto da qualcosa di diverso dalla formazione istituzionale che ha, da qualche richiamo che però non sa ancora come definire, anche perché da quest'altra parte ci sono tanti richiami diversi, non c'è un'univocità di proposta e quindi le idee sono un po' confuse e ci sono dei temi fondamentali che sembrano ingenui, forse, rispetto a certi discorsi specialistici, però sono essenziali come tutte le cose ingenue e sorgive. Allora, io vorrei che non si perdesse di vista questo e propongo alcuni temi, magari rapidamente, sulla base di ciò che abbiamo già detto, che abbiamo già sentito, forse qualche risposta più specifica ce la potete dare.
I temi fondamentali che ricorrono sono questi: uno è il tema del coinvolgimento, dell'uso dell'empatia nella relazione clinica e dei limiti con cui questo “strumento” può funzionare o può essere gestito da parte del clinico.
Poi, un tema molto interessante, per cui chiedo un po' l'appoggio anch'io, è il linguaggio della psicologia. In questo mi sento di condividere le loro stesse preoccupazioni perché, per esempio, personalmente io faccio tanta fatica a usare il linguaggio tecnico degli psicologi. Se a lezione mi viene da dire “bias”, mi riprendo e dico, non so, errore di giudizio, perché non riesco a usare il linguaggio tecnico. Questo credo che sia un po' colpa della formazione accademica, ma mi preoccupo perché io, trasmettendo questa stessa mia difficoltà ho paura che poi, loro trovino problemi nella costruzione di un ruolo professionale, nell'immagine del bravo psicologo che la società si aspetta. Anch'io vorrei un conforto, perché Galimberti, per esempio, ha scritto più volte che il linguaggio della psicologia dovrebbe essere simbolico, metaforico, quindi il contrario di quel linguaggio univoco e tecnico della psicologia ufficiale. Perché si dovrebbe usare un linguaggio simbolico? Che vantaggi ha uno psicologo a rifiutare il linguaggio tecnico della psicologia ufficiale e a usare invece la metafora, il simbolo, così come fa nella vita quotidiana quando parla con i suoi familiari?

GALIMBERTI:
Beh, insomma, poveri ragazzi, da un lato li capisco, ma dall'altro no, nel senso che loro si sono iscritti a psicologia; so benissimo, in generale, che se io mi dovessi iscrivere a psicologia, sto pensando di acquisire dei metodi per conoscere me stesso e gli altri, invece dopo mi trovo a studiare statistica o biologia; Il problema è questo: l'università è il luogo della scienza e la psicologia non è una scienza. Il problema è mettersi d'accordo su questa base: se voi andate a studiare psicologia all'università dovete sapere di studiare degli apparati di quell'organo denominato psiche, declinato nella forma di come si reagisce, come si percepisce, come si vede, come si odora, come si intende… ma come “ si ”, non come “ io ”, come “ tu “ come “ lui “.E' una psicologia de-individuata, cioè una struttura generale della psiche che non è quella di nessuno. Quindi, se uno ha intenzione di conoscere le cose psicologicamente, probabilmente deve muoversi in altri scenari. Io le chiuderei tutte le facoltà di psicologia, sono un inganno, perché traducono l'oggetto; è come una complicità, da un lato l'istituzione vi offre la cultura generale della scientificità, dall'altra la vostra falsa coscienza induce ad avere un riconoscimento professionale per l'esercizio di colui che se ne intende (logia) intorno alla psichè, ma si può avere una "logia" intorno alla psiche? Questo è il problema, si può avere un sapere intorno all'anima?
