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Grandi Voci


 
Padova, 2 Maggio 2001

INTENZIONALITÀ E INCONTRO. FENOMENOLOGIA DELLA CURA E CLINICA DELL'ESISTENZA

Dr. Gilberto Di Petta

---------2° parte-------


“Ogni mezzo è impedimento, l'incontro è possibile solo dove è caduto ogni mezzo”-
Martin Buber.

Io e te, noi due, un giorno ci incontriamo. Chi siamo noi due? Perché ci vediamo? Non ci conoscevamo per niente.
Sulla soglia di questo nostro incontrarci ci siamo stretti la mano e ci siamo presentati. Poi ci siamo messi così, semplicemente l'uno di fronte all'altro, vis-a-vis. C'è stato un istante di silenzio, che cosa dirci? Da dove cominciare? Chi di noi due parla per primo? Tu soffri, tu non ti trovi più, vuoi parlare con qualcuno di quello che stai provando e guardandoti intorno non hai trovato nessuno a cui poter confidare il tuo disagio, a cui affidare il segreto della tua esistenza e il racconto gravoso della tua vita. Sei battuto dall'angoscia… come ha detto S.A. Kierkegaard di chi "non ha mai dato del tu a se stesso". Ci sono parole che ti riguardano, di cui non conosci il suono, il rumore, il potere di dilaniare il silenzio. Ci sono cose che dirai forse solo a me. A me per primo, come se io fossi il primo uomo che tu incontri, e l'ultimo. L'ora del nostro incontro è quella in cui entrambi adesso siamo. Le nostre due vite sono trascorse anonime e separate, come due fiumi in due territori diversi. Diretti a mari diversi. Ognuna per sé. Tu, preso dalla cura delle tue cose mondane, nel giro dei tuoi rimandi, sommerso dalla fattualità della tua vita, gettato, deietto, nel tuo mondo. E l'altro, io, il dottore, quello sconosciuto a cui ti stai rivolgendo chiedendo aiuto, quell'altro che io ora sono, qui, davanti a te, io, che ti sembro a mia volta abitatore di un mondo strano e lontano dalla percezione comune. È il mio un mondo fatto di parti di mondi altrui, dei mie studi, delle cose che ho visto, che ho sentito, dei miei affetti, delle esperienze che ho fatto, delle mie rinunce, delle mie speranze, degli amori, dei sogni che ho avuto e che ho.
Io divento per te un compagno di strada, viandante, compagno di viaggio. Sempre in giro tra i mondi altrui, disposto a ripartire con ognuno che incontro verso un'altra destinazione.
A volte, un interlocutore di ombre, vorrei cercare di essere, forse, anche per te, un narratore silenzioso solo di quello che tu, di te, mi racconti. Quando ti guardo ti vedo, nella tua fisicità, come presenza e come esserci; la tua presenza si muove quando lentamente si siede davanti a me, quando lentamente si alza, come una canna lunga e oscillante sulla riva di un lago. Scontorno la tua figura dallo sfondo dove si proietta, si confonde, sfuma, e la percepisco nella sua proprietà e intimità.
Tu che mi parli, adesso, sei qui, ora, e tutta la tua vita incagliata all'incrocio tra passato e futuro mi si ostende davanti in questo presente in cui noi due, io e te, siamo, in quest'ora, che il nostro consentire costituisce. Ogni parola, già utilizzata mille volte in altri contesti e mille volte magari fatta suonare falsa, qui si fa vera e propria cifra, una sorta di chiave che fa scattare serrature. Ci si può tornare su molte volte, a volte colpisce forte in testa come un ciottolo, esplode nell'interiorità, lasciando danzare poi le sue piccole schegge, come coriandoli. Qui siamo entrambi, io e te, finalmente fuori dalla cura necessitante, alienante, delle cose mondane, e in questa occasione la dimensione anonima e impersonale del "si", delle cose che si dicono, che si fanno, viene messa in scacco, anche nella sua protettività. Siamo veramente entrambi, io e te, che stiamo parlando, di noi, a noi; questo è l'unico vincolo che ci tiene, ed è il contratto implicito che fonda quella libertà che ci fa costitutori ed evocatori di mondi.
Il primo vissuto che sgorga dopo la tua incertezza è proprio il dolore. Questo dolore è tutto quel pathos che era impacchettato e trattenuto dalla morsa dell'angoscia, è quel pathos che le moderne nosografie pretendono di rubricare in dettagli senza storia e senza fine.
A questo nostro incontro potranno seguirne altri, ma questo incontro può rimanere anche unico, può anche prevedere all'occorrenza l'utilizzo di farmaci, ma l'unica struttura di questo nostro incontrarsi rimane la libertà. La liberà di uno scambio e di una libera transazione umana, gioco tra la grazia, il Kairos, la grazia dell'incontro e il Chronos della storia. Tra me e te si sta costituendo, tra noi due, un'intesa non scritta, che può durare anche molto tempo, anche dopo che abbiamo smesso di vederci. Le nostre due esistenze come cime sciolte che si battono l'una l'altra alla perenne ricerca di un ormeggio. Queste le suggestioni di un incontro. Di un incontro unico e di un incontro qualsiasi.
L'intenzionalità è un termine che, come clinico, non mi appartiene.
Noi possiamo parlare solo il linguaggio che comprendiamo. Che è quello impregnato della nostra esperienza di esseri nel mondo con gli altri.
Allora voglio dare subito uno spessore all'intenzionalità. Immediatamente vissuto, che mi è venuto dalle domande che mi avete fatto.
Non parlerò di intenzionalità. Parlerò di Coscienza Intenzionale… invece che di intenzionalità nuda e cruda.
Così evidente si squaderna un'altra dimensione, parliamo di una coscienza che incontra il mondo, e di come lo incontra. Di una coscienza che incontra un'altra coscienza e di come la incontra. Di una coscienza, infine, che incontra se stessa e di come si incontra. E di tutti questi incontri parliamo sull'unico piano possibile, quello dell'esperienza vissuta.
È chiaro che se dico intenzionalità non dico niente, è una categoria ingenua. Se dico coscienza intenzionale dico subito carne e ossa, perché è evidente che non si dà alcuna coscienza senza esistenza. In un certo senso a questo c'era arrivato anche Cartesio con il suo “Cogito ergo sum”, però la coscienza che mette in campo la fenomenologia Husserliana è ancora più spessa, più a tutto tondo, dell'"io penso" cartesiano. La coscienza Husserliana è "io esisto", è coscienza vissuta, è coscienza dell'esperienza vissuta, è coscienza in carne ed ossa. Sono cosciente io del mondo, del mondo, di me, di chi ho davanti a me, dunque esisto.
Coscienza intenzionale: qualcosa dotato immediatamente, qualcosa di vivente oltre che di vissuto, dotato immediatamente di spazio, di tempo, di mondo, di corpo, di io.
Sto tracciando un cerchio a terra, e sto giurando di fronte a voi che mi seguite di non uscire da questo cerchio. È come se vi stessi dicendo il fenomeno all'interno del quale noi siamo ora e l'unico che ci interessa veramente. Il resto è tra parentesi, mettiamo tutto tra parentesi. Questa è l'Epochè. Azzeriamo, semplifichiamo, eliminiamo… il gesto della libertà. Questa è la riduzione che Husserl ha applicato in modo radicale fino ad arrivare all'ultimo… ragazzi… all'ultimo ineliminabile dato: la coscienza intenzionale vissuta.
Adesso sto parlando e sto in relazione con voi. Se qualcosa si costituisce dentro il mio vissuto, questa cosa deve costituirsi per forza. Anche dentro il vostro vissuto. Perché se stiamo l'uno di fronte all'altro, l'uno di fronte agli altri, vis-a-vis, ciò che accade dentro di me evidentemente si co-origina dentro di voi, e viceversa, contemporaneamente ciò che si manifesta in voi, in questo momento, è, viene anche dentro di me.
C'è qualcosa di quello che io sto dicendo che precede il fatto che io lo dica, cioè che pre-esiste al fatto che io lo enunci. Ma enunciandolo io gli conferisco una forma, lo costituisco, gli do spazio, do spazio alla possibilità di accadere, di questo qualcosa, come evento comprensibile tra me e voi.
È una vicenda strana questa, due uomini si incontrano, e io vi sto dicendo che il fatto che loro sono insieme, il fatto che loro stanno insieme, è un obbiettivo che il loro percorso si propone, si prefigge. Però vi sto dicendo anche che loro due sono già insieme, prima che si incontrino, prima che la storia dei loro incontri li faccia diventare un con-esserci.
Perché il mondo esterno e la mia coscienza sono uniti prima che io mi accorga di questo. Io posso scoprire soltanto che la mia coscienza è mondana e che il mondo intorno a me è coscientizzato e soggettivato dal mio muovermi in questo mondo.
Questo termine, costituzione, è fondamentale. È un altro termine da scrivere su questa mappa, se noi spacchiamo la parola vediamo che costituzione viene da co - istituire, costituire. C'è bisogno per forza di due persone, almeno di due per costituire qualcosa, non si è mai visto uno stato, un governo in cui solo il capo dello stato faccia la costituzione. È proprio la parola costituzione che rimanda ad un insieme di individui che cooperano per la fondazione di un qualcosa. Allora sono quattro le parole, affinché l'intenzionalità, questa categoria ingenua palpiti:
Coscienza, Intenzionale, Vissuta, Costitutiva.
Coscienza Intenzionale Vissuta Costitutiva. In questo momento io per voi, dentro di voi, sono un fenomeno. In quanto fenomeno mi sto manifestando. Fenomeno è ciò che appare alla vostra visione, e vengo reso tale, cioè vengo reso possibile dalla vostra stessa capacità di costituirmi come fenomeno. E voi mi potete costituire come fenomeno davanti a voi perché mi intenzionate. Perché la mia e la vostra coscienza si intenzionano, l'una con l'altra, l'una con l'altra. E intenzionandosi le nostre coscienze costituiscono il nostro essere qui, come presenza al mondo, e costituiscono il mondo che stiamo vivendo adesso come un co-mondo. Mentre voi mi costituite io stesso vi costituisco, insieme stiamo costituendo questa esperienza vissuta che è il nostro vederci, il nostro sentirci, il nostro parlarci. Ognuno dei vissuti, degli Erlebnis che noi proviamo in questo momento, è caricato di uno slancio, che si esaurisce solo nell'urto con il vissuto dell'altro. Perché uno slancio intenzionale, che fa di ogni nostro vissuto un co-vissuto, un con-vissuto, e l'intenzionalità è la carica di lancio di cui vi sto parlando, è la molla d'acciaio che fa partire la pallina del flipper, ma non allo stato potenziale, mai allo stato potenziale, sempre come atto.
L'intenzionalità la cogliamo solo quando lo ha raggiunto il bersaglio, queste frecce portano dritte al bersaglio, non ne vediamo mai la traiettoria, non ci dà tempo l'intenzionalità, è un proiettile.
Abbiamo voglia di fare scansioni… non ci dà il tempo. Quando parte, l'intenzionalità ha già raggiunto l'oggetto. È grazie a questo che noi possiamo vivere una contemporaneità di vissuti, una concordanza, che non è solo una coincidenza, una co-indicidenza, ma è una co-esistenza.
Tutto ciò che noi non vivremo nel campo intersoggettivo che si sta delimitando adesso, cioè che stiamo costituendo, non sarà importante per noi, non sarà reale, non sarà nulla. Il ricordo che voi avrete domani, stasera, tra un anno, di questo nostro incontro sarà solo e semplicemente un vissuto. La nostra coscienza intenzionale ha un colore, perché siamo noi in questo momento, è il colore dei nostri vestiti, ha una forma, che è quella di quest'aula, ha un tempo, che è adesso, ma che è anche l'attesa di questo incontro, il ricordo, per quelli che c'erano, dell'incontro scorso. Ha uno spazio, che è il luogo dove stiamo collocando la nostra possibilità di comunicare, la nostra Coscienza Intenzionale Vissuta Costitutiva, siamo noi, che ci parliamo, che ci guardiamo, e questo preciso segmento del mondo, pulsante, scorrevole, fluido, che stiamo vivendo adesso.
Mi è stato chiesto, mi avete chiesto anche voi, ma poi, in fondo, di che cosa è fatto questo incontro fenomenologico, questo magico incontro? Che cosa provo in definitiva quando intenziono qualcuno o qualcosa? Allora già vedete che in questo passaggio sto cominciando a usare indifferentemente il termine incontro e il termine intenziono. Io ti intenziono, ti incontro. Noi ci incontriamo, noi ci intenzioniamo. Cosa provo quando vengo intenzionato da qualcuno? Non ne possiamo parlare in astratto dell'intenzionalità, ragazzi, non ci sono definizioni. Non è una rappresentazione l'intenzionalità, non è un concetto.
