Dibattito:
domande al Prof. Borgna

PROF.SSA TESTONI: Volevo fare una domanda al Prof. Borgna, che ha presentato l'importanza dei grandi testi letterari, e mi pare anche di capire da quanto ha detto che sono anche più bravi quanto più sono capaci di richiamare lo zenit, gli inferi e gli abissi dell'esperienza di ognuno, tanto da permettere ad ognuno di ritrovarsi all'interno di questa infinita gamma di possibilità di esistenza. Nella sua esperienza con Persone che vengono ritenute e classificate come sofferenti dal punto di vista psichico e psicologico, qual è l'esperienza di incontro con i loro testi scritti? Le cosiddette Persone folli scrivono? Come scrivono? Come si approccia Lei all'esperienza della scrittura di colui che dagli altri viene ritenuto folle?

PROF. BORGNA: forse occorre premettere che la Psichiatria si occupa di quelle che sono le realtà nevrotiche e psicotiche, utilizziamo ancora questa differenza categoriale da parte mia indispensabile. Le grandi (…?…) psicotiche si accompagnano, a volte senza dubbio- come accennava con grande intuizione e sensibilità la Prof.ssa-, a fertilità, a creatività sconvolgente, che nella vita "normale" non avevano. Testi famosissimi, come quelli di Nerval, oppure di Artaud, o di Strindberg, sono certo testi di psicopatologia, cioè espressioni di una vita segnata da una follia clinicamente molto bel definita, e anzi molto grave. La sopravvivenza della loro capacità di espressione stilistica fa in modo che deliri scompaginati e indifferenziati si trasformano invece in esperienze di grandissima creatività, quasi che cioè anche l'esperienza psicotica più sconvolgente, più frantumante, consenta a chi ne è colpito un filtro nel modo di vivere quest'esperienza, e nei modi ditrascriverle. All'interno anche di personalità non geniali, e Thomas Mann nell'ultimo romanzo "Il dottor Faustus" l'ha scritto in maniera molto drastica e chiara, l'esperienza psicotica a volte fa sgorgare e lievitare esperienze creative, che scompaiono anch'esse quando la psicosi si spegne. Come si manifestano le espressioni estetiche significative, o comunque anche creative all'interno di un'esperienza psicotica? Certo, alcuni pazienti dipingono, anche se questo non è mio ambito di competenza particolare; alcuni pazienti, soprattutto se ascoltati e sensibilizzati, se vivono in ambienti capace di creare attorno a sé ascolto, dialogo e colloquio, non gelo e freddezza, invece esprimono queste esperienze a volte contraddittorie e incomprensibili, sia in testi poetici sia in testi narrativi, ma soprattutto sanno cogliere, descrivere e realizzare ciò che provano con una capacità e con un linguaggio che a volte sfiora il linguaggio di alcune, seppur marginali, filosofie dell'esistenza. All'interno di questo abisso che è la psicosi cioè, e che noi tutti guardiamo con orrore e con spavento, in questi abissi nei quali abbiamo anche solo paura di guardare dentro, questi specchi che, come diceva Rilke, vorremmo tutti stracciare e distruggere per evitare che ci rimandino immagini deformate che quindi ci travolgono con un'angoscia senza fondo, se abbiamo il coraggio di guardare dentro a questi abissi, se abbiamo pazienza, il patire insieme ovviamente, di ritrascrivere o leggere le cose che i pazienti scrivono o dicono, certo siamo colpiti da una coscienza assoluta della sensibilità, fragilità, ricchezza interiore che nella psicosi continua a vivere. In uno dei testi che ho scritto alcuni anni fa, una paziente, nel contesto della sua esperienza schizofrenica, ha scritto poesie straordinariamente belle; ma non è la sola: un paziente che abbiamo ancora oggi in reparto è capace di dare forma ai suoi sentimenti e alle sue esperienze così diverse dalle nostre, con un timbro e una capacità di definizione formale da lasciare stupefatti. Quindi i testi scritti, che poi vanno certo interpretati e ricollegati anche con quella che è la personalità e la storia della vita dei pazienti; non capiremmo mai "Le figlie del fuoco" di Nerval se non sapessimo l'itinerario, il cammino di angoscia, ma anche di lunghi anni di internamento in ospedale psichiatrico, che Nerval ha subìto. Artaud, a volte non sensari, questo linguaggio ……(?), così ne parla tra l'altro anche S. Paolo, che costituisce una delle più grandi espressioni metafisiche, o comunque espressive di Artaud; le sue opere non sarebbero comprensibili, interpretabili e nemmeno leggibili, se non sapessimo quali angosce e quali sofferenze Artaud ha attraversato. C. Pasi ha scritto un libro per Boringhieri in cui la realtà clinica, e poi anche le straordinarie capacità cinematografiche di Artaud, nelle "Giovanna d'Arco" di Dreyer… il film più sconvolgente, più incredibile tra quelli mai scritti,….Artaud rappresentava la parte del monaco che cercava, seppure sfuggendo contemporaneamente agli sguardi dei giudici che lo avrebbero condotto alla morte, di dare un'interpretazione diversa da quella che davano gli altri alle cose, alle parole che Giovanna d'Arco esprimeva. I testi di Artaud certo senza la sua schizofrenia mai sarebbero stati scritti, i testi di Nerval mai, Schumann nella musica….alcune delle sue melodie più sconvolgenti, più affascinanti, che egli scrive gli venivano riportate, dettate, sovrapposte da queste voci, da queste esperienze allucinatorie che pure rappresentano l'espressione di realtà di questa ultima enigmatica, angosciante esperienza psicotica che è la schizofrenia.

