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L'intervento di
Giuseppe Galli
Stavo pensando che non è facile cambiare registro dopo le cose che abbiamo sentito, quindi credo che per il rispetto che dobbiamo a queste cose che abbiamo sentite, per il momento le accantoniamo, le mettiamo da parte, ma abbiamo poi bisogno di rielaborarle.
Avevo pensato di parlarvi di come io sia passato da fenomenologo gestaltista ad occuparmi di interpretazione, così userò un metodo narrativo, autobiografico, non nel senso narcisistico, ma perché la cosa vi sia più leggera, cosicché poi passiamo a vedere i problemi che nascono anche legati a una storia.
Ho avuto la fortuna di avere avuti maestri che mi hanno addestrato alla fenomenologia, ero medico e ho lasciato la medicina con grande disappunto di mio padre che ha visto questo camice, che per lui era il simbolo del medico, e che io ho invece appeso e non ho più messo.
Ho cominciato così ad occuparmi di fenomenologia gestaltica visto che allora, inizi '60, avevamo quest'opportunità di avere uno dei maestri della psicologia della Gestalt, W. Metzer, che non trovando in patria grandi favori per varie ragioni, veniva regolarmente in Italia, dove due volte all'anno (a Padova, Bologna, Trieste) ho avuto modo d'incontrarlo e divenire suo allievo.
Cosa vuol dire diventare fenomenologo? Probabilmente c'è una certa predisposizione, ma è anche una scelta e si può esprimere in una metafora e dire che nel momento in cui uno decide di fare il fenomenologo abbandona il "giro del mondo in ottanta giorni" e si mette a fare il "giro del giorno in ottanta mondi".
Cosa significa questo? Che se si trova di fronte ad ottanta persone che stanno guardando un quadro, la cosa che gli interessa è capire cosa in queste ottanta teste succede, come vedranno le cose dal loro punto di vista. Quindi non mi interessa tanto il quadro, l'oggetto fisico, ma questi ottanta microcosmi mentali che stanno osservando il quadro.
Alla radice di questo c'è la concezione che non c'è identità numerica tra oggetto fisico e i tanti oggetti fenomenici o percepiti, tante le persone che ci sono.
Un piccolo aneddoto per capirci meglio: una scolaresca sta guardando un quadro e il maestro gli dice: "guardate ragazzi, un quadro che suscita il massimo di compassione, Prometeo incatenato con l'uccello che gli rode il fegato, e il fegato che si riforma di continuo!"
Il ragazzo al maestro dice: "certo maestro che il povero avvoltoio, mangiare fegato tutti i giorni………… mi pare una cosa compassionevole!"
Ciò vuol dire che c'è un modo di guardare lo stesso oggetto mettendo al centro Prometeo o l'avvoltoio, cioè è possibile dire che il centramento sia diverso, da questo ricentramento nascono infiniti modi di vedere le stesse cose.
Da questi maestri s'impara non solo il desiderio e la curiosità, ma si imparano anche le categorie per orientarsi nei labirinti mentali di cui parlava il collega.
Concetti di struttura, di ricentramento, di ruolo, tali cose io le ho apprese e tentato di applicarle anche nell'indagine letteraria.
Ma volevo anche dirvi ciò che purtroppo non ho imparato e che ho dovuto imparare dopo, cioè questo tipo di fenomenologia che è stata fatta nei pochi decenni di vita della scuola della psicologia della Gestalt, perché poi c'è stata tutta la storia dell'esilio e della americanizzazione della psicologia, e per doppia ragione poi questa scuola, in qualche modo si è eclissata, anche se ha fecondato numerosi altri indirizzi.
Dicevo che cosa non ho imparato, siccome costoro si sanno solo occupare di oggettivazione fenomenica, cioè che si vede fuori di noi, chiaramente non si sono occupati di linguaggio, di dialogo (la parola dialogo non l'ho mai sentita né letta da questi maestri!); e quando allora salta fuori? Quando una persona ha interesse per la soggettivazione fenomenica più che come sono le immagini degli oggetti, come sono le immagini che ho di me stesso.