Sarebbe stato per me facile, mi sono fatto anche degli appunti, la scolastica, Gugliemo di Hoccam, Brentano, la coscienza da un punto di vista empirico, poi Husserl, sono definizioni bellissime, che non servono a niente. Che non servono a farci vivere, farci vivere l'intenzionalità. Come sostanza vivente, come coscienza intersoggettiva impregnata di me e di altro, di me e di mondo, una tenaglia, che ci divarica e ci afferra, mentre ci divarica ci afferra.
Intenzionalità, il me altro, me – altro, me mondo.
Allo stato puro è un concetto volatile, è molto peggio di una categoria ingenua. I filosofi sono stati bravi a coglierla, noi gliene daremo tributo per sempre, ma tocca a noi, tocca a voi, viverla. Voglio dire, è compito nostro toccarne il limite, portarla fino all'estremo della sua rottura, questa categoria ingenua. Tocca a noi mostrarne ai filosofi l'immensa portata. È una funzione vissuta, non può esistere una coscienza intenzionante, altrimenti riproponiamo il participio, il participio presente, torniamo a Cartesio, a quello che per Binswanger è stato il cancro di ogni psicologia, la separazione dell'anima dal corpo. La res cogitans, la cosa che pensa, la cosa pensante. Se io dico coscienza intenzionante ripiombo indietro di tre secoli.
Coscienza intenzionata… intenzionata. E batate bene che io dico sempre vissuto, non vivente.
L'attimo in cui lo colgo è un dato, è un dato il vissuto ragazzi, è un dato.
Coscienza intenzionata, non coscienza intenzionate. Se vi dico una serie di parole unite da un trattino, l'intenzionalità è quel trattino, mi rifiuto di dire, di pronunciarla, perché il tempo che la pronuncio è già data, è già passata.
Soggetto – mondo, soggetto – soggetto, soggetto – altro, soggetto – sé, delirio – mondo, allucinazione – mondo.
Diventa più chiaro adesso perché la psicopatologia fenomenologica è riuscita a conferire lo spessore di un mondo, cioè un tempo, uno spazio, un io, a quelli che erano rubricati dalla psichiatria classica come sintomi: l'allucinazione, il delirio.
L'allucinazione veniva chiamata, e viene ancora chiamata, purtroppo, percezione in assenza di oggetto da percepire, definizione di allucinazione: una percezione che ha luogo in assenza dell'oggetto da percepire. Come se io su questo tavolo vedessi un vaso di fiori: allucinazione.
C'era una domanda, io sto cercando di seguire un po' le briglie che mi avete posto: il blocco dell'intenzionalità. Non è possibile il blocco dell'intenzionalità, ragazzi, non è possibile.
Dove c'è una coscienza c'è una intenzionalità che sta intenzionando qualcosa, dove c'è coscienza, quella coscienza è per definizione coscienza di qualcosa.
Quando il paziente mi riferisce di vedere il vaso di fiori sul tavolo, non se lo sta inventando il vaso di fiori sul tavolo, anche se io non lo vedo. Io non ho nessun diritto di dirgli “il tuo delirio è la credenza incorreggibile in un falso concetto della realtà”… definizione di delirio.
…credenza incorreggibile in un falso concetto di realtà…
Non sono in grado di percepirlo! Non so a quale realtà tu stai attingendo in questo momento! Sicuramente ad una realtà interiore, però la fenomenologia ci insegna che non c'è realtà interiore che non colga qualcosa di una realtà esterna ad essa, cioè che non rimandi a "qualcos'altro da". Quindi tutto quello che, come fenomenologo posso dire è che tu, psicotico, allucinato e delirante, stai vivendo un livello di realtà che a me è precluso, ma che ciò non di meno non è meno reale del livello di realtà nel quale io sto.
Tutto questo naturalmente non tocca minimamente l'etica, la deontologia della cura, nel senso che sono qui di fronte a te e ti do tutto l'aiuto di cui io sono capace per aiutarti a tollerare la tragedia che stai vivendo, per aiutarti a stare nel mondo in cui stai tra-scendendolo, cioè dandoti anche la possibilità di essere oltre quel mondo.
È in questo modo che io entro nell'Idios e nell'Eidos, cioè entro, colgo, sviluppo, intuisco l'essenza, la verità, di quello che tu stai vivendo.
Allora vedete il passaggio: allucinazioni e deliri considerati sintomi secondari, cioè derivati da un'alterazione organica della psichiatria organicista, le psicosi endogene.
Il concetto di endogeno: ciò che viene oscuramente dal di dentro, dall'Endon, che è il substrato organico di cui io sono fatto. Come la schiuma dalla birra, non è importante la schiuma nel boccale, l'importante è la birra. Non è importante l'allucinazione e il delirio, che stanno sopra, che sono la crema, ciò che emerge, importante è il cervello che sta sotto, questo era l'assunto di Griesinger, alla fine dell'800. Le malattie mentali sono malattie del cervello. Non perdiamo tempo a studiare le sintomatologie, sono la schiuma che sta sopra la birra.
Da qui siamo passati all'Eidos, alla forma , al nucleo di verità, a ciò che sta nelle pieghe più interne del vissuto. Le grandi impronte di pensiero che sostengono questa ricerca psicopatologica sul delirio, sull'allucinazione, sono rappresentate naturalmente oltre che dal radicale husserliano e heiddegeriano, come ho mostrato dagli studi di Merleau-Ponty sulla fenomenologia della percezione che risalgono al '45, dagli studi di Sartre sull'immagine e coscienza, che risalgono al '64, dall'opera fondamentale di Binswanger, l'ultima, "Delirio", "Wahn", che è del '63.
L'intenzionalità, questa categoria ingenua, mi consente di sedermi di fronte ad un'altra persona, passatemi il termine, senza prenderlo per il culo, senza assecondarlo "perché i pazzi vanno assecondati", senza pensare, mentre lui sta delirando, che tipo di neurolettico debbo dargli, se tipico o atipico, senza pensare se devo fargli il TSO, senza pensare a quali conflitti pre-edipici risale la fissazione della sua libido.
Purtroppo il termine psicoterapia è inaccettabile per l'approccio fenomenologico, fondamentalmente per due motivi.
Primo, perché contiene il suffisso Psiche che nell'accezione della fenomenologia non significa niente, purtroppo Psiche rimanda all'obsoleta distinzione Cartesiana che la fenomenologia trancia completamente con l'introduzione della nozione di Esistenza, nozione vissuta, Dasein, non Psiche, Esistenza.
Secondo, perché il termine terapia rimanda purtroppo ad una soggettività che agisce, un atto terapeutico su un substrato che lo patisce. Il termine terapia, direbbe Lacan, rimanda un soggetto supposto sapere, cioè all'idea che esiste evidentemente una conoscenza o la conoscenza di una fisiologia, di una fisiopatologia, cose che non solo bisogna vedere se esistono, per quanto riguarda le così dette, come si chiamano oggi, mental disorders, ma se anche esistessero non interessano all'approccio fenomenologico, se qui scatta ancora l'Epoché, la messa tra parentesi, saremo lietissimi di conoscere il substrato fisio-patologico, bio-molecolare, delle schizofrenie.
Però l'incontro con lo schizofrenico lo devo fare io.
Anche il giorno che la PET più avanzata mi farà vedere il disturbo del metabolismo glicidico, nell'area del corno fronto-temporale, io dovrò dirgli "come stai?… che provi?"
Attenzione perché è in azione un riduzionismo potentissimo, rispetto al quale tanto onore, tanto onore al positivismo ottocentesco, tanto onore a quelli che cercavano, attraverso il reperto delle gomme luetiche trovate sulle circonvoluzioni cerebrali nelle sale anatomo-patologiche di tutta Europa tra la fine dell'800 e gli inizi del '900, la base anatomo-fisiologica della follia. Tanto rispetto, perché almeno toccavano qualcosa, toccavano, proprio la toccavano, proprio con le mani.
Qui si è fatto un salto nella virtualizzazione più spinta e più avanzata, perché vengono date per presunte cose che sono completamente da verificare.
Comunque… ritorniamo alla fenomenologia della cura.
Il termine psicoterapia è inaccettabile. Questa è una cosa che ha frenato molto i fenomenologi, ha frenato molto i fenomenologi clinici - quando dico "i fenomenologi" dico "i clinici"- perché in fondo le terapie c'erano già, come ce ne sono oggi, ce ne sono tante. Però oggi abbiamo visto anche il fallimento di queste terapie.
Un conto era avere a che fare con l'astro nascente della Psicoanalisi, nella prima metà del '900, un conto è aver visto cosa è accaduto nel secondo '900. E' emerso il sospetto, anche in coloro che portano avanti gli altri modelli psicoterapeutici, che funzioni qualcosa quando un uomo incontra un altro uomo, e che questo qualcosa abbia più a che vedere con il come loro entrano in contatto, piuttosto che con il che cosa fanno. Anche quelli che hanno raggiunto stadi avanzati, cioè parlo di grandi terapeuti che si sono confrontati con gli psicotici, da Sullivan, a Benedetti, alla Fromm-Reichmann. Ad un certo punto, se li leggiamo, c'è veramente in tutti l'idea che più che con "che cosa sai" o con "che cosa fai", a certi livelli curi con "che cosa sei".
Sicuramente una cosa che cade nel momento in cui vogliamo porre le mani sull'accezione fenomenologica della cura, è il termine "psicoterapia individuale", distinto dalla "psicoterapia di gruppo". Per la fenomenologia, se esiste, può esistere una sola ed unica forma di psicoterapia: la psicoterapia duale. La psicoterapia è sempre duale, sia nel gruppo che “individualmente”. Se voi ci pensate bene, lo stesso termine di psicoterapia individuale tradisce una marcatissima impronta oggettivante, oggettiva, "io ti oggettivo", tu sei l'individuo su cui io sto realizzando il mio intervento. Addirittura in alcuni studi compare il termine "soggetto bersaglio", il target.
Quando facciamo questo tipo di operazione, cioè tratteggiando il profilo intenzionale dell'incontro, ecco vedete che cominciamo a dare il nome alle cose, se smantelliamo l'incontro di tutta una seria di aspetti atmosferici, per così dire, quello che emerge è una struttura, uno scheletro.
Allora, tratteggiando il profilo intenzionale dell'incontro come struttura a priori, cioè come struttura che addirittura lo precede nel suo avverarsi, costitutiva e fondante di ogni atto curativo, allora noi procediamo attraverso il tentativo di mettere in forma l'esperienza vissuta, cioè di far diventare l'esperienza un Erlebnis. E questo è qualche cosa di intrinsecamente dotato di capacità mutativa, e dunque terapeutica.
L'idea di fondo di questa impostazione, che stiamo cercando oggi qui di tratteggiare per grandi linee, è che la continua messa a fuoco - immaginatevi un microscopio, immaginatevi l'oculare di un binocolo, quel lavoro che si fa, quei dispositivi di messa a fuoco - la continua messa a fuoco che fanno il clinico e il malato quando si incontrano è di per sé dotata di elementi maturativi e terapeutici; la chiarezza, la chiarificazione, che non è l'illuminazione, lascia le luci e le ombre, lascia i nodi.
Il lavoro degli occhi è quello dei gesti, il gioco delle pause e quello dei silenzi, le espressioni allusive e interrogative, la postura, i tempi e i modi del linguaggio, i timbri vocali, le lacrime, l'ascolto, il senso e il non senso, la comprensione e l'incomprensibilità, il visibile e l'invisibile. La resa, la contemplazione dell'altro come puro essere nel mondo della diversità altrui e da parte dell'altro i vissuti espressi e quelli negati, i vissuti solo abbozzati eppure compresi, la distanza e la vicinanza, l'allontanamento fino a sfuocare e l'intuizione che coglie di infilata.
Ogni medico, ogni psicologo che eserciti la pratica della psicoterapia, non può non riconoscere questi elementi come facenti parte integralmente del proprio universo clinico e umano, cioè come elementi che risaltano potentemente in quella modalità che ho chiamato il declinarsi duale, duale, dell'incontro.
Tutti questi sono elementi che l'atteggiamento fenomenologico è in grado di cogliere vivamente e di esaltare nella loro densità semantica. La psicoterapia, breve o lunga che sia, si snocciola seduta dopo seduta con la struttura chiusa eppure indefinitamente aperta dell'incontro, incontro dopo incontro.

