Padova,
16-02- 2001
 Prossimo brano indice conferenza Grandi Voci


 
Prof. BRUNO CALLIERI


PSICOPATOLOGIA CLINICA E ANTROPOLOGIA"


Parte 1°


Prof. Armezzani:
Oggi, con un movimento tutto fenomenologico, torniamo alle origini; il Prof. Callieri è il maestro di Di Petta, ma anche di tutti noi che ci riconosciamo nella Fenomenologia: uno dei pochissimi maestri a cui facciamo riferimento.
Io posso soltanto ringraziarlo, a nome di tutti voi, del fatto che non solo ha accettato, ma ha accettato con entusiasmo, questo invito; non ho altro da dire, se non il fatto che dobbiamo renderci conto della fortuna che abbiamo di ascoltare una lezione come questa, in cui, in modo assolutamente inconsueto, si legano insieme in unità sia la enorme esperienza clinica, sia la riflessione profonda sull'esistenza, sia anche la dottrina; è un'occasione rara e di questo gli siamo grati, quindi passo subito la parola a lui, anche per lasciare tempo poi ai vostri interventi.

Prof. Callieri:
Salve! Sono contento di stare qui con voi: mi hanno adeguatamente preparato psicologicamente non solo le parole che avete sentito adesso, ma un bell'incontro che abbiamo fatto ieri sera in una pizzeria e che mi ha dato modo di tastare il polso, come dicevano gli antichi medici, alla sifilide, tastare il polso a quello che è regolare e interno e che minaccia sempre ognuno di noi; ora, prima di iniziare la mia impostazione, che vorrebbe ricollegarsi a quella di Gilberto Di Petta- che oso considerare ancora il mio migliore amico, non dico più allievo- ,vorrei leggervi un punto di questo mirabile libro di Maria Armezzani, “L'enigma dell'ovvio” che penso tutti abbiate letto, straletto e meditato, perché rappresenta la prova che in Italia finalmente c'è qualcheduno che ha letto direttamente Husserl e non l'ha riportato soltanto; ci sono in questo libro due o tre o quattro cose di grande rilievo: una è data dagli accenni che ci sono all'Epochè, perché senza l'Epochè, non si può fare Incontro Fenomenologico, che significa incontrare l'Altro senza i pre-giudizi, i pre-supposti, che possono essere medici, psicologici, quello che volete, l'Altro come Autre que moi, un Alter Ego; l'altro punto che Maria Armezzani (questo libro è del 1998) ha, direi con perspicacia notevole, individuato, prima del suo grosso sviluppo attuale, è il problema della reciprocità: a pagina 179 viene ben chiarito come è opposto alla asimmetria dell'atteggiamento scientifico tradizionale. Sul problema della reciprocità io mi sono molto fondato negli ultimi tempi e penso che verso la fine di questo nostro incontro, prima di iniziare lo scambio di vedute su quanto io espongo, vorrò intrattenervi brevemente, perché, pur essendo oramai verso la fine della mia vita, mi immagino, auspico che nei giovani che hanno preso questo tipo di impostazione coraggiosa e reale sia poi il (pubblum, pabblum…?) adatto per il fiorire reale di un'autentica psicopatologia, questo della reciprocità. Ne abbiamo discusso ovviamente di questo anche con Gilberto.
Di Petta mi aveva scritto tempo addietro una lettera aperta, per amicizia, ma anche per fare tutta una serie di contestazioni, di considerazioni per noi psicopatologi ispirati alla Fenomenologia, che diciamo tante belle cose, ma poi in pratica la barca della Psichiatria è una barca che ci trascura profondamente, ci considera una scialuppetta di fronte ad un transatlantico; e questo è vero, ed è vero perché è difficile contrastare il potere delle società farmaceutiche che sostengono coloro che pensano solo col riduttivismo biologico. “Povera e nuda vai Filosofia!” avrebbe detto Petrarca(????)…
A questa lettera di Gilberto Di Petta segue dopo qualche mese una lettera a me di Maria Armezzani: ne leggo solo, se mi consenti, una parte: “Caro Professor Callieri, ho letto la lettera aperta di Gilberto Di Petta…- poi come ci sia arrivata a leggerla non lo so!!!!!… Non si sa…
Armezzani: E' un mistero fenomenologico!