Il mio maestro bolognese Canestrari, ricordo che pur essendo molto benevolo, diceva a me e agli altri: "Ma è proprio il caso che ci si occupi di un argomento così vasto, così complicato?", ma io avevo questo interesse!
Allora, però, se ci si occupa di soggettività fenomenica, di come le persone immaginano e conoscono loro stesse ecc., i ruoli dell'osservatore e dello studioso non sono più assimilabili a quelli di due osservatori che guardano il triangolo di Kanizsa, perché allora qui basta il confronto tra due monologhi, cioè non c'è bisogno che dialoghiamo io e te, guardiamo e io vedo così, tu vedi così, ed in effetti è così perché le situazioni scelte in genere sono situazioni molto pregnanti, le famose leggi di Wertheimer che sono tali per tutte le persone.
Ma quando si parla di soggettività fenomenica, è chiaro che la persona che parla di sé attinge ad una fonte assolutamente estranea a me, io non so da dove lui attinga le parole che dice, e non posso dire che siccome mi ha detto questo o quello, è chiaro che il significato delle parole è quello. Ma quale? Quello usuale? Come faccio a saperlo?
Allora la cooperazione dialogica in questo caso diventa inevitabile. Però dialogare è difficile, io non sapevo farlo, quindi ho frequentato alcuni loro incontri sul tema "Come interpretare il colloquio con un'altra persona" e "La metodologia del fare un colloquio ed un meta-colloquio con un altro", ossia fare dialogo sul dialogo.
Però a parte i miei problemi logistici di dovermi spostare da Macerata a Milano, ho pensato che, visto che il problema finale è d'interpretazione, e io sto in una facoltà di lettere e filosofia dove ci sono persone che ogni giorno fanno il lavoro d'interpretazione su testi storici, letterari, giuridici, perché non potremmo vedere di metterci insieme e vedere se, da questi vari punti di vista, si può imparare qualcosa?…
Sicchè da un'"interpretazione del colloquio" sono passato al "colloquio sull'interpretazione", vale a dire organizzare questi gruppi, e dal 1979 ogni anno abbiamo fatto quest'esperienza di metterci insieme: un biblista, un giurista, uno psicoanalista, un linguista ecc. ; la cosa miracolosa è stata che queste persone hanno abboccato non solo il primo anno, ma anche il secondo, terzo e quarto, fino ad un ventennio di consuetudini di colloquio sull'interpretazione, e mi sono chiesto: "Quale sarà il motivo di quest'interesse? "
Posso anche dire che avevo un qualche carisma nel metterci insieme, tanto è vero che ho pensato: "Sono una specie di elettrone impertinente che salta da un'orbita all'altra, e alla fine non sono che più di niente , ma riesco a tenere insieme queste persone" .
Probabilmente c'è dell'altro, e cioè: l'interpretazione, come la possiamo definire? C'è una vecchia definizione settecentesca che dice che si tratta di una "subtilitas intelligendi explicandi applicandi", cioè: intanto per interpretare occorre una certa finezza di spirito, la subtivitas; per fare l'interprete, come per fare il traduttore -che del resto è un interprete -, occorre una finezza, un interesse per il linguaggio e per le sfumature.
Poi, le funzioni del lavoro dell'interprete possono essere varie: o cercare di capire (intelligere), o cercare di spiegare, o cercare di applicare. Ci sono degli interpreti come lo psicologo o il giurista che in qualche modo esplicano tali funzioni contemporaneamente, perché la loro interpretazione ha un'immediata ricaduta sul paziente o sulla persona giudicata; oppure un biblista o un religioso che interpreta un testo religioso che ha applicazioni morali su un penitente che ha problemi se ha peccato o non ha peccato.