Ecco, voi comunque adesso siete in questa barca e non vi resta che remare con molta pazienza, io penso che studiare la biologia non sia un male, mi pare che proprio Husserl diceva che il futuro della filosofia sarebbe stato la biologia, e lo stesso Freud alla fine della sua vita diceva che probabilmente la psicologia è una scienza provvisoria che descrive psicologicamente quello che un giorno si spiegherà biologicamente. Io lo so che la psicologia oggi ha dei buoni neuro scienziati, ma io veramente li trovo di un'ingenuità così spaventosa, dal punto di vista degli statuti epistemologici che basterebbe studiare un po' di Cartesio e le neuroscienze sono già lì. Ho capito che loro arrivano a trovarvi la specificità ignota al povero Cartesio che vedeva la circolazione del sangue come un idraulico poteva vedere i tubi, ho capito che sono più bravi scientificamente, nel senso della competenza tecnica dell'oggetto, ma come statuto epistemologico siamo ancora lì, il progresso sarà solo nei contenuti, evidentemente.
Allora che cosa si potrebbe fare? Una cosa, seria, si potrebbe fare: tutto quello che esiste nelle facoltà attuali di psicologia lo lascerei tutto, semmai toglierei la statistica, che non so a cosa serva? La biologia, la fisiologia le lascerei, perché se no non siete interlocutori, non potete parlare coi medici, per esempio, e poi introdurrei gli operatori psicologici, che corrispondono all'attesa per cui uno si iscrive a psicologia e a quello che vorrebbe avere uscendo. Non gli psicologi, gli psichiatri, perché loro sono quelli che pensano (non tutti, intendiamoci) a quel frammento che c'è tra la ragione e la follia, sono dei borderline, sono buoni testimoni di questa condizione borderline, che era poi anche quella di Platone ( quando Platone inventò la ragione sapeva benissimo che tipo di follia bisognava tenere a bada). Bisogna introdurre pesantemente l'insegnamento psichiatrico (non D.S.M., perché non si capisce che cos'è, in ogni paragrafo c'è tutto e il contrario di tutto, mi pare).
La psicoanalisi è stata una cosa importante nel '900, ora la vedo sciogliersi in 1.000 rivoli dove ciascun analista diventa se stesso quando trova una variazione al tessuto di Freud. Ma incominciamo a imparare i tappeti grandi, quelli proprio generali di questo tipo di sapere, che secondo me sono molto produttivi, aldilà delle differenze; e allora in questo caso studiare Freud, Jung forse anche Lacan, potrebbe essere interessante. Un'inserzione, quindi, di psichiatri e di psicoanalisti all'interno di biologi, per fare proprio una sommatoria di scienze determinate, di operatori intorno al mondo, al dasein e quindi di psichiatri intorno a quella metafora che è l'inconscio.
Basta!! Sto rispondendo alla domanda “come si può correggere una facoltà di psicologia”, visto che c'è, perché altrimenti la potremmo cancellare. Attenzione, anche la clinica, la clinica vera è quello stare nel mezzo tra ragione e follia. Io, per esempio, quando parlava Stanghellini e parlava Di Petta ero a casa, cioè capivo dove stavamo, e potevo stare sia dalla parte dello psicotico, sia dalla parte di quello che lo cura, è in quell'intermezzo lì, lo stare in mezzo a questi mondi che crea una sensibilità. E' importante che gli studenti oltre a imparare delle cose, acquisiscano delle sensibilità; e la sensibilità la si trasmette attraverso testimonianze di quello stare in mezzo in questi due mondi. Perché gli studenti devono uscire senza sensibilità? Dove la imparano la sensibilità? Prima la prof.ssa ha parlato di empatia, che cos'è l'empatia? Come la si acquisisce se non acquisendo il mondo? Direi addirittura che attraverso forme di plagio io posso imparare una certa sensibilità, non ci sono codici per impararla, io non so neanche se si può imparare la sensibilità… penso di sì, ma frequentando quei tipi di discorsi, che sono i discorsi di coloro che stanno in mezzo, e non insegnano delle cose. Io non so cosa uno psichiatra potrebbe dire, certo non delle definizioni, neppure delle terapie, ma potrebbe trasmettere una sensibilità; la capacità di sentire questo momento intermedio che è il mondo abituale, perché non è solamente un trattamento della pazzia; signori miei, è l'auto-trattamento, perché siamo tutti matti e ci produciamo in una forma educata di ragione ma, ciascuno di noi indaghi se stesso!