L'interpretazione dei testi letterali abbiamo ascoltato quanto complessa sia, quanto sia poi segnata dalla capacità di immedesimazione di chi legge e commenta, ma ancora più dilemmatica e complessa è l'interpretazione dei testi che nascono all'interno di un'esperienza psicotica, perché si tratta intanto di distinguere quello che è sano da quello che è malato anche nell'esperienza psicotica, apparentemente più chiusa, e sigillata da un non-senso assoluto, per cui si tratta di far uscire le parti narrative o le parti poetiche direttamente generate dalla malattia, da quelle che invece nascono insieme, accanto, seppure subendone il fascino, oppure subendone da eco la risonanza, dalle ,parti che restano ancora malate. Allora interpretare Hölderling, che è la cosa più difficile e vertiginosa, interpretare parte delle ultime liriche composte tra il 1801 e il 1805, che rappresentano l'acme più alto e più sconvolgente della poetica hoderliana, anche questa scaturita da una contestualità molto stretta e assoluta tra gli inizi e poi il divampare della sua esperienza schizofrenica, quando questa si spegne nel 1806 Hölderling cambia profondamente sia lo stato d'animo, la Stimmung della sua espressione lirica, sia profondamente e radicalmente il suo linguaggio. L'interpretazione del linguaggio, dei significati nascosti dentro al linguaggio di Hölderling, sommerso dal grande vento della tempesta della follia, è un'interpretazione che deve muoversi lungo questi abissi, mentre l'interpretazione dei testi che continuano a sgorgare quando l'esperienza psicotica si spegne sono testi infinitamente più poveri; "Le poesie della Torre" (Hölderling ha vissuto quarant'anni rinchiuso in una torre del falegname Singerman, al quale Hölderling doveva la vita)….. per cui la vertiginosa camaleonticità dell'interpretazione a cui questa bellissima domanda mi ha consentito di corrispondere, ecco, la vertiginosa camaleonticità dell'interpretazione…..(?)…. Che qualunque testo letterario o narrativo o …(?)… si fa ancora più complessa, deve seguire questi sentieri che si sovrappongono, che si intrecciano quando i testi nascono non solo da Hölderling, ma anche in alcune pazienti che ho descritto anch'io per la verità, che ha descritto Minkowskij che ha descritto Morselli di Genova, ma il Morselli che ha scritto cose infinitamente più belle e durature di quelle di moltissimi libri di Morselli…si chiamano tra l'altro entrambi Enrico, anche se il famoso Morselli ha imposto al Morselli più debole di aggiungere una "G" al suo nome, perché si sentiva in qualche modo in una situazione di competizione.