Come vedete ho scritto sulla lavagna un'altra traccia, giusto per non perderci di vista in questo mondo che stiamo esplorando.
Ho scritto: “Psicoterapia fenomenologica = Clinica dell'esistenza".
L'unica accezione nella quale noi possiamo concepire l'idea di porre in atto una psicoterapia improntata alla fenomenologia, possiamo denominarlo solo così: clinica dell'esistenza.
Le tre parole chiave, le tre dimensioni chiave entrano nella costituzione di una psicoterapia improntata alla fenomenologia sono: il Dasein, quindi l'esserci, il Pathos, la dimensione pratica e il Logos, come dimensione costitutiva, come dimensione trascendentale.
Dasein, Pathos e Logos. Adesso comincia a svelarsi la trama di fondo, l'ordito, che ha innervato e intelaiato questo percorso, attorno e dentro il crocevia fenomenologico e clinico dell'incontro. Vi accorgerete che dall'inizio ho insistito molto sulla parola “clinica”, l'ho caricata, come dire, del massimo significato possibile. Ho caricato il termine clinica addirittura di una valenza terapeutica, perché la clinica non è nosografia, la clinica non ha a che vedere necessariamente con l'inquadratura all'interno di un casellario, con il riconoscimento e la definizione di una determinata sindrome. La clinica è qualcosa di molto più ampio. Innanzitutto il termine clinica, dal greco clinomae, "sto steso, sto coricato", quindi la clinica ci rimanda immediatamente alla malattia, al malato, a chi sta male. Non c'è clinico attestato sulla teoria, non c'è clinico che non sia lì al capezzale dell'ammalato, che non sia accanto a chi in quel momento sta soffrendo. E se noi ci pensiamo, il colloquio clinico in psicologia, in psichiatria, è molto di più di un luogo al servizio del reperimento nosografico. Chi dice che in un colloquio clinico non si stia già facendo terapia?
La clinica, allora innanzi tutto, è incontro, perché non posso fare clinica per astratto, per assurdo, per ipotesi, la devo vedere la persona, la devo toccare.
Poi la clinica è forma perché tutto quello che pre-esiste allo sguardo clinico è informe, è un dolore vago, una sofferenza vaga, un fastidio vago, è la clinica che dà forma a questa esperienza, che la trafila, che la incanala, che la orienta, che la orizzonta, in un sistema di segni, di sintomi, di simboli, come è stato suggerito da una di voi.
La clinica ancora è inclinazione, è declinazione, è clinamen, direbbe Lucrezio, questo movimento che nel “De Rerum Natura” hanno gli atomi, questa traiettoria incredibile che è così , è sempre sbieca, è sempre obliqua, è attraversamento lo sguardo clinico.
La clinica è letto, inteso metaforicamente, come piano di distensione di una storia, orizzonte dentro il quale una vita può iscriversi, partitura, dentro cui la musica di un'esistenza è cifrata. Tessitura, trama narrativa, concatenarsi di eventi. Mentre scrivo, mentre parlo, mentre ho scritto questi appunti, mi sono scorsi davanti i reperti di tante vite, i cerchi, le volute, i nodi, le spine. Vedete come passo da un piano linguistico ad un piano figurativo, perché la clinica è impregnata di estetica, è impregnata di sensibilità, di sensitività, di sensi, di vedere, di toccare, di sentire. Mi vengono in mente i cerchi, le volute, i nodi, le spine, ne posso addirittura seguire tratto a tratto, anche ad occhi bendati, con la visione interiore direi, le curvature, le zone contratte, le storie dei pazienti, le zone di contrattura, non è solamente un'anca ad essere anchilosata, contratta, un gomito, anche proprio un progetto di mondo può essere coartato, può avere dei gibbi, delle deformazioni, e mi si presenta proprio così. Però può avere una gemmazione improvvisa, come un nido di gemme in un tronco, nella corteccia di un tronco d'albero, una fioritura, un innesto. E in questo strano tipo di pratica clinica, è proprio strana questa cosa che facciamo noi, questo sentire esistere l'altro attraverso il proprio sentire, attraverso i propri sensi, quest'eccitazione proprio dei sensi miei e dell'altro, quest'erotizzazione, perché no? è proprio un'erotizzazione.
Le pagine scritte da Minkowski a proposito del sentire, del vedere, del toccare, in questo splendido libro “Verso una cosmologia”, rimangono degli specchi limpidissimi di questi incastri tra il visibile e l'invisibile. Come diceva Merleau-Ponty, noi abbiamo dei sensi, bisogna farli vibrare, come le corde in uno strumento, finché sono inerti non c'è suono, se noi le mettiamo in vibrazione c'è la musica. E allora dobbiamo far vibrare la sensualità, la sensibilità di queste vie di senso specifiche che abbiamo nell'atto clinico in cui siamo-di-fronte-a, io sono di fronte a te, vis-a-vis. Fino a farne, di queste vie di senso, vie di accesso da un immaginario ad un altro immaginario, da un mondo ad un mondo, non la comunicazione inconscio – inconscio. La comunicazione mondo – mondo, non ci dimentichiamo che Carl Gustav Jung e Gaetano Benedetti, che hanno insistito molto su questo concetto dell'inconscio sincrono, della comunicazione inconscio – inconscio, ma per loro questo inconscio era una dimensione altro che presunta, altro che ciò che sta sotto il pelo dell'acqua. Era qualche cosa di plastico, cioè l'iceberg rovesciato se mi consentite, e tutto ciò che sta sopra, e tutto ciò che emerge è talmente grande, pregnante, forte, pieno, ineffabile.
Allora l'inconscio come ciò di cui io non riesco a parlare, ciò che rimane davanti a me come un mistero. Ma non la notte in cui tutte le vacche sono nere, non il cestino dei rifiuti dove posso mettere tutto, il partèrre come scriveva Freud a Binswanger in una delle sue ultime lettere quando gli diceva: "egregio amico, l'umanità ha sempre saputo di avere uno spirito e lei di questa casa che è l'umanità, sta visitando e abitando i piani superiori. Io – scriveva Freud – sto insegnando all'umanità che ha un sotto scala, che ha un partèrre, che ha una cantina".
Attenzione, perché questa cantina è diventata troppo spesso, troppe volte un alibi, è diventata troppo piena di tutto questa cantina ragazzi, è troppo, è troppo, voglio dire, ne è stata troppo predicata l'inaccessibilità. E sono stati troppo investiti alcuni tenutari delle chiavi di questa cantina,
attenzione. Come è possibile quando ho bisogno di giustificare un qualcosa di cui poi non vedo la traiettoria invoco l'esistenza dell'inconscio, quando poi non ne ho bisogno non lo invoco. Quest'inconscio come è? Un mostro che io posso evocare e posso, al tempo stesso, ricacciare dentro. Attenzione ragazzi perché Freud ha sentito per due semestri all'Università le lezioni di Franz Brentano, che è stato il maestro di Husserl… e Brentano parlava dell'intenzionalità, Freud ha ascoltato - più fortunato di voi - una lezione sull'intenzionalità che gli è stata fatta da Brentano.
E quando Freud descrive la libido come diretta ad un oggetto, perché non debbo pensare che sta tracciando un'intenzionalità dentro la libido, perché non debbo pensare che sta applicando la lezione che lui ha appreso da Brentano all'inconscio, perché non debbo pensare che sta facendo un rovesciamento, sta facendo un negativo della coscienza, la coscienza intenzionale è diretta sempre verso un oggetto, è sempre coscienza di qualcosa, l'inconscio, la libido, è sempre diretta ad un oggetto.
Allora queste sensazioni che ho nell'incontro clinico, nella clinica, che la clinica mi dà, io debbo riuscirle ad utilizzare fino al punto che esse debbono conferire materialità, ragazzi, materialità, alle idee e alle emozioni, ai vissuti, i vissuti possono essere sensorialmente percepiti. Cioè il fenomenologo deve allargare i pori di ingresso della sua sfera percettiva, la deve sfinestrare la sfera percettiva.
Per cui, un vissuto che nasce potremmo dire immateriale, nasce rappresentabile, deve essere incarnato nei suoi colori, negli odori, un vissuto può avere odori, può avere colori, musicalità o cacofonia, ruvidezza e carezzevolezza.
Il fenomenologo deve essere capace di incarnare i vissuti del paziente in un mondo, di costituirli in un mondo, un mondo fatto di forme visibili, di forme tangibili, di forme udibili.
Se continuiamo a vederci dopo un po' che ci vediamo, io e il mio compagno di strada, entrambi viandanti sulla via della vita, non abbiamo apparentemente più nulla da risolvere. Ad un certo punto ci dimentichiamo quasi del perché un giorno abbiamo cominciato a vederci. Però continuiamo a vederci, perché sentiamo che ha un senso vederci.
E così questa storia che insieme costituiamo io e lui, questa storia che è la storia interiore della vita, diceva Binswanger, che è la storia dei vissuti. Attenzione, non è la cronaca dei fatti, dice Binswanger, qua c'è una scansione precisa, c'è una differenza fortissima.
Questa è una cosa che fanno altri, che fanno i giornalisti, che fanno gli storici quando scrivono un libro di storia, che fanno i poliziotti quando devono ricostruire la scena di un crimine. E' la storia interiore della vita, è la storia dei vissuti in cui i vissuti si concatenano dentro tra di loro. La libertà e la necessita, il vincolo, la possibilità con cui questi vissuti si attaccano, sono cuciti, che è una cosa completamente altra da come sono andate le cose. Non ce ne importa più: scatta l'epoché su come sono andate le cose: non ce ne importa più di come sono andate le cose; come le hai vissute le cose?