STANGHELLINI
:
Provo a dire qualche cosa anch'io, voi vi lamentate perché vi tocca studiare la statistica, la biologia, vi lamentate, o perlomeno sembra che vi lamentiate per queste cose; pensate che Gilberto e io ci siamo fatti sei anni di vaccinazioni di medicina poi quattro anni di richiamo delle scuole di specializzazione di psichiatria e neurologia, la sensibilità non si può imparare, però in compenso si può perdere. Quindi, prima cosa salvare la pelle, secondo me, cioè il primo obiettivo è portare la pelle a casa. Però portare la pelle a casa è una cosa più complicata di quanto sembri; io mi ricordo che mentre studiavo anatomia patologica leggevo “apprendere dall'esperienza” e in fondo a questo libro, se non sbaglio, c'è una poesia e leggendola ho detto: “Madonna, questo s'è bollito il boccino” perché quella poesia è una specie di macedonia di organi, sembra una poesia Kleiniana, se mi passate la metafora, sì, insomma, uno spezzatino, un gran bollito. Non è così facile portare a casa la pelle. Io dico che comunque questo è il primo obiettivo. Detto questo, io devo dire che mi sono iscritto a medicina consapevolmente, dopo un anno di filosofia, durante il quale mi sono reso conto che se non avessi imparato un po' di biologia mi sarei sentito un imbecille, cioè mi sarei sentito come se avessi parlato di cose di cui non avevo conoscenza. Questo vale, ovviamente, esclusivamente a titolo personale, badate bene, però per questo io sottoscrivo in pieno quello che ha detto il prof. Galimberti. Mi ricordo che durante una lezione del prof. Rossi, ci chiese: “Voi sapete cos'è un tubo catodico?” (non che adesso sappia cos'è un tubo catodico) e qualche altra domandina sui cromosomi umani e delle scimmie e dissi: “Mamma mia, qui non si può andare avanti”, lasciai la filosofia e mi iscrissi a medicina. Credo d'aver salvato la pelle, adesso faccio lo psichiatra e mi confronto con il linguaggio dei miei colleghi psichiatri, non con il linguaggio di Gilberto Di Petta, che gusto c'è a confrontarsi con il linguaggio di Gilberto? Parliamo lo stesso linguaggio, o almeno sembra che alla fine stiamo parlando lo stesso linguaggio. Quando io sono venuto qua mi sono chiesto: “Ma cosa diavolo vado a dire?” e avevo soltanto una cosa chiara, che adesso ce l'ho un po' più confusa però provo a dirla ugualmente: voglio dire che mi piace dire le cose chiaramente a coloro che non la pensano come me, penso che questo sia un obbligo per chi fa della fenomenologia, per voi che mi auguro farete tutti della fenomenologia (e sarebbe un bell'esercito, visto che le metafore belliche oggi sono state usate fors'anche oltre misura) però il mio consiglio è: “Imparate a parlare non agli altri fenomenologi ma a quelli che fenomenologi non sono. Allora è chiaro che se la domanda: “che linguaggio usare?” si riferisce al linguaggio da usare con le persone che curiamo beh, insomma, non possiamo che utilizzare un linguaggio metaforico. Esiste questo tipo di linguaggio consapevolmente metaforico, però quando andiamo a costruire, passatemi il termine, dei concetti tramite i quali cerchiamo di spiegarci, di spiegare le nostre ragioni, ma non perché dobbiamo giustificarci, ma perché dopo che abbiamo pensato vogliamo farci pure ascoltare dagli altri colleghi, che non sono come Gilberto Di Petta, come Giovanni Stanghellini, perché gli altri colleghi ragionano in un altro modo, (non sono questa specie di membrana di cui parla Galimberti fra la follia e boh),, allora bisogna imparare a usare un altro linguaggio, e quindi, secondo me è bene anche conoscere la statistica, è bene sapere come si operazionalizzano i concetti, è bene anche fare qualche concessione ai test, certo, perché no? Che c'è di male a fare le concessioni ai test, che poi non sono nemmeno concessioni? Perché mai l'item dell'M.M.P.I. dovrebbe essere meno espressivo di una metafora di Di Petta? No, Di Petta non si arrabbia per questo perché la pensa così, o sbaglio?