Callieri: … bellissima, profonda, poetica. Ho provato commozine, ma anche perplessità, così ho deciso di scriverLe anch'io. -…Lasciamo perdere certe cose…- Per questo, pur condividendo con la mia esperienza vissuta l'appassionata analisi di quella lettera, non sono affatto d'accordo –e qui anche Gilberto non è più d'accordo- quando parla di fallimento. Tanto tempo fa - questo è importante-, quando ero giovane, Lei mi disse: “Noi fenomenologi dobbiamo lavorare zitti zitti”; non so quale fosse per Lei il senso di quella frase, ma io l'ho ricordata spesso, e la intendo così (ecco il suo pensiero autentico detto a me): scegliere la Fenomenologia vuol dire essere fatti in un certo modo che ti costringe a pensare.( …Bello… perché si pensa in silenzio… ) Ma di lavoro si tratta, e di un lavoro oggi così poco richiesto che rischia l'estinzione. Concretamente, io stessa (ne parlavamo due minuti fa), che vi ho continuato a lavorare, solo perché credevo che quelle ore passate sui libri potessero servire a cambiare il gesto di uno dei miei studenti, che avrebbero avvicinato più tardi uno Psicotico o un Tossicodipendente.- Come non congratularmi(vi?) con voi che avete questo tipo di Maestra!- E continuo a lavorare perché so che qualcosa di simile è avvenuto. (Questo lo leggo ancora…) La Fenomenologia è una rivoluzione che non può compiersi una volta per tutte, ma deve essere mantenuta come scandalo e come sfida alla soddisfazione ottusa degli “esperti della psiche”; certo che ad essi non va venduta, ma per mantenersi ha bisogno di pensiero e di comunicazione.” (Gli interventi che Callieri ha fatto mentre leggeva la lettera della Armezzani li ho messi tra le lineette o tra parentesi)
Ci sono tante altre belle cose, ma non posso soltanto costruire la mia relazione sulle lodi a Maria Armezzani; c'è comunque una cosa , quando ringrazia me, che ho indirizzato Gilberto Di Petta, come lui stesso riconosce, a percorrere la sua difficilissima e coraggiosa strada, ad interessarsi in modo profondo ed autentico dell'Alterità: “Mi rendo conto che il peso che Gilberto ha scelto di portare è titanico, ma non solo quello in cui lui conduce la sua battaglia nel territorio; nella totalità del campo che lo contiene, qualcuno deve continuare a scavare in profondità.” E così via. Più o meno si conclude questa bellissima lettera.
Io adesso spero di potere ripubblicare queste cose e rispondere con una letterina breve tanto a Gilberto che a Maria.

Premesso questo, e lo dovevo premettere, devo fare un'altra piccola premessa: quando un paio di anni fa Maria Armezzani mi ha rivolto sette domande sulla Fenomenologia, e io le ho dato sette brevissime risposte, alla domanda seconda: ”E' possibile insegnare l'approccio Fenomenologico? Come potrebbe essere strutturata un'eventuale scuola di formazione in Fenomenologia?”…vedete che domande precise… Io ho creduto di rispondere, e sono molto contento –è autentico questo mio sono molto contento- di dirlo qui: la baideia fenomenologica, per me psichiatra clinico, si fa nel diuturno contatto col paziente. Per me la Fenomenologia non è una teoria, bensì una prassi dialogica, è la prassi del dialogare.- Il logos dialogico avrebbe detto Kipling, anzi è un vero e proprio logos dialogico- Una scuola di formazione fenomenologica: dove può esserci? Può essere presente dovunque, persino nei “laboratori di Psicologia”. Anche in queste psicologie senz'anima, avrebbero detto alcuni, è possibile fare Fenomenologia; Ferdinando Barison è stato per me un vero maestro di Fenomenologia. Questo l'ho voluto dire, perché ho l'occasione di parlare con voi in una città in cui ho avuto nel lontano passato affettuosi legami con il maestro Barison. Questo lo volevo proprio dire adesso.