In conclusione, se l'ermeneutica legata certo a questa reciprocità che abbiamo ascoltato per chi legge e scrive, l'ermeneutica applicata ai testi a volte anche di grandissimo valore che nascono però all'interno di un'esperienza psicotica, esige intuizione, leggerezza, ma anche capacità di separare quello che è psicotico da quello che non è psicotico, perchè, contrariamente a quanto si crede, la parte sana è anche quella che frena a volte il dilagare dell'esperienza psicotica. Hölderling è, in un certo senso, una controtestimonianza di questo, perché quando la psicosi dilaga assoluta, l'altezza delle sue riflessioni liriche è straordinaria, mentre quando la parte sana è tornata lo slancio creativo del poeta si è chiuso, si è soffocato; uno dei critici che più ha saputo cogliere questo confine tra il dicibile e l'indicibile -in realtà l'area indicibile corre dentro i nostri sguardi e i nostri cuori, in ciascuno di noi, dentro i testi e le interpretazioni dei testi- … Ingebor, che ha scritto un libro molto bello, in cui il dicibile e l'indicibile di Musil, S. Weil, questa figura straordinaria, oppure ancora in Proust, …ecco, dicibile e indicibile nella critica letteraria di Maurice Berenshaw(?) raggiungono forse i confini più alti e meravigliosi. La ringrazio molto. PROF.SSA LEVORATO: Io ritengo che oggi abbiamo ascoltato due grandi lezioni di metodo per la Psicologia e la Psichiatria, cioè l'approccio all'interpretazione come metodo che dà accesso ai significati più profondi. In questo approccio si dà grande potere a colui\colei che interpreta, e ciò pone il problema dell'uso dell'interpretazione, dei vincoli dell'interpretazione: ciò accade perché i significati ricercati attraverso l'interpretazione sono nascosti, non sono trasparenti. In certi casi il problema non ha grosse conseguenze sul piano epistemologico (vorrei dare una risposta alla studentessa che poneva il problema dell'interpretazione dei testi narrativi); ogni testo narrativo non è un testo, ma sono tanti testi quanti sono i lettori, e non è richiesta un'univocità d'interpretazione; nella lettura di un testo narrativo ognuno può permettersi il lusso di interpretarlo come vuole, e non solo, lo stesso lettore in momenti diversi può scoprire che la propria interpretazione è diversa… sono due soggettività che si confrontano, quella dell'autore e quella del lettore. Non ho la competenza invece per entrare nel merito dell'interpretazione in sedi diverse da quella di un uso privato della letteratura, com'è appunto la sede della Psichiatria. Vorrei fare però una domanda al Prof. Borgna, per capire se ho interpretato correttamente questo aspetto della sua comunicazione: io ho percepito una sorta di contrapposizione tra comunicazione linguistica e gestuale, e comportamento manifesto; ho avuto la sensazione, ma può darsi che, appunto, siccome sono un'interpretante non competente, sia un caso di interpretazione deformante…ad un certo punto Lei ha detto che la comunicazione va oltre il comportamento: se noi osserviamo una persona, il comportamento ci offre l'apparire, mentre la comunicazione ci dà accesso all'essere, ed è lì che sono i significati. E' come se fosse proprio nell'atto di comunicazione, nell'atto in cui si entra nella relazione, in quella situazione interazionale, che si creano i significati…sono molto intimidita dal suo sguardo…