In questo senso psicopatologo e paziente, clinico e malato, in questo senso, nell'atto del loro incontro, nel loro ”cum locum”, diventano “poietes”, (dal greco “poieo”) cioè creatori di mondi, diventano evocatori, costruttori, costitutori di mondi, di scenari, di immagini, di emozioni, di esperienze vissute che nella forma clinica svelano l'esistenza a sé stessa.
Non c'è esperienza vissuta, non c'è Erlebnis, che non coinvolga sempre e da sempre anche l'altro. Anche nell'autismo più radicale anche nella presenza che apparentemente si è destituita della sua apertura al mondo c'è sempre dentro, intrappolato questo germe della trascendenza, c'è sempre dentro anche l'altro. Nessuno è mai completamente e letteralmente solo, neanche il suicida è solo, neanche il suicida: se potessimo cogliere le sequenze che passano nella mente l'ultimo minuto, l'ultimo secondo, troveremmo una folla di altri rispetto ai quali quell'atto del suicidio rappresenta una comunicazione estrema, radicale, inappellabile ma comunque intenzionale.

Io ho tentato di schematizzare. Veramente ho fatto uno sforzo, perché sono cose difficilmente proponibili; sono cose che vanno vissute e quando uno ha la pienezza del vissuto se le tiene anche per sé.

Io ho segnato cinque punti. Allora, provo a indicare una serie di elementi che emergono nel cammino, nel percorso che un clinico fenomenologicamente atteggiato può fare con l'uomo che in quel momento ha lì di fronte, davanti a sé, come un'esistenza che fronteggia a mani nude un'altra esistenza:

1)
La clinica fenomenologica parte dall'incontro per arrivare all'incontro.
Come la coscienza è legata al mondo prima che l'uomo si accorga di questo, così clinico e malato, in quanto esseri umani, sono già indissolubilmente incrociati, implicati, essi non si danno mai l'uno senza l'altro, l'uno lontano dall'altro.
Come l'intenzionalità svela il legame che unisce da sempre e originariamente coscienza umana da una parte e mondo dall'altra parte, così l'incontro invera ed autentica quel legame aprioristico che faceva del clinico e del malato prima ancora che si incontrassero due essere umani, non ce lo dimentichiamo, due essere umani in relazione tra di loro.
La storia che il clinico e il malato co-istituiscono, in quanto storia interiore dei loro vissuti è sostanzialmente la storia dei loro incontri. Ogni incontro clinico improntato alla fenomenologia ha per struttura portante l'intenzionalità, ha per campo la coscienza, per orizzonte la libertà.
L'incontro fenomenologico è duale: duale significa che il Dasein del clinico c'è tutto quanto intero nel qui e nell'ora dell'incontro e sta di fronte al Dasein del paziente; questo loro stare-davanti l'uno all'altro "for-da-sein" si trasforma a poco a poco in stare- ed essere-con "mit-da-sein"; è sempre continuamente viva come un fuoco nel clima dell'incontro la presa intenzionale, come un cemento a presa rapida che è ciò che caratterizza la struttura aprioristica, formale, costitutiva e trascendentale dell'incontro. Non posso dire che lui non abbia intenzionalità nei miei confronti, non lo posso dire se anche non mi risponde, se anche non mi apre la porta della stanza, se anche mentre gli parlo il suo sguardo è altrove, in quel momento io sono comunque dentro di lui perché io e lui siamo da sempre noi due.