Passiamo a quello che vorrei oggi proporvi: immagino, dopo aver letto le belle pagine che Gilberto Di Petta vi ha comunicato sul Crepuscolo, sulla Crepuscolarità, sull'inquadramento quindi della coscienza in un senso molto acuto - che può prescindere dai livelli, nel senso di Henry Ey e dell'organo-dinamismo, ma che sul piani clinico è impregnata di queste necessità di cogliere queste differenze di livelli -, vorrei continuare a discorrere in un senso che non ho avuto la fortuna di sentire, ma che immagino, anche perché ho letto qualcosa di Di Petta. Direi che quando noi parliamo di coscienza dobbiamo parlare di Soggetto Personale, di Io Personale concreto, tenendo sempre presenti tre elementi - accanto alla ricchezza che ci apporta l'approccio alle coscienze crepuscolari, sia in alto che in basso, dall'estasi alla pre-demenza-. Questi elementi, sui quali vorrei richiamare la vostra attenzione, sono:
l'esperienza della Persona si dà come irripetibile singolarità
: se tu non hai questo concetto di persona come di un essere singolare radicalmente, l'unico tra i sei miliardi che noi siamo, tu parti con il piede sbagliato in Fenomenologia, perché parti col piede che tende ad inquadrare. Quindi l'esperienza della singolarità, che subito, ed entriamo in media res teoretica, contrasta col pensiero aristotelico: non si dà scienza del singolo. In un certo senso non si dà scienza del singolo; su questo però, rinnovando quello che da duemilacinquecento anni c'è sempre stato, l'approccio del vecchio Platone, possiamo invece dissentire: se non vogliamo parlare di scienza non c'è bisogno, ma il rapporto col Singolo, nei dialoghi platonici, c'è. Di nuovo quindi, voi vedete, ci troviamo tra questi due colossi non del pensiero, direi dell'Essere Uomo.
Il secondo elemento da considerare è l'esperienza della Persona come rinvio ad un nucleo costitutivo che sempre trascende le sue espressioni: un nucleo costitutivo, nostro, di ognuno di noi, che però è un nucleo che sempre trascende il nostro modo di esprimerci; cioè, noi siamo anche in questo, che in questo momento stiamo dicendo, stiamo impastando nel nostro pensiero, nel nostro muoverci… stiamo qui, ma c'è un qualche cosa dentro, a cui dobbiamo sempre rinviarci, questo strano nucleo costitutivo; è questo che, in Italia, un filosofo che quasi sicuramente avrete sentito nominare - e che è stato secondo me grande, ma adesso un po' ignoratello perché l'ignoranza predomina -, Armando Carlini - il filosofo di Pisa, tanto nominato e stimato anche da Giovanni Gentile - chiamava la costituzione trascendentale, o meglio l' esistenzializzazione del trascendentale. Il nucleo costitutivo è però, proprio per la singolarità che dicevo, un nucleo esistenziale: voglio dire, non che io tremi di fronte alla parola metafisica –che anzi ritengo sia molto da prendere sul serio e non da eliminare come se fosse una carta da scarpe-, però non è questo: la esistenzializzazione del trascendentale è ciò che regola, stabilisce, giustifica, propone la singolarità irripetibile. Dietro tutto ciò, voi lo immaginate, c'è il pensiero ,che non riesco ad immaginare come sorridente, di Kierkegard quando parla della Singolarità.
Il terzo punto è il darsi dell'esperienza conoscitiva come personalizzazione.