PROF. BORGNA: Il mio sguardo è uno sguardo di consenso, di adesione piena, è uno sguardo partecipe… Cioè, il linguaggio del corpo e il linguaggio della parola sono due strumenti conoscitivi essenziali, a volte si sovrappongono e a volte invece si allontanano e si dissociano. Ha colto fino in fondo, con grande scandagliante capacità di cogliere l'invisibile, il problema. Ma facciamo il caso di una persona che ha un comportamento che si fa improvvisamente alienato, eccitato e aggressivo, il comportamento di una persona che una certa psichiatria che classifica, che non cerca di cogliere cosa si nasconde dietro ai comportamenti, designa come comportamento maniacale (…la parola è orribile, però purtroppo è il termine di cui ci si serve abitualmente sia in Psichiatria sia in Psicologia); oppure il comportamento opposto di una persona che è vivace, attenta, creativa, ed improvvisamente precipita in un comportamento esteriore, del proprio corpo, in una condizione di assorta, dolorosa e straziante solitudine, che precipita in un silenzio del corpo: ciò rientra apparentemente nel contesto di quella forma clinica, antitetica rispetto alla forma maniacale, che è la forma depressiva. In realtà poi, attraverso misteriose connessioni, risonanze e controrisonanze, coloro che vivono esperienze depressive anche profonde sono a volte le stesse persone che poi in periodi diversi hanno vissuto le stesse esperienze di gioia panica (?) sconfinante. In ogni caso, come le possibilità di interpretare i comportamenti, i vissuti, e cioè i significati che si nascondono nei comportamenti, sono diversi, sono in particolare due. C'è la modalità interpretativa della Psichiatria ottocentesca, che però sopravvive ancora oggi in Italia e in America, ed è una psichiatria che giudica, esprime, fa diagnosi, e che interpreta i modi di comportarsi di queste persone considerandole come portatrici di comportamenti sempre senza alcun senso, alcuna intenzionalità (il concetto di intenzionalità Maria Armezzani l'avrà spiegato tante volte, per cui lasciamo stare). Se io considerassi, guardassi e osservassi i pazienti con lo sguardo freddo e rigido di un anatomo patologo o di un entomologo, se amassi le farfalle, non coglierei nulla di queste persone, se non due comportamenti, l'uno eccitato, aggressivo, distruttivo, e l'altro chiuso, silenzioso, opaco, apparentemente indifferente. Se riesco a stabilire con ciascuna di queste due persone quella relazione, quella reciprocità asimmetrica che dovrebbe tendere, seppure attraverso una lontananza irraggiungibile, ad essere simmetrica, allora io, dentro questo corpo che apparentemente distrugge e colpisce, colgo una disperata richiesta di aiuto, colgo dei significati che testimoniano certo in questa bruciante incontenibilità del corpo l'assenza di limiti e confini, ma anche una disperata ricerca di aiuto, una disperata richiesta di non guardare al proprio comportamento, e di cogliere invece che cosa ci sta dentro…che cosa ci sta dentro…dentro chi ha comportamenti così aggressivi si nasconde anche una diversa modalità di vivere il proprio tempo e il proprio spazio. Lo spazio e tempo dell'orologio, il tempo passa implacabile, la clessidra, gli spazi geometrici…lo spazio invece vissuto…una stanza stretta può essere per me amplissima oppure trascinare con sé un'esperienza opposta; il tempo di una persona che si annoia, il tempo di una persona che vive un'esperienza depressiva è un'esperienza del tempo totalmente diversa da quella che ha una persona che vive un'espansione maniacale, perché quando siamo tristi e depressi, aldilà del fatto che c'è una depressione clinica ma anche l'infinita serie di depressioni "leopardiane" (che guai se non vivessimo almeno in determinate ore della nostra vita), l'esperienza del tempo interiore cambia. Il paziente che urla, si agita, grida, vive il proprio tempo come frantumato e disgregato, che non ha più le nostre abituali scansioni, quelle che noi abbiamo in questo momento: il presente, quello che io dico che diventa istantaneamente passato, e che si riaggancia, attraverso processi che Husserl -e quindi Maria Armezzani- ci ha dato, col futuro. Quindi un tempo puntiforme, che non ha più alcuna storia, che non ha più alcuna connessione tra un prima e un dopo. Il comportamento esteriore è così l'espressione di una dislocazione, di una frantumazione del tempo interiore; se io non colgo questi significati, tengo un paziente che smania in un reparto, in una stanza chiusa: egli rivive così una condizione di prigionia assoluta, e la sua aggressività e disperazione si fanno senza fine; se però colgo in questa voragine di apparente violenza il desiderio, a cui i pazienti non possono rinunciare, di spazi aperti, e apro le porte dell'ospedale psichiatrico, oppure del reparto di psichiatria in cui i pazienti vivono, questa non è drammaturgica rielaborazione dei fatti, ma soltanto un'analisi clinica, che, partendo dai comportamenti esteriori e cercando di cogliere invece quelli che sono i vissuti, ci permette di capire che quel comportamento necessita, per essere frenato, trasformato, rifunzionalizzato, di spazi aperti, di giardini che i pazienti, insieme agli altri pazienti, possano raggiungere. Il paziente depresso in qualche modo riproduce, sia pure attraverso modalità opposte, questa frattura, questa dissociazione tra un corpo che a volte sembra senza vita, e una vita interiore invece, seppur logorata e segnata dal tempo interiore. Queste sono cose che ci dicono i pazienti, non sono mie invenzioni o ricostruzioni; sono dei testi, perché ogni esperienza vissuta, nel momento in cui noi la descriviamo e la esponiamo, si trasforma in un testo. Bene, allora il tempo interiore di ogni paziente depresso, il tempo interiore leopardiano cioè di chiunque di noi, quando sia solo sfiorato dalle penombre che abbiamo attraversato -come diceva Proust, è un tempo che si rallenta, è un tempo dal quale il futuro scompare, dal quale invece rinascono queste vele gigantesche del passato che non consentono al paziente di rivivere il tempo nella sua funzione e nei suoi aspetti interiori, ma anche nell'essere il tempo, come Bergson ha dimostrato, il fondamento di ogni slancio vitale. Se non teniamo presente questa modificazione profonda del tempo vissuto che c'è in ogni paziente depresso, non capiamo e interpretiamo nulla, non sappiamo fare una qualunque elementare ermeneutica di cosa sta realmente avvenendo. Quindi, dal corpo bloccato, che sembra segnato da un'indifferenza assoluta, dobbiamo compiere questo passo continuo, che ci consenta di scendere dentro la sua vita interiore, e allora cogliamo questo tempo che si ferma, questa assoluta inutilità di richiamare il paziente ad un futuro che non sente, e che rivive (questo è un errore tecnico che molti fanno) ogni invito a sperare che gli venga proposto come segno di un'incapacità a cogliere i limiti, i confini, le angosce della sofferenza in cui vive. Quest'ermeneutica, quest'interpretazione continua dei modi di essere nel corpo dei pazienti, che sono sempre modi e modelli di espressione subalterni e secondari invece alla vita interna, è una conseguenza certo indiretta, ma comunque non mi sembra illegittima, dal tema e dal circolo tematico, dell'interpretazione, dell'ermeneutica.