2)
La clinica fenomenologica è caratterizzata dall'assenza di costrutti teorici e metateorici di riferimento.
Il vissuto, Erlebnis, colto, intuito, visionato, costituito in una forma quindi “messo in forma” non viene integrato in nessuna sequenza prestrutturata in nessuno schema; il vissuto non viene risolto in nessuna operazione interpretativa, il vissuto viene lasciato invece galleggiare nell'atmosfera dell'incontro quasi in una sospensiva con tutti i suoi nodi, le sue ombre, le sue opacità, viene lasciato in certo senso chiarificarsi , viene descritto con accuratezza, viene riformulato, vengono richieste al paziente ulteriori, continue esplicitazioni dello stesso vissuto.
Questi due uomini che partono per questo viaggi insieme nell'incontro, partono con delle esperienze grezze, brute, con i dati empirici, con l'empiria. La parola è “Farung”, il punto di arrivo, la chiave di volta, è l'Erlebnis, ovvero il processo formazione di messa in forma dell'esperienza in esperienza vissuta, addirittura la configurazione del vissuto in una “Gestalt” dotata di senso che può essere ludica, lirica, tradica, libidica, erotica, di dolore, di speranza, di sogno: deve arrivare a una figura, devo arrivare a vedere un quadro davanti a me, una scultura, una cosa plastica.
Ad ogni modo sempre intensamente patica. La clinica fenomenologica ha la pretesa di lavorare attorno e dentro l'esperienza fino a tirargli fuori ciò che principio ha già intuito e colto: il suo nucleo, il “kerne”, il “gunt”, l' “eidos”, l'essenza, la verità, il noumeno.
Questo lavoro comporta un grosso processo di trasformazione che potremmo chiamare metamorfico o anamorfico, nel senso che, in alcuni casi, l'Erlebnis raggiunge una forma che non ha mai avuto prima e quindi si tratta di una vera e propria accelerazione formale del vissuto che è frutto diretto dell'incontro e del lavoro di due esseri umani.
In questo processo, che è un processo che ha carattere mutativo-maturativo, è insito un movimento terapeutico ovvero una messa in vibrazione, in risonanza di vissuti che incagliavano l'esistenza del paziente in gorghi e in strettoie, la coartavano.
L'esplicitazione del vissuto, la sua vivificazione, cioè la risposta alla domanda continua “Che cosa provi? Che cosa hai provato? Che hai esperito?” produce di per sé un effetto fortissimo.
La ricezione di quel vissuto, la sua intuizione, la sua comprensione da parte del clinico, produce una risonanza nel paziente; il paziente gli manda il vissuto dilatato; il paziente lo fa suo, lo tesaurizza, questo gioco intersoggettivo-intrasoggettivo rende l'esperienza vissuta trasformativa e terapeutica

3)
La clinica fenomenologica è caratterizzata dall'assenza di setting predefinito e rigido.
Clinico e malato sono liberi di incontrarsi come, dove, quando vogliono per il tempo che vogliono, in compagnia di chi vogliono. Quest'assunto della libertà radicale. Libertà di vederci per la strada, di vederci al bar, di vederci in residenza, di vederci in SPDC, di vederci in centro diurno, di vederci durante la crisi, di vederci nello studio. Perché siamo noi il Setting, la nostra coscienza che definisce il campo e che costituisce il mondo del nostro incontro.

4)
La clinica fenomenologica è caratterizzata da un'assenza di geometrie.
Non esistono assi geometrici relativi ad una presunta profondità o superficialità dei vissuti.
Non esistono assi longitudinali relativi alla progressività evolutiva o alla regressività degli stessi; è inammissibile che un vissuto venga seriato “in profondo”, “di superficie” “precedente” “antecedente” , “conseguente”.