Quindi, come voi vedete cari amici, all'inizio di ogni nostro discorso - e questo vale sia per coloro che fanno, come penso voi vogliate fare, la professione di psicologi, di psicoterapeuti, di psichiatri, comunque di operatori della psiche, ma vale anche per tanti altri, in primis per gli artisti – è la descrizione eidetica della coscienza personale. Cioè, come ieri Gilberto credo vi abbia dato alcuni squarci molto vissuti del suo modo di approcciare le crepuscolarità, le Dammerungen, così noi dobbiamo oggi, subito dopo, riportarci anche ad un atteggiamento meno patico - perché il crepuscolo invoca il patico - e quasi direi più razionale, anche se qui Husserl avrebbe non accettato in pieno (poi sentiamo il pensiero di Maria Armezzani su questo); cioè, la coscienza personale del singolo – e coscienza non solo ovviamente come esser sveglio, come vigilanza, ma come consapevolezza psico-critica – è passibile, peso le parole, di descrizione eidetica (eidos). Quindi la descrizione eidetica individua le strutture formali della coscienza come strutture di contenuti del vissuto: la coscienza non è una struttura formale vuota che poi si riempie, il famoso So-Sein-Destemas di Schneider, bensì struttura di contenuti del vissuto, quindi essa è pregna di Erlebnis, cioè di contenuti. La coscienza è da intendersi quindi come consapevolezza di questi contenuti, come centro di libera soggettività. Anche qui ogni parola va analizzata e discussa; c'è anche un po' di temerarietà da parte mia nel proporvela quasi come uno degli elementi dell'eidos… sì, uno le studia queste cose, ma poi non è detto che tutti debbano condividere; basterebbe leggere quel grosso tomo che è “La Psicologia” di Husserl per rendersi conto che è possibile dire anche qualcosa di diverso. Comunque, se noi diciamo “descrizione eidetica della coscienza personale” dobbiamo dire anche la coscienza personale come – io direi, m'è venuto di pensare così – plesso di strutture del vissuto - plesso, intreccio, nodo, groviglio, ma un groviglio ordinato anche – animate da interne dinamiche e tensioni, che però devono essere sempre vissute ed avvertite come tali.
Questo mi pare il modo più attento e completo di dare non dico una definizione, ma di prospettare alla vostra attenzione la coscienza personale; quindi non solo coscienza come vigilanza, non solo coscienza con le possibilità enormi, che v'ha illuminate ieri Di Petta, di coinvolgimenti di substrati diversi, ma anche come plesso di strutture del vissuto, cosciente diciamo.
E allora mi domando e vi propongo (questo lo propongo però): che sono queste strutture del vissuto? Io ho pensato di proporvene e di proporne a me tre aspetti: uno è l'identità nella forma della Singolarità: il concetto jaspersiano dell'identità dell'Io è l'identità della coscienza.
Il secondo punto, che è fondamentale in quanto mi autorizza poi a tutto il passaggio fino alla reciprocità, è l'Alterità intesa come elemento estraneo, perché l'Alter è estraneo, e contemporaneamente costitutivo del singolo (questo è il punto essenziale). Il singolo, in tanto è singolo e tale, in quanto è costitutivo suo l'Alter; direi addirittura che è l'Alter che mi consente di parlare di me come singolo. Qui abbiamo naturalmente delle suggestioni e dei suggerimenti che ci vengono da un certo tipo di psicanalisi che è la Psicanalisi delle Relazioni: voi pensate a Kohut, pensate a Winnicot, pensate a Bion e capite come anche da questo punto di vista, ben diverso da quello Husserliano o Kleiniano, l'Alterità, questa dualità originaria, questo capezzolo e bocca dell'infante che è in una fusionalità originaria, è fondamentale per la costituzione dell'Io; in questo ha ragione ile caro amico Aldo Masullo, credo uno dei migliori fenomenologi italiani (napoletano, adesso è andato in pensione), quando dice: “L'Io: un'identità perduta?” Cioè: stiamoci attenti, non è il primus l'Io, viene dopo.