DI PETTA:
Soprattutto se lo codifica Stanghellini, l'item!

STANGHELLINI:
Allora, proprio qui volevo arrivare e poi concludo, qual è l'errore fondamentale dei ricercatori empirici (a parte che la fenomenologia è una disciplina empirica, ma diciamo di quegli empirici che usano le statistiche e i numeri)? Il loro errore è quello di usare degli strumenti che non conoscono. La cosa fondamentale per impostare una ricerca empirica è fare un'analisi concettuale dello strumento che si usa, questo non lo fa nessuno. Qualcuno ha fatto un'analisi concettuale del Minnesota o dell'M.M.P.I. prima di usarli? Cioè, che cosa vuol dire rigidità nell'M.M.P.I.? E perché quelle dieci frasi sono codificate con rigidità? E che cosa si intende effettivamente con rigidità? Questo è il punto fondamentale. Allora, se prima di usare uno strumento, una scala, voi siete in grado di dire di che cosa sono fatti i pioli di questa scala, potete tranquillamente usarla e siete ugualmente degni della qualifica di fenomenologi.

PUBBLICO :
Io vorrei dire, riguardo a quello che ha detto, che la differenza tra un item dell'M.M.P.I. e una metafora di Di Petta è che l'item dell'M.M.P.I. è stato prestabilito, quando arriva una persona io la introduco dentro il mio item, invece, Di Petta mi sembra che quando ha parlato di coriandoli abbia creato al momento una metafora, in conseguenza di una situazione. Non ha pronta la metafora, penso, dei coriandoli, che ogni tanto tira fuori, e questa mi sembra una differenza cruciale.


DI PETTA
:
Il problema dell'empatia e quello del linguaggio rimandano un po' ad un problema unico, che è quello della formazione. Uno dei primi testi di psichiatria, forse il primo, che ho cominciato a leggere, e che tengo sotto il banco, diceva: “Come si fa a dire di una madre che è una buona madre? O, ancora, ad una donna che sta per partorire come deve essere una buona madre? Come si fa a rispondere a questa domanda?” Questo lo diceva l'autore, che era il vecchio Reda, nella sua prefazione; e non so cosa dirvi di fare per essere buoni psichiatri, come non saprei dire ad una madre cosa deve o non deve fare per essere una buona madre; e in fondo lo stesso Freud diceva che tre sono le professioni impossibili, oltre a governare e ad un'altra cosa, c'era anche lo psicoanalizzare. Però mi stupisce che siate proprio voi a porre il problema di fare percorsi che vi sembrano lontani dall'oggetto. Prima di tutto perché l'oggetto, l'obiettivo, il bersaglio, la meta, il target, noi non lo sappiamo qual è, quindi come facciamo a stabilire la rotta? Poi vi renderete conto come si “naviga a vista”, come stiamo facendo qua, noi adesso in questo momento, stiamo facendo un po' i giocolieri, ci passiamo delle palle, sperando che l'altro le raccolga, sperando che la traiettoria che va da noi a voi non sia troppo ellittica, troppo sfuggente. La questione “dell'obiettivo lontano” viene proprio da voi, persone che si preparano a lanciarsi nel vuoto cioè a lanciarsi di fronte ad uno schermo opaco, che non è solo quello della lastra radiografica, con i polmoni che giustamente, come diceva Galimberti, non mi appartengono, ma è anche quello dell'altra persona che mi comunica un vissuto, ma senza che questo sia necessariamente un'allucinazione, un delirio, dove è più facile cadere nel baratro dell'incomprensibilità, ma anche una lacrima che riga una gota. Io come faccio a dire che cosa c'è sotto, a parte tutto il meccanismo dei muscoli lacrimali che sono coinvolti in questa espressione fisiologica? Voglio dire che qui l'ambiguità è forte perché voi fate una domanda: “ come essere preparati “, ma a che cosa? All'impreparazione che comunque vi coglierà, in ogni momento