Il corpo, quest'ultimo accenno (anche se Maria Armezzani ha scritto cose bellissime su questo argomento), la mia mano, la loro mano, il loro corpo, si trasforma continuamente a seconda che sia lo sguardo del chirurgo oppure dell'anatomo-patologo ad osservarlo, perché allora è un corpo-oggetto, come una cosa, ed è il corpo che i tedeschi chiamano Korper; quando parliamo di corpo-che-vive invece, questa stessa loro mano (anche le pagine che Merleau Ponty ha scritto nella "Fenomenologia della percezione" sono straordinarie) improvvisamente si trasforma in un gesto di comunicazione, in un colloquio che brucia ogni sua scorta cosale, ogni sua scorta oggettivale, per trasformarsi invece in comunicazione e dialogo.

PROF.SSA ARMEZZANI: Volevo far notare che le ultime cose che ha detto il Prof. Borgna s'incontrano, come dicevo all'inizio, con quello che il Prof. Galli…"Ti ricordi quel passo di Leonardo che citi in un paio di libri tuoi -rivolgendosi al Prof. Galli-, dove c'è quello sguardo oggettivo del medico e poi l'attenzione per la vita del morente… quindi è una traduzione letteraria quella che tu riprendi delle parole che ora il Prof. Borgna ha detto sui due modi per intendere la corporeità". Io vorrei solo brevemente sottolineare un aspetto di queste due relazioni che riguarda la metodologia: qualche volta chi fa ermeneutica, chi usa l'interpretazione e comunque i fenomenologi in genere vengono accusati di non avere attinenza con la realtà, di non usare un metodo rigoroso, e lo vedo dalla paura con cui alcuni studenti attirati dalla Fenomenologia poi non sanno come fare la tesi, perché non ci sono tabelle, hanno paura di presentarsi senza tabelle. A me sembra che quello che è stato detto oggi dia alla Fenomenologia la capacità di essere applicata, la concretezza; Lei -riferendosi al Prof. Borgna- ha scritto un articolo anni fa intitolato "Fenomenologia applicata", ed è stato un articolo per me molto importante, perché si vedeva benissimo la concretezza ed il rigore di questo modo di procedere. Una cosa che emerge bene oggi, e che spesso sfugge via nelle presentazioni dei manuali di questo orientamento, è che -approfitto del discorso sulla contrapposizione tra comportamento e vissuto, tra cosa ed Erlebniss- il metodo nella Fenomenologia e nell'Ermeneutica è già nell'accettazione dell'Erlebniss come oggetto di studio, e non nel comportamento, nel dato osservabile, nella cosa. Il metodo comincia lì; quindi questo aspetto viene spesso trascurato, e si pensa che il metodo cominci dopo: "va bene, considerando il vissuto, allora, come analizzarlo?" E si pensa che quest'analisi che consegue alla scelta dell'oggetto debba ricalcare gli stessi modi dell'analisi del comportamento, della cosa. E' ovvio che, e oggi è apparso molto bene, questo non è possibile; (per coloro che criticano la Fenomenologia) sarebbe insensato e poco rigoroso quindi il metodo; l'aspetto rigoroso e metodico comincia invece già nel rifiutare la cosa, il comportamento come oggetto di studio della Psicologia; già mettere in primo piano il vissuto nei nostri studi, invece che solo il comportamento, è già metodo, ed è ovvio che i procedimenti successivi non possono che tener conto di questa scelta ed essere rigorosamente coerenti con essa. Quando il Professore parla dell'intuizione e dice che è meno "placida" dei metodi oggettivi, dei modellini che si ripetono e si riusano mille volte in diversi settori, spesso indifferenti al tema d'indagine, conta solo che siano usati bene e secondo le regole… questo no, non possiamo farlo, ma l'intuizione certo è confusa spesso - rassicurante, e peraltro non credo che ognuno veda cose radicalmente diverse… c'è anche un mondo comune e significati profondi che possiamo condividere e sui quali siamo di solito d'accordo proprio attraverso questo metodo, sui quali quindi si può iniziare una comunicazione. Volevo sottolineare delle relazioni dei Professori questo aspetto metodico, che certo non corrisponde all'idea e al concetto di metodo che viene di solito diffuso… ma metodo non vuol dire necessariamente modellino, bensì scelta radicale, coerenza nei passi successivi con questa scelta, e questo oggi è emerso con una certa tendenza.