Quindi: l'identità nella forma della singolarità, l'Alterità come elemento estraneo e insieme costitutivo del singolo, e terzo l'ulteriorità come polo intenzionale di significato: per un Io che è così carico di Alter, nella costituzione della sua esistenza nel mondo, l'ulteriorità - cioè l'andar oltre, il porsi sempre in un qui ma solo e sempre per un là (un qui non esiste; se non c'è un là non posso dire un qui ) va considerata come polo intenzionale di significato. E allora ecco che noi comprendiamo perché agostinianamente, brentaniamente, husserlianamente, noi non possiamo prescindere –ve ne avrà credo parlato ieri Gilberto, ma questo libro (intende “L'enigma dell'ovvio” ) è fondamentale da questo punto di vista – dall'intenzionalità, che ci propone il nostro dovere di Uomini che hanno scelto questo tipo di attività e di lavoro tra gli altri Uomini: capire, chiarire il senso e il significato del pensiero e delle azioni altrui. Ciò è fondamentale per noi: non si tratta, per noi a contatto con la sofferenza psichica, di fare solo l'elenco dei sintomi, ma dentro, anzi prima, anzi dietro il sintomo scorgere assolutamente in modo perentorio un senso, un significato, anche laddove senso e significato sembrerebbero avere smarrito ogni valenza positiva. In questo, mi permetto di ricordarvi gli studi di Ferdinando Barison sull'autismo infantile, o su certi autismi –io ho avuto la fortuna di discuterne insieme a lui in quel bel libro sull'autismo- che oggi chiamano “autismo povero”; ma che significa “autismo povero”?!? Che emerga poco sì, ma allora il nostro compito è di trovare il senso e il significato del mio esser muto di fronte a certe domande che mi si rivolgono, mentre magari per certe altre io posso esplodere e diventare un torrente di parole. E questo lo chiamiamo autismo povero? Lo chiamiamo con Krowen (?) impoverimento del lobo limbico o altre cose simili? …non mi pare… perché dietro questo phaenomenon (?) c'è un numero di sofferenza radicale, di motivazioni profonde, e se noi semplicemente le neghiamo non è che le comprendiamo: negare non è mai un comprendere. Allora, torno a ripetervi e poi ho quasi finito questa mia introduzione: le strutture del vissuto come coscienza personale, l'identità (Jaspers dal 1913 ad adesso non può essere dimenticato) –l'identità del vissuto, l'identità della singolarità -, l'Alterità che è elemento contemporaneamente estraneo e costitutivo del Singolo, l'ulteriorità come polo intenzionale.
Non so se sono stato chiaro, perché l'argomento certo non è facile, però ho l'impressione che una sistemazione iniziale di questo tipo possa consentire a noi medici, a noi psichiatri di accedere all'Altro in un modo meno disumano rispetto a quello della categorizzazione medico-paziente.
L'identità personale non è mai però una conchiusa totalità: l'identità personale è senso della propria unità, unitarietà, e nel contempo dell'Alterità e dell'Estraneità: queste due parole sono fondamentalmente diverse l'una dall'altra. Alterità ed Estraneità rivelano l'identità personale. La mia identità è contemporaneamente legata alla presenza dell'Alter, che però ha in sè la continua minaccia di diventare un Estraneo, uno Straniero avrebbe detto Camus: se voi vi ricordate e avete letto questo autore capirete e vi ricorderete quanto oggi sia reale il pensiero di questo mirabile scrittore. Quindi Alterità ed Estraneità che rivelano l'identità personale e che testimoniano un orizzonte di trascendenza in cui si disegna l'identità stessa. Martin Buber parla di un “tra”, zwischen, quando afferma che Io e l'Altro, quando ci incontriamo, non siamo “Io e Lui”, ma siamo un “tra Noi”; e Buber lo dice in due parole tedesche (scusatemi, ma sono fondamentali): “faktish zwischen ihnen”, concretamente tra di loro: lo spazio dell'incontro non è uno spazio di cose che si possono appiccicare o meno, ma è fatto di pagine che si fondono l'una con l'altra; ed ecco perché allora la coscienza personale è sempre asimmetrica, cioè mostra sempre una sproporzione costitutiva: nella coscienza personale costitutivo è l'Alter. Il guaio è quando l'Alter diventa Estraneo, come un corpo estraneo; voi pensate al mondo paranoide, che è uno dei tanti mondi, in cui la coscienza è contemporaneamente del Singolo – Io- e dell'Alter, che diventa un Estraneo dentro di me, che si introduce in me, che si infiltra, che mi scruta, che mi spersonalizza; e questo apre l'orizzonte, la via, ad un florido nuovo tipo di incontri, nell'ambito per esempio delle corsie o dei vari centri di incontro con i pazienti - che è poi quello che io ho vissuto tanti anni fa nella scuola col Professor Zutt (?), in cui “L'analisi del mondo paranoide” (io ci contribuii con un piccolo contributo) è stata veramente un'analisi che allora in Germania venne considerata con uno sguardo di stupefatta dubbiosità: “Sarà vero o no questo?”…anche perché ci si muoveva in un ambiente in cui la clinica era ancora radicalmente kraepeliniana; pensate solo al concetto di dementia praecox e capirete quanto cammino in questi ultimi cinquant'anni ha potuto fare la Psichiatria e quanto sia attualmente pericoloso un ritornare indietro, perché, mutatis mutandis, sempre di regressione si tratta.