in cui voi vi porrete di fronte a qualcuno o semplicemente di fronte a voi stessi, perché non solo l'altro è opaco. Io direi che proprio ora, in questa fine secolo in cui stanno anche un po' sfumando, mi sembra, certe impregnazioni eccessive dell'ermeneutica, che sì, è vero che da un lato c'è stata questa circolarità tra scienze umane, psichiatria, medicina, psicoanalisi, fenomenologia, però certe volte ha dato anche il via ad una sorta di posizione esattamente simmetrica a quella dello psicotico. Si è arrivati, cioè a fare un delirio di significati per cui ci si sentiva autorizzati a dire tutto. Forse questo scacco che coglie il fenomenologo (o qualsiasi uomo che si pone di fronte al vissuto di un altro uomo col proprio) ha, da una parte proprio il compito di fare continuamente tabula rasa, per quanto questo sia utopico, e cogliere il fenomeno, guardare il volto dell'altro, l'aurora, l'alba, il tramonto, la lacrima, il grido, il corpo come se li vedesse per la prima volta, quindi capire da che cosa viene colpito, però dall'altra parte questo percorso così eterogeneo vi addestra, a tutta una serie di cose che poi diventano strutturali in questo tipo di attività, cioè il non-senso. Ci sono delle aree a cui noi non possiamo dare senso, c'è poco da fare, anche la novità, l'emergente, il fatto che il vissuto è di per sé qualcosa che sporge, che si profila, che taglia, su cui inciampiamo, a volte un coccio di bottiglia, qualcosa che non ci fa più quadrare e allora che facciamo, rimaniamo così?
Perché non riusciamo a inserirlo nella tavola degli elementi? Quanto della nostra capacità terapeutica è strettamente collegato alla nostra capacità di tollerare l'esistenza o l'emergenza di zone assurde, senza per questo scomporci più di tanto? E in fondo apre anche a quello che mi sembra il compito più grande della nostra generazione, degli operatori dello psichico, delle scienze umane, e cioè quello di ridisegnare i confini, la mappa di una immagine umana che mi sembra totalmente da riscrivere, nel senso che dopo il crollo dei grandi racconti, delle grandi mitologie, noi oggi ci troviamo di fronte ad un uomo, quell'uomo che un poeta come Ungaretti ha chiamato “l'uomo buio” , il tipo di essere umano che spesso nasce fuori dalla triangolarità edipica tradizionale, che colloca il proprio spettro sessuale al di fuori di quella che è la polarità classica uomo – donna e non si identifica più in un ruolo sociale e lavorativo preciso, tant'è che nella categoria del borderline è finito di tutto, lo stesso D.S.M., che ha voluto mettere ordine, poi è costretto a mantenere un cestino di entropia che chiama disturbi non altrimenti specificati. Allora voi cosa farete quando vi troverete di fronte queste persone? Saranno loro le persone con cui vi troverete a lavorare, gente che non sa se è maschio o femmina, che non sa chi è il padre, chi è la madre, persone per le quali il senso della vita è qualcosa che va costruito di minuto in minuto. Qual' è il percorso formativo che vi porta a questo? E inoltre, non dimentichiamoci che i primi psicoanalisti non avevano la psicoanalisi confezionata, se la sono inventata, ed era gente che proveniva dalle matematiche, dalle letterature, dall'arte, dalla medicina, da nulla, e anche, in fondo, i primi fenomenologi erano persone che tutto avevano fatto fuorché studiare gli autori della fenomenologia e guarda caso il picco della creazione in queste aree noi lo abbiamo avuto proprio nel primo '900, cioè quando queste discipline erano tutte da costruire. Allora stiamo attenti con questi percorsi che a volte più che ad una formazione mirano ad un formattazione



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