5)
Il clinico fenomenologo si pone come alter.
Si fa alter nella misura in cui il soggetto che gli si rivolge si pone di fronte al lui come alter e si fa alter; il Dasein del fenomenologo diventa il primo alter in cui il paziente è veramente invitato a trascendersi a inciampare e a saltare: “mi devi saltare, sono un ostacolo, mi devi saltare!”
Ovvero, trascendi i confini del tuo io e del tuo mondo, vedi il tuo io e il tuo mondo nella prospettiva di un altro io e di un altro mondo.
Ecco che i sentimenti che legano il patologo e il paziente diventano in sostanza la via regia al trascendimento di quella condizione di co-artazione esistenziale e di sofferenza in cui il paziente stava. E' un passaggio fondamentale che accade durante l'incontro e la transizione dalla cura all'amore che coincide con la transizione dal mero essere nel mondo all'essere-oltre il mondo, dall'immanenza alla trascendenza, dall'immanenza schiacciante dell'angoscia che non vi fa vedere più vie alla trascendenza liberatoria dell'amore: amore di sé, amore degli altri, amore della vita.
Il malato così accede a gradi progressivi di libertà che comprendono la libertà e l'affrancamento da una sofferenza senza senso e senza luce.
L'amore terapeutico che scaturisce dalla struttura fenomenologica ed esistenziale della cura rende possibile al Dasein del paziente di affrontare e di trascendersi tutto il resto del mondo, degli altri, di sé stesso. La libertà finale coincide con l'accettazione della nientificazione ovvero della possibilità nientificante della morte o del nulla inteso come assenza di significato delle cose del mondo.
Il vissuto del paziente curato (non voglio dire guarito, non lo voglio dire più - avete ragione ad averlo notato - non voglio dire guarito… curato!), la libertà, il vissuto di un paziente curato che si costituisce come una forma forte, come un nucleo, una forma forte e consapevole, rappresenta per quel paziente la resistenza vissuta alla nientificazione.
Può andar da solo… quale separazione: ci amiamo e ci lasciamo, ci incontriamo e ci diciamo addio, non ci incontriamo per fonderci o ci amiamo per possederci. Il nulla del mondo intorno, il nulla del mondo ambiente, il nulla della dimensione inautentica del “si” delle cose che “si fanno” e “si dicono”, il nulla dei processi catabolici e distruttivi della vita, incontra a un certo punto un nocciolo puro, ineliminabile, resistenziale ed è quel singolo Dasein di quel singolo uomo che è diventato, con il suo terapeuta, presenza a sé con gli altri nel mondo.
Mi rendo conto che qui rientrano da qualche parte le suggestioni del nichilismo eroico e titanico di Nietzsche e di Junger dove l'esistenza vissuta dell'oltre-uomo, dell'anarca, è di tale unicità e autenticità da trascendere anche la forza dissolvente del nulla; ma in fondo, se torniamo ad Heidegger (che rimane comunque la grande stella polare verso cui a un certo punto Binswanger, il clinico, ha orientato la prua), a un certo punto Heidegger parla di essere-per-la-morte; cioè nell'essere per la morte heidegerriano, Heidegger include già la possibilità nientificante dentro la struttura ontologica della vita.
Heidegger dice “la vita autentica è l'essere per la morte”: l'uomo che vive autenticamente è l'uomo che tiene continuamente presente a sé stesso la propria possibilità di morire.
Quindi l'essere oltre il mondo binswangeriano va incontro a questa possibilità nientificante e la travalica, la scavalca, affermando l'indissolubile umanità dell'esperienza vissuta.
Questo mio discorso si accontenterebbe - più che proporre un ennesimo modello di intervento psicoterapeutico - si accontenterebbe se vi aiutasse un po' a ridimensionare l'ipertrofia delle differenze dei vari sistemi psicoterapeutici, valorizzando al massimo grado la struttura dell'incontro inter-umano come matrice duale di formazione di vissuti che consentono il trascendimento dalla coartazione verso la libertà; e di credere che questo, in fondo, è il minimo comune denominatore di tutte le pratiche psicoterapeutiche. Questo mio rimane un discorso che più sulle differenze di impostazioni teoriche, pone l'accento, enfatizza al massimo, ciò che accade effettivamente nell'evenienza vissuta dell'incontro. L'incontro come matrice duale è sempre dotato, comunque, di grazia e di mistero.
Del resto voi vi preparate ad essere dei clinici, dei terapeuti, degli psicologi, su un fronte che è in rapido cambiamento.
Se prendiamo le psicosi, le grandi categorie della psichiatria clinica classica, vediamo che c'è un mutamento contestuale enorme: l'utilizzo massiccio, a tappeto, della farmaco-terapia, ha delimitato, ha ristretto, tutta l'area della produttività , delle sindromi deliranti floride. Sono scomparse.
Vanno ai francesi, splendidi in psicopatologia della prima metà del novecento, le psicosi deliranti croniche, le psicosi allucinatorie croniche; le vecchiette che vivevano la loro vita tranquilla che però allucinavano, come pazze e tutta la vita allucinavano. Folie-à-deux, folie-à-trois, cose scomparse, cioè, assolutamente scomparse…le crisi mistiche…
La psicosi è stata chiusa nell'angolo e voi questo vedrete: psicotici nell'angolo.
Le cosiddette “sindromi negative”, “psicosi a sintomi negativi”, questa è una contraddizione enorme: figuratevi se un sintomo può essere negativo! Il sintomo di per sé è qualcosa che si esprime; figuratevi se qualcosa che si esprime in forma sintomatica può mai essere negativo.
Quello non parla perché c'è una voce che gli dice di non parlare!
Risulta difficile spiegare la catatonia che uno dall'esterno vede come una situazione immobile, mentre all'interno c'è inferno, un inferno c'è: andateglielo a spiegare.
Perché c'è un inferno dentro e nessuno lo capisce , nessuno si è reso conto che dentro quell'uomo si è accesa una miccia e sta tremando tutto… e sta tremando talmente tanto che non si muove più e uno si aspetta da un momento all'altro l'esplosione.
Quindi voi vi troverete di fronte a delle situazioni cliniche in cui viene ritenuto sempre più importante il deficit neuropsicologico. Era molto più facile avere a che fare con il paziente produttivo: era bello il paziente che delirava, che allucinava, era divertente, uno si divertiva a fare psicoterapia paradossale, a entrare nel delirio, a condividere il delirio.
Le sindromi Borderline sono state il paradigma del secondo novecento, paradigma che è rimasto a margini molto sfumati: personalità multiple, disturbi di personalità. Un grande cestino della spazzatura dove è finito di tutto: disturbi NAS.
Questi DSM che escono con una scansione ormai tra poco annuale, che tentano di definire ogni dettaglio e perdono di vista il quadro comune: alla fine dei vari DSM ( adesso è uscito il IV-R) sono costretti a tenere l'appendice con i disturbi NAS (Non Altrimenti Specificati), che è sempre più grande. Tra poco avremo due DSM: un DSM che è l'elenco telefonico e un DSM per i disturbi NAS… stanno tutti là.
Le nuove patologie dello schema corporeo dove le mettiamo? Dai disturbi del pattern alimentare alle trasformazione plastiche dell'identità di genere, alla stessa modificazione corporea, evidenziano come il confine tra costume, la moda, la cultura e la psicopatologia è definitamene perduto.
Intanto tutto questo andrebbe incontro a un aumento della domanda: cioè la gente ha fame, chiede di essere vista, ha fame di incontri, c'è molta gente che vuole l'incontro al di là delle formalizzazioni. Vanno dai maghi, vanno dai maghi perché i terapeuti non parlano più, non sono più interessati a sapere qual è il loro mondo, a sapere che provano realmente ed è invece questa la prima cosa che fa il guaritore, che fa lo sciamano, che fa l'uomo della medicina tradizionale…sono fenomenologi…ragazzi, purtroppo ve lo devo dire: i maghi sono fenomenologi!
In un momento di dissoluzione di programmi, di precarietà economica, di nomadismo senza radici, anche l'idea, ad esempio, di sottoporsi a delle analisi strutturate, costanti nel tempo, immutabili nei ritmi nella scansione, risulta difficilmente proponibile perché i tempi sono accorciati, non c'è denaro. Nessuno oggi ha quattro ore da dedicare al proprio inconscio che poi sono diventate dodici perché bisogna metterci una per arrivare dall'analista, una per tornare dall'analista: cioè sono contesti in mutamento epocale e se guardiamo, dalla famiglia triangolare alla famiglia poligonale o alla sparizione della famiglia , cioè la sparizione dei ruoli definiti intrafamiliarmente.
Quello che sto cercando di dirvi è che voi vi troverete ad operare in un contesto che ha modificato profondamente, radicalmente e irreversibilmente la formazione della personalità umana, cioè l'essere umano che voi incontrerete è molto più sfuggente e complesso di tutto ciò che ci hanno lasciato le nostre filosofie, le nostre antropologie, le nostre psicologie, le nostre neurobiologie. Pensiamo all'assunzione e all'abuso su larga scala di droghe, dei farmaci, l'abbondanza di esperienze psichedeliche .
Dunque parametri continuamente slittati rispetto alla definizione di sindromi cliniche ben definite . Se volessimo tirare una sintesi, tutto questo rimanda all'emergere potente di due aspetti grossi: uno è quello dell'identità e l'altro è quello della relazione e la fenomenologia su queste cose c'è sempre stata. C'è l'identità nell'esserci, c'è il Dasein e la relazione dell'essere-con.
Allora, quale orizzonte prospettico oppongono le divisioni di scuole psicoterapeutiche a questo magma? La fenomenologia si offre come strumento di efficace descrizione di ciò che emerge, del sempre di nuovo, non pregiudiziale. Forse ha dato il fronteggiare ciò che non si sa, il qui ed ora.
E' evidente che un po' di enfasi e un accento posto sul termine psicoterapia di fronte a questo quadro va un po' a sbriciolarsi.
Io vi ho lasciati con l'idea che due uomini si incontrano, nel senso che essi vedono l'Incontro si mette in moto un campo di mutamento che è terapeutico per entrambi. E io credo che dobbiamo valorizzare appieno in questa dimensione naturalmente umana questi aspetti intrinsecamente terapeutici, depotenziare gli elementi tecnici e valorizzare gli aspetti che scaturiscono dall'accostamento semplice diretto di queste esistenze. Ho aperto con questa frase splendida di Martin Buber: “Ogni mezzo è impedimento: solo là dove è caduto ogni mezzo può essere possibile un incontro” .
E allora l'immagine finale non può che essere quella del binswangeriano mit-Dasein, l'essere insieme, l'essere noi due nell'amore. L'amore come struttura autentica dell'incontro tra un uomo e un uomo, al di là, a un certo punto di ogni distinzione.
Del resto questa particolare curvatura alla clinica fenomenologica viene da un contatto diretto le sindromi della grande psichiatria clinica, con la schizofrenia , con la malinconia, con la mania: si è arrivati a questo perché sono state viste da Jaspers ad Heidefeld, da Binswanger e Minkowsky negli ospedali psichiatrici di Parigi, Morselli e Borgna nell'ospedale psichiatrico di Novara, Cargnello a Sondrio, Callieri a Santa Maria Immacolata di Guidonia, voi ogni giorno nelle vostre esperienze.
Sono stati visti gli psicotici: cioè io considero quanto gli psicotici hanno ne più ne meno che un distillato prezioso, ad alta gradazione che io ho sottratto e ho messo insieme a quello che queste persone che vi ho citato, hanno elaborato: dai loro scritti. E voi sapete che un distillato è il frutto di quintali di grassi, di vinaccia, di cose che vanno perdute.
Ogni sguardo che la fenomenologia getta sul mondo è sguardo reduce dalla visione di queste fenomeniche: dalle fenomeniche del delirio, dell'allucinazione , della distruttività, dell'autismo, della catatonia, della mania,, della malinconia.
Alla clinica fenomenologica spetta il merito di avere destituito sintomatologie destinate all'insignificanza di mere espressioni di macchine guaste, di processi organici alterati. Di averle costituite in Gestalt dotate di senso, fino addirittura a parlare di una Lebenswelt, di un mondo della vita schizofrenico al di là delle domande, di una Lebenswelt malinconica, di una Lebenswelt maniacale.
Quindi prima ancora di mettere in gioco la guarigione diciamo che la fenomenologia oggi ci dà la possibilità, a noi che ci poniamo di fronte allo psicotico la possibilità di dare a lui una possibilità di un'organizzazione. La fenomenologia restituisce agli psicotici una Lebenswelt, cioè qualcosa che gli renda meno tragico, meno definitivo il suo essere nel mondo, in cambio la fenomenologia delle condizioni esistenziali psicotiche ha insegnato come può essere possibile per un essere umano ad esempio resistere all'azione nientificante della psicosi da una parte, all'azione nientificante del mondo esterno dall'altra parte.
Questa lezione che la clinica fenomenologica ha preso direttamente dagli psicotici costituisce una parte grossa del bagaglio di ritorno al mondo dei non psicotici.
Attenzione: c'è stata un'andata, adesso c'è un ritorno… è inutile dire che lo psicopatologo fenomenologicamente fondato, il clinico fenomenologo, diventa il viandante tra questi mondi, il cercatore di senso un'espressione che credo si dica “Deasinnender”, il cercatore di senso “Sin” è senso Deasinnender colui che cammina cercando il senso delle cose… il poeta dei mondi possibili.
Quindi l'essere nel mondo heiddeggeriano è stato sicuramente piegato da Binswanger in senso potenzialmente terapeutico: dalla attualità coartata, dal progetto di vita distorto di un'esistenza che si trascina incompiuta come un'esistenza mancata, lo psichiatra Binswanger indica con decisione il passaggio ad un'esistenza possibile.
La fenomenologia, in questa declinazione clinica ed esistenziale, tra luci radenti e cadute libere, schiude l'universo dei mondi e delle esistenze possibili ad una libertà radicale e coisistentiva che io credo - con il professor Marhaba che mi ha invitato e secondo gli insegnamenti dei nostri comuni maestri e spero con molti di voi - che nessun sistema, neppure il più aperto dei sistemi è oggi in grado di garantire.
Grazie.
Mi faceva piacere adesso avere un ritorno, così a caldo, su quello che avete vissuto, su quello che avete sentito al di là al di là delle domande. Mi farebbe piacere sentire qualche vostra esperienza, i vostri interventi. Su che piano di pensabilità, su che piano di vissuto sta dentro di voi adesso, dopo quello che ci siamo detti , questo tipo di approccio.

PUBBLICO: Per me è stato sconvolgente, appena arrivata all'Ospedale dei Colli (ex Ospedale Psichiatrico di Padova. n.d.r.), lo scoprire, il cominciare a "fare" fenomenologia senza sapere cosa fosse. L'incontro-a-due di questi psicotici, con queste persone che erano altro da me; in ogni posto in cui cercavo di entrare in relazione per portarli fuori da questa loro sofferenza, che nella più totale chiusura dimostravano, ho scoperto dopo e ho scoperto qui adesso che è un incontro che deve portare a di un incontro, ho scoperto che si chiama fenomenologia.
La cosa che mi ha distrutto in questi sei mesi, che mi continua adesso a distruggere, adesso che devo affiancare i ragazzi nuovi, è che prima mi aiutava il gruppo, la riunione di post-gruppo a rielaborare i miei vissuti. Il suo autismo, quel paziente, lo buttava su di me, e magari lo ributtavo io su di lui e allora poi con il mio gruppo ne parlavamo, quindi avevo una valvola di sfogo: ma quando se un giorno forse sarò qualcuno, farò qualcosa per qualcuno, incontrerò qualcuno per arrivare ad un incontro con cura, con amore, quale sarà la mia valvola di sfogo? Dove devo andare? Cosa devo fare? Questa è una cosa che mi spaventa tantissimo e mi ha turbato per tutta la lezione.
Perché va bene l'intenzionalità, ve bene tutto, ma io sono stata molto impulsiva in tutta questa intenzionalità che ho vissuto sulla mia pelle e nell'incontrarmi con questa persona gli ho scaricato addosso tanto, forse non l'ho rispettato come malato: gli ho detto forse con sacralità “sei uno schizofrenico”, forse l'ho portato al litigio, l'ho portato ad urlare, mi sono fatta prendere a calci però alla fine sono stata male io non curandomi del fatto che stesse male lui.
Dopo io dove andrò? Cioè quando sarò laureata… se faccio questo, se porterò un paziente ad un incontro, da un essere-nel-mondo a un essere-oltre-il-mondo, dopo io dove vado a buttare tutta quella merda che mi ha buttato addosso lui? …cosa faccio per ripulirmi ed affrontare altri pazienti? Magari nella giornata o nella vita non potrò vederne solo uno.