… Allora dicevo: la coscienza personale asimmetrica, la coscienza personale
costituita da una sproporzione costitutiva: la coscienza personale nasce sempre come sproporzione, e questo lo aveva capito benissimo il Professor Kretschmer, a Tubingen, quando parlava di sproporzione nella costituzione nella costituzione dello schizoide, non dello schizofrenico.
Quindi, se voglio fare una specie di riassuntino, direi: la coscienza personale come contesto a strutturazione aperta, a direzione intenzionale e tuttavia organizzata attorno al nucleo centrale della propria identità – non possiamo dimenticare la nostra identità- ; quindi sono questi tre aspetti: la coscienza personale come contesto a strutturazione aperta –strutturazione aperta significa che, nello strutturarmi, io non sono esclusivamente, come si insegnava ottant'anni fa, la costituzione (lo psicopatico come costituzione), ma lo strutturarsi è continuamente aperto in certe direzioni, che sono intenzionali. C'è quindi una libertà, se vogliamo, anche nella scelta, consapevole o inconsapevole che sia, del proprio modo di esistere, potremmo anche dire del proprio sintomo -, a direzione intenzionale, ma organizzata comunque sempre attorno ad un nucleo centrale; io non credo assolutamente, per ora –poi chiederò a Maria Armezzani, a loro, agli altri –, che si possa veramente prescindere dalla propria identità. Oggi si tende, sul piano del DSM, a parlare di personalità multiple, di identità multiple, ma io penso che lo si dica in un modo molto superficiale, nel profondo è difficile dirlo.

Ora, nel contesto delle strutture della coscienza, l'Estraneo, cioè quello che si avverte come Altro, mi si contrappone, ed è proprio contrapponendosi a me mi dà la coscienza della mia identità; quindi tanto l'imbattermi nell'Estraneo, tanto il fondermi con l'Altro contribuiscono a farmi capire che ci sono anche io come Io. Possiamo considerare allora altri tre livelli del pensare: ad un livello elevato - poniamo mistico, poniamo d'amore, poniamo anche di election, di elevazione dell'umore (che non è detto sia necessariamente maniacalità )- l'Altro: la presenza dell'Altro -in me, in questo momento per esempio- dà luogo a sentimenti di esaltante pienezza: parlando qui con voi, vedendovi attenti, sentendovi coinvolti in questo tipo di ragionamento, io che ve lo propongo provo un'esaltante pienezza, che è consapevolezza ad un livello elevato; i tedeschi dicono, invece di Bewusstsein, Besinnung , autoconsapevolezza, me ne rendo continuamente conto criticamente.