DOTT.SSA FAILLI: Io vorrei… non so se è possibile essere ancora più radicale di questo, ma vorrei esserlo. Quando io sento la parola metodo, ho in mente una serie di questioni, e ho anche in mente come sono uscite dalla lettura delle pagine di Heiddeger e di Gadamer, che parlano solo del metodo; in realtà io sono uscita da queste letture con l'idea che non c'è metodo e non può esserci. Non so se è diversa la cosa che sta dicendo Lei da quella che dico io, ma quello dell'ermeneutica non è e non potrà essere mai un metodo, perché quella dell'ermeneutica è la struttura stessa dentro la quale siamo. Quindi noi non possiamo fare il metodo della struttura nella quale siamo dentro, e quindi paradossalmente l'unico metodo adottabile è quello della rinuncia a questo metodo. Non a caso credo che Heidegger e Gadamer, almeno per come io li ho interpretati, realizzino l'uscita della loro riflessione nell'etica più che nella metodica. Il problema è rivolgere lo sguardo sulle cose in maniera assolutamente problematica, fino ad arrivare a radicalizzare fino in fondo la dimensione dell'essere storico. La ragazza prima diceva: "Quando io leggo un libro, lo leggo oggi in un modo e domani in un altro, ma qual è la vera lettura?" La vera lettura è la struttura ermeneutica purtroppo, nel senso che Galli ad esempio poco fa citava il testo sacro, il testo sacro che la Chiesa ha utilizzato in una maniera splendida per dire tutta la paradossalità che c'è dentro "E' parola di dio in forma umana": questa frase ha senso solo nell'interpretazione; ciò non significa che non ha qualcosa dentro, ma che questo qualcosa non è già dato: è qualcosa che tu costruisci nell'atto di rapportarti al testo. Probabilmente anche nell'ambito del discorso sulla lettura del testo letterario o altro, non è la lettura che colloca il testo nella sua epoca e nel suo luogo in ciò che l'autore vuol dire. (?) C'è un bel libro che hanno scritto alcuni ex allievi di Vattimo intitolato "Ciò che l'autore non sa" ove paradossalmente si afferma che il linguaggio in quanto tale, come "parola poetica" -come direbbe Heidegger, è il linguaggio che porta con sé una riserva di senso che si tratta di scoprire, che non c'è già nell'atto della struttura, che non c'è già tutta, oppure c'è già tutta nella misura in cui accetta che…. (?) Non so se questo possa trovare aderenza con le parole di Borgna, perché a me aveva per altre cose fatto sollevare altre questioni: quand'è che si esce dal soliloquio per entrare nel colloquio? E' da ieri che ci penso, perché mi verrebbe da pensare che in questa chiave non c'è soliloquio, non è pensabile, perché il linguaggio porta con sé necessariamente una struttura, che è anche ulteriorità ed anche necessariamente comunicazione; quindi mi verrebbe da pensare che anche lo psicotico, che sembra così chiuso nel soliloquio, non è così ingabbiato nella sua meccanica nella misura in cui effettivamente sta usando un linguaggio. Probabilmente sto delirando io, perché, non avendo esperienza in quel campo, non sono in grado di dire se questa cosa abbia senso.