DI PETTA: La cosa che tu hai posto è molto calda: io credo che tu l'abbia posta in maniera proprio fenomenologica, relativa al vissuto, a come tu hai vissuto fenomenologicamente senza sapere che stavi facendo fenomenologia. Le tue parole, le tue emozioni ci hanno comunicato veramente il non senso di questo incontro. La rottura di questo incontro e anche la tragicità di questo incontro.
Tu cali su di te, dicevamo alla fine, anche questa tragedia: questo dolore del mondo però in realtà non sarai tu, sarà lui… non sarà la tua esistenza a sfasciarsi… è la sua che già si è sfasciata.
Tu in questo momento, dentro questa storia che stai riattualizzando, una serie di cose stai Daseinstificando. E quindi ti apri a delle direzione future: in realtà è terribile è già accaduto, nell'incontrare lo psicotico il terribile è già accaduto.
Questo da una parte ci consente una certa libertà di movimento: non c'è male che noi possiamo fare allo psicotico che non gli sia già stato fatto. Non c'è tortura che egli non abbia già subito e superato. Questo gli conferisce un grado di invulnerabilità rispetto a noi. Che cosa accade dentro di noi? Sono possibili diverse vie: ci sono state altre persone che hanno cominciato, come te, con questo entusiasmo, con questo slancio, andando avanti senza rete e poi ad un certo punto si sono fermate, si sono crostificate, si sono concretizzate, sono diventate creta, sono diventate quella “merda” che tu dicevi, per cui adesso se ne fottono bellamente e niente gli fa più niente, non gli fa più senso niente. Il burn-out, la sindrome del burn-out: sono gli operatori bruciati che stanno nelle istituzioni, che ormai non gliene fotte più niente, che fanno le cartelle cliniche, che fanno i test o che fanno altro.
Però non è l'orizzonte di tutti, questo: c'è chi rimane… c'è chi rimane e impara a fare il gioco della messa a fuoco e fuori fuoco, la distanza, la vicinanza, la prossimità, impara a giocare, diventa un ottimo palleggiatore, un ottimo risponditore; dice “'sta volta ti faccio vedere io”. Comunque fa un ottimo lavoro perché diventa consapevole del limite.
Tu l'hai sforato quel limite: adesso a poco a poco stai lavorando per rimanere a galla. Ma questa è un'esperienza…tu devi stare molto attenta: capirai che c'è uno sfondamento, che c'è una deflagrazione da qualche parte, che si attivano dentro di te delle zone psicotiche e queste zone psicotiche sono dirompenti per i confini del tuo Io. Allora starai più attenta a riposizionare una distanza diversa, però continuerai a lavorare e comunque sarai una persona autentica.
Poi c'è ancora un'altra possibilità: la possibilità di chi impara a trasformare la merda in oro, come Re Mida. Però non è un processo che si può fare da soli, che è sempre il frutto dell'incontro tra di noi. In questo momento le tue aspettative erano altre, ti hanno portato lontano, la tua caduta ha fatto molto rumore perché sei caduta dall'alto, ti sei sfasciata. Con lo psicotico, quando si comincia a lavorare, in questo gioco di bagna-asciuga, si comincia a capire che i movimenti sono lunghi, sono impercettibili e bisogna accontentarsi di poco fino a dimenticarsi di certe onnipotenze.
Cioè: quanto io sono elastico? quanto io posso cambiare? quanto cambi tu? quanto cambiamo insieme? Stare attenti… attenti a come si fa i passi, non che uno corre con gli stivali delle sette leghe e l'altro ha le pinne al piede che non gli consentono un allargamento più lungo di un compasso? Attenzione.
Ciononostante il valore di quello che tu hai vissuto è enorme anche se ti ha sfasciato, ciò nondimeno ti ha costituito come terapeuta, nel senso che se tu superi questa cosa, tu vai avanti, tu programmi tutta la vita, quello che vuoi tu. Però quando tu ti troverai davanti a questa persona, sarai stata presa a calci, tanto da sentirti scivolare, da chilometri lungo pareti di ghiaccio. La tua formazione però è un'attitudine che non puoi sentire, senti solo il dolore.
Quindi vedete come imparate nell'incontro fenomenologico, soprattutto con gli psicotici.

PUBBLICO: All'inizio, ha parlato di intenzionalità. Allora, questo suo intervento ha molto del filosofico, a partire dalle fonti vaste che ha portato a noi. E ha portato la psicologia, secondo questa visione fenomenologica anche da un punto di vista scientifico a un ritorno a una psicologia umanistica e credo che questo punto di vista dia una scossa, una scintilla che secondo me va al di là della psicologia intesa come ricerca scientifica ma che abbia del filosofico e abbia addirittura del religioso nel senso di legame umano al di là di ogni strumento, cioè lo strumento siamo noi.
E questo è un elemento che io ho percepito in un certo senso ( forse anche per una visione mia del concetto che qui studiamo all'università diverse tecniche psicoterapeutiche e di conseguenza c'è anche una certa frammentazione) ho visto questa idea di vedere le cose, il fenomeno, come una cosa che può benissimo essere utilizzati insieme a ogni terapia, insieme a ogni tecnica. E mi veniva in mente nell'incontro con lo psicotico: molti docenti, di stampo anche fenomenologico che parlano del fatto di tenersi con una corda agganciati alla realtà, per poi calarsi nello psicotico. Io credo che il calarsi nello psicotico sia legato al concetto fenomenologico e l'attaccarsi alla realtà ad avere comunque una tecnica, o comunque un razionalizzare l'irrazionale.

DI PETTA: Ti ringrazio di questo tuo intervento che mi ha fatto vedere come certe cose sono passate, sono state colte anche al di là della mia capacità di esprimerle.
Sì è così: quello che tu dici è giusto; in parte la fenomenologia ha funzionato come propedeutica a generazioni di psichiatri che fino ad oggi sono "passate per". E guarda caso il momento giovanile della formazione noi avevamo la fascinazione della sintomatologia e diventava anche un momento di maggior attrazione per certe letture. Poi dopo sono passati oltre; però qualcosa gli è rimasto. Quindi questo la fenomenologia lo è da sempre: quello che io sento in questo momento è che è un peccato mettere in archivio tanta roba perché il rischi che corriamo è anche questo. Se non ci fosse l'amicizia, se non si fosse creato il rapporto tra gruppi di voi , allora noi non saremmo qui a parlare di questo. E la fenomenologia è fuori dagli ambiti di insegnamento; in tutte le università non c'è una cattedra in psicologia fenomenologica, di psichiatria fenomenologica. Quindi veramente tutto questo sapere va in estinzione, rientrerà nella epistemologia della psicologia. E questo è un peccato perché noi deponiamo un armamentario, uno strumentario, che non solo come dice il vostro collega è utilissimo, ma che, come io ho cercato di proporre qui, può addirittura rientrare in campo dalla porta principale, cioè può addirittura oggi occupare la frontiera, la dove è la frontiera può schierarsi, può far fronte.
Ecco perché mi faceva piacere se questi incontri continuassero, se qui a Padova si aprisse proprio un focolaio di interesse per questo tipo di studi; se potessimo ancora coinvolgere i fenomenologi viventi o quelli nascenti, e se potessimo mettere su con loro, anche proprio delle linee per una pratica fenomenologica, per una fenomenologia vissuta sul campo. Io credo che faremmo io cosa veramente importante, perché poi ritorni che voi mi state dando sono forti: sono cose che cioè effettivamente vivete… e sono vissute. E sicuramente se noi mettiamo assieme tutte le cose che ci siamo detti ci troviamo un mucchietto vita vissuta, di cose scavate, di nulla: cioè nessuna tecnica; non ne usciamo con niente in tasca. Però siamo sicuri che sia proprio così ?

PUBBLICO: Io ho una domanda un po' più emotiva e mi allaccio a quello che è stato detto prima. Noi abbiamo tirato fuori moltissime cose da qui e altre si sono intuite : avrei una domanda cruciale (penso) per tutti noi; ed è quella di capire in un incontro di questo tipo con un paziente psicotico, quanto la mia possibilità di curarlo dipende dalla capacità di percepire e condividere il suo dolore psicotico o quanto dipende piuttosto dal fatto che ho vissuto con lui certi tipi di esperienze e poi sono arrivata a controllare questo terreno? ( se è possibile controllarlo o se la possibilità di cura è fatta da tutte e due queste cose o probabilmente da molto altro . Io non ho esperienze personali però da lei o che ha fatto altre esperienze mi piacerebbe capire cos'è queste cosa dell'empatia : che valore ha l'empatia con il paziente? E com'è possibile valorizzarla per lavorarci sopra per curare una persona o per curarsi insieme.