Ci sono invece altri che fanno dell'interpretazione un lavoro ludico e giocoso, pensiamo ad un letterato che interpreta una poesia e che ci scrive sopra: se sbaglia non è la fine del mondo, quindi c'è anche un aspetto ludico nell'interpretazione, che potrebbe anche essere da solo senza queste immediate applicazioni. E' anche il problema del traduttore, se non è un traditore, come diceva prima il collega: Jaspers è stato tradito quando viene tradotto in italiano, perché non si capisce! E anche il buon Rilke, quando traduce l' "Infinito" di Leopardi lo tradisce, perché laddove Leopardi dice: "e infiniti silenzi aldilà di quelli nel pensier mi fingo onde per poco il cuor non si spaura" ,Rilke traduce: "e così per poco me ne sono stato tranquillo".
Dicevo: se teniamo conto di questi aspetti, si può capire come, se noi mettiamo insieme un letterato, uno psicoanalista, un giurista, per quanto sotto sotto facciano sorrisetti dicendo: "Vabbe' , questi praticoni, questi psichiatri fanno interpretazioni a cavolo, noi sì che siamo veri interpreti filologi, perché guardiamo le cose sottili ", però dentro di loro dicono: "Però queste cose che facciamo….siamo dei gran perditempo…" …non hanno concretezza ed incisività nella pratica.
E viceversa: ossia ho notato che forse tra questi miei colleghi c'è una sorta di nostalgia per le cose perse, da un lato per l'applicazione, da un lato per il lavoro interpretativo minuto, filologico ecc. . Allora trovarsi insieme è come ricostruire questa unità, che qui è il triangolo, dove questi aspetti sono compresenti, che a mio avviso è stato il successo per un lavoro durato così a lungo.
Questa era la storia; ora vorrei passare a qualcosa di più attinente al tema specifico, quello del rapporto Letteratura-Psicologia, e vedo bene l'espressione "alleanza Psicologia-Letteratura" ,non tanto l'imperialismo Psicologia e Psicoanalisi.
Tornando al tema dell'immagine di se stesso, cioè al tema dell'Io fenomenico da cui ero partito, mi sembra che (…..) il processo, così come ad esempio ne parla Ricoeur dicendo che le cose non sono come le diceva Cartesio, il quale sosteneva che io posso accedere in maniera diretta alla conoscenza di me, ma sono indirette; cioè: io mi riconosco solo nel momento in cui mi ;rispecchio o in un'altra persona, in ciò che dice e fa, oppure parlando di testi, mi riconosco in un testo; e Ricoeur diceva: "…cosa sapremmo noi delle grandi passioni dell'Amore, dell'Odio se i grandi non ci avessero dato questi grandi testi letterari, come Shakespeare, Sofocle, ecc. .
Io ho subito pensato a mia nonna, che era analfabeta, e non conosceva Shakespeare: allora Lei è sfuggita a questo processo del riconoscersi attraverso i testi? No, non è sfuggita perché non ci sono solo i grandi testi letterari, ma ci sono anche quelli della tradizione popolare.
Quando ero bambino, e l'unica lingua che si parlava in casa mia era il dialetto romagnolo, quante piccole parabole mi ha raccontato mia nonna, ed è attraverso di esse che adesso penso di essermi riconosciuto.
Questo non è forse un processo generale? Ossia: acquisiamo conoscenza di noi attraverso questo rispecchiamento e non in modo immediato, diretto, come vorrebbe il "cogito" cartesiano.