PROF.SSA ARMEZZANI: Ho apprezzato quanto hai detto, ma siccome sono husserliana, come tante volte è già stato detto, credo con Husserl che si possa fare una scienza del soggettivo, un'altra scienza in tutt'altro modo; con altri termini, ma è scienza, è un'altra proposta di scientificità, il resto è poesia, ed è meglio la poesia della scienza…ma qui siamo in una facoltà universitaria, e mi proponevo di mostrare che si può fare scienza in un altro modo, almeno Husserl l'ha proposto e altri continuano a proporlo. …poi che la poesia sia meglio della scienza sono d'accordo… Heidegger l'aveva detto, però io preferisco il maestro all'allievo.

DOTT.SSA FAILLI: Certo, però io ho una lettura e Lei un'altra, e io purtroppo non ho l'altra perché la mia lettura di Husserl è scolastica, non è diretta. Quello che però viene da chiedere leggendo Heidegger è se non sia possibile avere a che fare con la verità, e quindi con la possibilità di cogliere del vero effettivamente, senza dover chiamare questo "scienza" nel senso a cui la (comunità scientifica -?-) ci ha abituato . PROF.SSA ARMEZZANI: Questa è una proposta, certo . PROF.BORGNA: Quando Heidegger distingue tra le scienze naturali, che sono scienze esatte, e le scienze umane, che sono rigorose, non si avvicina in parte a superare le antinomie che Lei sottolineava?

DOTT.SSA FAILLI: Sì, è il discorso del rigore, ma questo rigore si può codificare in qualcosa che è metodo nel senso di tecnica padroneggiabile?

PROF. SSA ARMEZZANI: No, tecnica no.

PROF.BORGNA: Tecnica no perché Heidegger ha combattuto la tecnica con parole roventi, ma metodo, meta-odops, il sentiero del cammino della conoscenza, mi sembra che Heidegger abbia cercato di indicarlo e tematizzarlo, soprattutto nelle opere successive a "Essere e tempo". Non è così? L'incognita resta. A proposito della psicosi, sì, senza dubbio anche nelle forme in cui il soliloquio sembra assoluto, grazie a quello che ha detto, cioè nelle forme autistiche, un certo colloquio si apre se il paziente sente che intorno a sé c'è ascolto. Complimenti, è stata molto brava.

A. CORDIOLI: A me interessava molto il discorso che aveva iniziato su "se il paziente psicotico sia in contatto con il resto del mondo"; mi interessa perché io credo che lo sia… e non sono la sola qui dentro. Lavoriamo presso l'ospedale dei Colli qui a Padova, e incontriamo un genere di persone che qui oggi non è stato citato, quelli chiamati cronici. Il loro più grande problema è, secondo me, che nessuno più ascolta il "romanzo della loro vita"; Lei (prof. Galli) prima citava una frase di Gregorio Magno in Latino;c'è un'altra frase in latino che io ricordo in Italiano come: "Finito il libro continua la lettura". Credo che anche finito un incontro continui il dialogo, e ho la sensazione che con queste persone, che noiosamente vengono definite croniche, il dialogo venga sospeso perché non è più interessante. Non parlo di chi si avvicina a loro con interesse e simpatia, parlo sicuramente di coloro che per poterli chiamare cronici hanno guardato solo i loro gesti. Purtroppo ho la sensazione che il giudizio di cronicità sia l'ennesima mannaia, del tipo "non rimango nemmeno più in relazione con te, dunque ti condanno definitivamente, dunque ti condanno a non essere più letto"; giustamente adesso il Prof. Borgna diceva: "…se c'è qualcuno che li ascolta…"…l'interpretazione c'è anche quando c'è qualcuno che legge, e molto spesso ci sono storie che non vengono più lette. APPLAUSI!!!

PROF. BORGNA: E' una domanda splendida. Concordo fino in fondo…E di quale cronicità parla Lei? Una cronicità legata ad un'esperienza psicotica?

A. CORDIOLI: Sì, lavoriamo nell'ex manicomio di Padova, e c'è qualsiasi tipo di esperienza lì dentro, anche quelle che possono essere nate da minorazioni. L'ospedale psichiatrico come era una volta, e il Prof. Ferlini lo sa perché ci ha lavorato, non è vero che riceveva, ma raccattava, e oggi ci troviamo di fronte a cose terribili, come ad esempio delle strutture che vengono chiamate R.S.A. (residenze sanitarie assistite), forse Lei le conosce, nelle quali vengono "parcheggiate" delle persone per le quali non esiste più alcun progetto; molti di loro hanno avuto dei problemi di tipo neurologico molto grave, molti di loro hanno avuto invece dei dolori di tipo psicotico-schizofrenico, però per loro ormai non c'è più niente, e vengono parcheggiati come se fossero carne, la mano ed il Korper di cui Lei parlava prima. Questo è il posto in cui andiamo a stare, è un grido.