DI PETTA : Ti ringrazio per queste cose che tu hai disegnato che devono diventare per te veramente le linee traccianti di un percorso che poi finirai tu, lo riempirai tu. Comincerai a vedere gli psicotici sistemare questo mosaico . Io volevo recuperare di quello che tu hai detto questo contatto: cioè il fatto che io metto tra parentesi la psicosi dell'altro , il fatto che l'altro sia uno psicotico: io lo vedo come uomo: è un passaggio incredibile rispetto a chi invece parte dalla considerazione che si trova di fronte a soggetto affetto da. E' una cosa che mi dà un vantaggio incredibile perché mi fa saltare tutto mi fa essere direttamente con , indipendentemente da e soprattutto mi libera da un mandato enorme che è quello della custodia, della normalizzazione , della “restituitio ad integrum”, della diagnosi, della passivizzazione, dall'imposizione della terapia: ci sono cose che pesano, che allentano che disperdono l'energia. Tutto questo è saltato: è chiaro che tengo presente il fatto di avere a che fare con una persona il cui dolore è “cosmico” così è stato definito, “dolore del mondo”, dolore cosmico”. Quindi non è facile andare a condividere questo dolore sine materia: è veramente un vortice di difficile uscita : non posso sentirmi così ambizioso, così onnipotente da pensare di dovere contenere dentro di me tutto il dolore del mondo che in quel momento quell'uomo là sta provando e continua a provare quel giorno. Però il fatto che io sono presente lì, che io sono lì, io ci sono: cioè la forza terapeutica dell'esserci con: anche sul ciglio dell'abisso non è detto che debba buttarmi giù. Già condividere, già il far sentire la persona accettabile per quelle che sono le sue parti umane, per quello che è il suo mondo… i ragazzi colgono delle fisionomie, dei gesti, dei volti, di come gli arti si dispongono nello spazio. Esse sono figure cariche di senso: alcune sembravano veramente delle sculture di Veneri arcaiche, con questo sguardo fisso, sembravano occhi senza pupille. Queste motivazioni sono belle, sono forti, sono già di per sé dotate di un valore terapeutico: non devo pensare necessariamente che se questo soggetto non viene immediatamente reinserito in una catena produttiva, in una catena professionale, se non si sposa, se non fa dei figli, se non paga le tasse, se non si compra la macchina, non è guarito. Non devo pensare questo; queste sono diverse. In quel momento io sto vivendo l'umanità di quelle persone e non è un'umanità mutilata o menomata, un'umanità in potenza, un bonsai di quello che fu un uomo, di quello che sarebbe stato un uomo quello che sarebbe potuto diventare. No, a noi appare un uomo: lì c'è la trasformazione che l'atteggiamento fenomenologico, qua mi sento di dire veramente,
onnipotentemente, da re Mida trasforma la merda in oro: cioè lì un esistenza mancata diventa un'esistenza possibile.

PUBBLICO: Io penso che il compito del terapeuta è la cessazione della sofferenza , comunque anche se non la cessazione totale, la tendenza al limite è sempre quella della cessazione della sofferenza. E allora io mi chiedevo come “risponde” la teoria fenomenologica al paradosso che vedo nel dire, per esempio, sul vaso di fiori, sulle allucinazioni, che da un lato quel vaso di fiori esiste perché esiste nel mondo fenomenico del soggetto, dall'altro canto lo devo curare nel senso che gli devo togliere questa sofferenza, perciò comunque mi pongo dall'alto con un dovere dirgli : “Guarda che non esiste il vaso”. Voglio dire: non so se è così però non riesco a mettere insieme l'accettare in tutto e per tutto il suo mondo con al contempo doverlo curare: Com'è che stanno assieme queste due cose ?

DI PETTA :C'è una ragazza che si chiama Claudia, che è mia coetanea e che seguo da 10 anni. 10 anni fa la incontrai che faceva una flebo di Serenase e mi fermai perché sul comodino c'era “Delitto e Castigo”. E' una ragazza che viene dal sud, fu trasferita a Napoli perché il padre lavorava alle mense universitarie come cuoco; e lei mi raccontò un sogno bellissimo… di lei che stava su una barca (questo me l'ha raccontato 10 anni fa) era un sogno proprio di esordio: lei stava su una barchetta piccola, a un certo punto questa barchetta faceva naufragio, quindi affondava e poi morivano tutti e lei si trovava viva sotto la superficie del mare; il mare finiva, poi c'era uno spazio, un vuoto: assenza di gravità in cui lei ritrovava viva e sola camminava sotto la superficie del mare e incontrava lungo la strada un gatto morto che lei superava, scavalcava, un altro gatto morto, un altro gatto morto, un altro gatto morto: Sono passati questi 10 anni.
Tra l'altro lei aveva e ha questo delirio, s'era costruita questa cosa: un giorno stava all'università quando si avvicina un camper di questi che chiedono sangue, che fanno un po' di cosa, danno volantini, non lo so…e questo è stato il momento preciso in cui è stata arruolata in un campione di schizofrenici: cioè lei è stata schedata in un campione di schizofrenici su cui loro fanno follow-up a distanza di anni e quindi continuano ad esercitare su di lei un'influenza a distanza, influenza che in alcuni momenti è terribile, perché le voci le dicono: “scendi dal pullman, fai la puttana, svestiti, cammina in mezzo alla strada, scappatene, ecc…”. In altri momenti lei è riuscita anche a parlarne; lei è insegnante di sostegno: io mi sono sempre domandato che tipo di rapporto lei abbia con questi bambini difficili tra l'altro); lei riesce a fare l'insegnante di sostegno tranne nelle fasi di recrudescenza della sintomatologia florida in cui ovviamente non riesce. Oggi, lei è ingrassata molto, prende molti farmaci. Con me ha un rapporto molto particolare, a volte ci sono degli incontri in cui non ci diciamo assolutamente niente, in cui semplicemente stiamo seduti uno vicino all'altra, però sono incontri che non hanno nessuna regolarità, nessuna periodicità.
E io un giorno le dissi: “ Claudia, io ho finalmente conosciuto le persone che ti hanno reclutato come campione per cui adesso ci parlo e gli dico che il tempo di osservazione è finito, loro dovranno usare nomi diversi” Perché era un momento in cui non vedevo via d'uscita. Le voci la bombardavano nonostante lei avesse alzato molto il dosaggio dei farmaci: non c'era proprio verso di bloccarsi con la patologia.
Lei per un attimo disse: “lei può veramente contattare questo persone? “.
Io dissi “ Sì, gli faccio sapere, mi telefona in dei giorni…”
“ Dottore, ma l'ha incontrata ?”
“ No…”

Me la sono molto giocata la cosa, me la sono giocata nell'arco di due mesi circa. Telefonava, chiamava, mi contattava.
“ Sì, stiamo cercando di trovare la tua cartella, il tuo fascicolo…”
Finalmente – questo accadeva 4 o 5 anni fa- lei ritorna:
“ Tutto a posto Claudia, sei stata esclusa dal campione, sei libera”
Patrizia non fu contenta di questa cosa, non fu contenta perché da qualche parte era importante questa cosa per lei; ma io questo non l'avevo capito subito, l'avevo capito dopo l'avevo capito dopo alcuni mesi, quando lei tornò e mi disse
“ Comunque sono tornati, non è vero che se ne erano andati e io sono ancora lì…” e piangeva, piangeva a dirotto chissà per quanti anni…diceva:
“ lei mi ha ingannato dottore perché mi diceva che più in là questo materiale sarebbe andato perduto, invece non è stato così: adesso mi toccherà rimanere tutta la vita schizofrenica…”
E allora questi sono momenti in cui bisogna rendersi conto che quella particolare forma di vita, cioè la lebenswelt schizofrenica, che vede questa donna, questa tragica figura di donna rinchiusa per sempre dentro questo campione, dentro questa coorte di persone, di persona in cui troviamo il mit-dasein, perché lei non è da sola, lei sente di condividere la sorte di tutti quelli che quel giorno sono stati arruolati per quello studio e ai quali hanno urlato la schizofrenia. Per cui lei fuori da quel tipo di condizione tragica, sofferta, non ha più identità, non ha più senso la sua vita e tutto questo ha a che fare con una donna che ha 35-36 anni; fino ad allora il fidanzato non l'ha mai avuto, non ha prospettive di maternità, non ha prospettive di autonomia rispetto alla famiglia in cui vive, va a lavorare meccanicamente, freddamente, glacialmente certe mattine che sembra veramente una persona programmata che va lì, vede questi bambini, torna a casa, si mette a letto e aspetta il giorno dopo. Veramente c'è la prospettiva di un'esistenza mancante. A un certo punto non c'è neanche più il campione; voi vi rendete conto dell'importanza di essere reclutati in uno studio internazionale sulla schizofrenia; da qualche parte io ho anche pensato che il mio modo di avere a che fare con lei, cioè il mio interesse per lei, il mio entrare nel suo mondo, il mio avere a che fare con i suoi sogni, da qualche parte che come se lei pensasse di essere di fuori dalla portata dei miei interessi , nel momento in cui si sgancia dalla schizofrenia, da qualche parte ci deve essere stato sicuramente, siccome l'ho vista, non appena ho cominciato, mi sono molto innamorato proprio della sua lebenswelt schizofrenica; mi capitava tutti i giorni, soprattutto nei reparti di psichiatria, di passare accanto a un comodino e di vedere sta ragazza con la flebo, con lo sguardo perso che legge Dostojewsky…cioè uno va in psichiatria e subito si fionda in reparto, e da qualche parte, come dire, io oggi avverto che da parte di Patrizia, non c'è un'accettazione, una condivisione, un superamento del dolore, però lei nonostante la psicosi vive, forse non vive la psicosi, però vive nonostante la psicosi. Questo già è importante, già è un traguardo terapeutico importantissimo perché il modello medico della guarigione a parte che non è applicabile neppure – se voi guardate tutte le patologia, prime erano acute e si risolvevano o con la guarigione o con la morte. Adesso le patologie stanno diventando tutte croniche: c'è guarigione dall'infarto? Potremmo fare la fenomenologia del cardiopatico: l'ascensore, la scala, la compressina, l'aspirina, l'affanno, la dieta, la vita…che cosa guarisce la medicina?

(entrano le guardie del palazzo)

Purtroppo anche per questa volta il tempo a nostra disposizione è finito… il discorso sarebbe ancora lungo… speriamo di rivederci presto. Buon lavoro a tutti.
Grazie.


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