Abbiamo delle documentazioni anche nella storia della Psicologia, pensate alla lettera di Freud all'amico Fliess in cui lui dice: "La mia autoanalisi procede, ho trovato in me bambino questa gelosia per il padre e l'amore per la madre, e improvvisamente anche il testo sofocleo dell' "Edipo re" mi è parso chiaro, in altra luce". E' questo cioè un procedimento in cui si interpreta un testo e nello stesso tempo si interpreta se stessi; qui l'approccio gestaltico, che è un approccio globale di campo, ci aiuta a vedere questo processo del rapporto lettore-testo, interprete-testo, in maniera non elementaristica, come se si dicesse che da una parte c'è il lettore che sa di sé certe cose, dall'altra c'è il testo che ha i suoi significati; be' , se si trovano in risonanza, se si trovano in rapporto di analogia avvieni questo fenomeno, ma non è così.
Cioè, c'è un'interazione tra i due, per cui nel momento in cui capisco qualcosa in più di me capisco qualcosa in più del testo e viceversa.
Del resto i grandi esegeti dell'antichità, per esempio Gregorio Magno, dicevano: "Divina eloquia cum legente crescunt" cioè: "i testi sacri crescono col lettore", ossia significa che i significati non sono là dentro (nel testo), ma nascono nel momento dell'interazione fra lettore e testo.
Per completare il discorso si potrebbe dire: non solo il testo cresce col lettore, ma anche il lettore cresce col testo; c'è una circolarità per cui se capisco qualcosina in più di me stesso, o sto adottando una nuova prospettiva nel vedere me stesso, allora anche un testo che prima avevo interpretato in un certo modo forse mi appare in un'altra luce ; naturalmente ciò può essere, come in tutte le interpretazioni, un punto di vista estremizzato, o non adeguato ecc. .
Mi sembra comunque che questo tema del riconoscersi in un testo possa essere un filone molto interessante e fecondo per la Psicologia.
Per ciò che riguarda i testi come alleati per capire noi stessi o per capire per esempio atteggiamenti importanti della vita quotidiana, troviamo dei precedenti nel testo di Fritz Heider "Psicologia delle relazioni interpersonali": in questo testo ci sono infatti dei capitoli nei quali l'autore, guardando le cose da questo punto di vista, invoca testi letterari, filosofici, o anche di sperimentazione psicologica per cercare di spiegare fenomeni della vita quotidiana come l'invidia, la gratitudine, l'offesa, il perdono ecc. .
Mi è parso che questa strada dell'utilizzo dei testi letterari come alleati per capire la psicologia della vita quotidiana fosse una cosa da fare.
Naturalmente si può dire: che differenza passa allora tra uno psicologo e un letterato? Diventano la stessa cosa?
Forse no, perché io mi porto dietro la deformazione professionale, il mio retaggio di fenomenologo gestaltista, qualche esperienza un po' clinica che ho fatto con i colleghi di cui vi dicevo, e soprattutto rimango un po' interessato a spiegare le cose, interessato non solo a descrivere, ma a capire la dinamica dei processi che ci sono dietro.
In questo testo che vi citava prima la vostra insegnante, "Psicologia delle virtù sociali", io ho cercato, per ognuna di queste sette virtù sociali, non solo di utilizzare i testi letterari per caratterizzare ad esempio la meraviglia, ma anche per capire quali possono essere i fattori favorenti oppure i fattori ostacolanti. Ma se facciamo così, allora facciamo un procedimento che si fa a livello scientifico, e che consiste nel cercare di capire la dinamica e i fattori, o meglio alcuni fattori -perché, nei fenomeni umani, tentare di acchiappare tutti i fattori possibili è una cosa disperante-; però se ci mettiamo nell'ottica di capire la dinamica e non solo di fare della classificazione, forse allora l'aiuto che ci possono dare i testi è anche quello di vedere laddove il fenomeno in questione, per esempio quello della meraviglia, viene inibito o favorito, quali sono le condizioni per cui esso si manifesta, ecc. .
Si può dire che continuiamo a fare psicologia anche se usiamo i testi letterari nel modo in cui li usiamo; io mi fermerei qui, sperando voi vogliate fare qualche domanda.
APPLAUSI!!!
(sbobinatura a cura dei "Lapsusblu")
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