PROF. BORGNA: Ancora più intensa questa testimonianza! Secondo alcuni psichiatri, ben dotati anche di una capacità di contatto umano straordinaria come Bleuler, siamo noi a determinare la cronicità negli altri, noi psichiatri e medici che abbiamo fatto perdere la speranza ai pazienti avendo noi perso la speranza che le cose possano cambiare. Che questa sia una tesi scientificamente problematica come ogni tesi, certo…però se, come diceva Pascal, "il valore della tesi si ….(?) sugli effetti che ogni teoria provoca", certo le teorie dell'irreversibilità del disturbo e quella della disperazione hanno portato ai manicomi e a queste cronicizzazioni evitabili. Non so se ogni cronicità sia evitabile… come ha scritto ancora Bleuler, "molta parte della cronicità che noi osserviamo si sarebbe potuta evitare". Credo solo gesti e presenze come le vostre, dal linguaggio altissimamente emozionale con cui ha espresso cose bellissime, restano una speranza, e la Psichiatria e la Psicologia senza questa speranza sono scienze non umane, ma morte!

A. CORDIOLI: Vorrei aggiungere una cosa: in questa facoltà è stato detto in più di una lezione che è pazzesco pensare che esista una Psicologia nella psicopatologia.Il che sarebbe come dire che ad un certo punto, in una sofferenza definita cronica, dovrebbe venire a mancare anche la mente! Addirittura a noi è stato detto che la Psichiatria c'è fin quando c'è la mente, e, laddove la mente non c'è più, la Psichiatria non va più .Questa frase era riferita ai pazienti dei residui manicomiali. Peccato che io con queste persone ci parlo. Questi sono alcuni dei concetti che vengono veicolati in facoltà, e credo non si possano lasciar passare indisturbati… è come dire che se una persona si ammala allora non le parli più.

PROF. BORGNA: Queste sono comunque tesi scientificamente inaccettabili, da qualunque parte giungano. Basta leggere i libri di Bleuler, di Minkowskij per capire ciò.

PROF.SSA ARMEZZANI: Ma chi afferma queste cose non li ha letti.

PROF. BORGNA: Inviterei tutti, anche noi qua, a rileggere o a leggere i libri di Minkowskij, scritti in un Francese molto limpido, per rendersi conto di come le cose stiano come Lei dice e non come gli altri dicono. Grazie comunque, perché è stata una testimonianza intensissima e scovolgente la sua.

PROF. FERLINI: Devono leggere Skinner, devono leggere …..(?) un po', no? E' qui il problema!! N.P.: Non demonizziamo una psicologia che non esiste più; se qualcuno ha letto Skinner, Piaget qui lo dica……..(?)..non ha letto Skinner, Piaget ecc.

PROF.SSA ARMEZZANI: Anche questo però…non è consolante che non abbiano letto niente.

PROF. FERLINI: Questa è la cronicizzazione dei docenti… quando prima si parlava di cronicizzazione, io ho sempre pensato che si cronicizzino gli operatori, cioè l'operatore perde la speranza e si cronicizza. Tanto è vero che tutto il problema è il discorso dello scambio di opinioni dell'equipe, della ripresa, perché questi pazienti, come diceva Racamier, hanno una forma di transfert inanitario, ti fanno sentire inutile e stupido; prima che un paziente si fidi ci vuole tanto tempo…ma pensavo si potrebbe cominciare sì a leggere Minkowskij, per esempio "La schizofrenia", che è stato recentemente ripubblicato da Einaudi. Pensavo che ho fiducia negli studenti, penso che studino gli studenti, e penso che se uno studente non studia la colpa è solo nostra. Quindi non è una demonizzazione della Psicologia, ma una demonizzazione degli studenti; in una sede molto lontana da qui, in Australia, si discuteva sul fatto che calano gli studenti di Psicologia a Padova, bisogna motivare gli studenti, ma io credo che bisogna motivare anche i docenti…ma io sono pazzo e mi onoro di essere pazzo e voglio restare pazzo. Grazie!

APPLAUSI!!!

ARMEZZANI: Scusate ma è troppo intenso, dobbiamo smettere, basta così perché oggi dobbiamo rilassarci, dopo abbiamo lezione. E' stato troppo intenso….

(sbobinatura a cura del gruppo "Lapsusblu")