Ad un livello meno elevato, più basso ma non bassissimo – e qui direi che possiamo pensare ad un senso esistenziale un po' epidermico, quello che in Analisi Transazionale chiamiamo le carezze -, l'Estraneità può diventare perturbante, e quindi una differenza che si colora di emarginazione e di disagio: ci viene in mente “La nausea” di Sartre, quando lui sta seduto nel giardino con le ninfee e ad un certo momento arriva dall'altra parte un altro, si mette seduto, prende il giornale, e lui non è più padrone, si sente anche guardato; la presenza, l'introduzione dell'altro che lo percepisce, e che gli dà un senso di emarginazione, di disagio: non è più lui il padrone del paesaggio che stava contemplando. E' questa la condizione di Straniero.
Ad un livello più basso ancora, e purtroppo credo, cara Armezzani, quello forse predominante dovunque, è la differenza tra Io e l'Altro che ci lascia totalmente indifferenti, è la connotazione empirica della pluralità impersonale: quando siamo sull'autobus, siamo accanto agli altri, ma ognuno è solo una monade senza finestre in quel momento. E' il livello che noi definiamo “man sagt”, si dice, si fa, si pensa, quello in cui la configurazione personale è praticamente inesistente, è opaca, è piatta, è priva di cum motio, di commozione. E questo è purtroppo il mondo del giornaliero, nel quale noi non solo siamo obbligati a vivere e ad essere immersi, ma che molto spesso, specie nelle grandi conurbazioni –e qui c'è l'aggancio alla Sociopsicologia dello spazio vissuto- ci soffoca: anche negli spazi più aperti c'è il senso del soffocarsi, mentre magari nelle viuzze centrali di questa Padova, che io pochi mesi fa percorrevo con Maria Armezzani, vi è un rinserrarsi dello spazio che ti dà pienezza di vita comunicata.
E qui mi corre obbligo ricordarvi, ma sicuramente ve ne avrà parlato Maria Armezzani, il famoso paragrafo 44 della “Quinta meditazione cartesiana” di Husserl, uscito dalla traduzione di Costa del '70, in cui Husserl dice: tramite l'analisi della natura appartentiva, dell'Eigentlich Natur – che è propria in quanto è appartenente: se appartiene, se mi appartiene, se tu sei nella mia appartenenza, parliamo del problema dell'Altro- la corporeità propria –ecco questo concetto che è diventato Merleau Pontiano, ma originariamente era Husserliano (non faccio adesso qui storia critica degli sviluppi delle idee fenomenologiche)- introduce quasi paradossalmente la sfera dell'Estraneità: più penso alla corporeità propria e più sono obbligato ad entrare nella sfera dell'Altro; più tendo ad essere me stesso più devo avere in me le presenza dell'Alter: allora posso essere me stesso. E allora ecco il punto per cui in questi ultimi anni io ho pensato che bisognava assolutamente ragionare in questo modo, ed introdurre una parola molto impegnativa: intersoggettività. L'intersoggettività finisce allora per essere la trama dell'Alter Ego, nel senso dell'immane sforzo compiuto negli ultimi anni da Husserl sul tema: come si costituisce l'Alter Ego. Come posso io dire che Tu è un Io anche quello; chi mi autorizza a fare questo salto?!? Emerge quindi originariamente il rapporto Io-Altro, ed emerge malati o non, questo è il punto fondamentale: se voi giovani medici, giovani psichiatri non afferrate e non vi impiantate nell'anima questo, fallirete nel nostro programma; l'originaria struttura dell'Io è una struttura duale: l'Altro è inscritto dentro di noi, anzi è l'Altro che ci autorizza a dire Io. Quindi emerge di nuovo ancora il concetto husserliano di appartentività primordiale; la lingua tedesca dà dei termini chiarissimi… Husserl dice la Ureigentlichkeit, l'appartentività originaria: è una parola che a tradurla è assolutamente difficile; cioè non c'è un contesto… io ho avuto l'esperienza strana di vedere dei colleghi di altra lingua, conoscenti però bene il Tedesco, illuminarsi quando invece di dire tante parole o in Francese o in Inglese, ho detto: “E' una Ureigentlichkeit”. Questa potenza nelle singole lingue è poi un destino del linguaggio, di avere delle pregnanze in certo senso più che in altro.
E allora ecco che l'intersoggettività come appartentività primordiale è direi il risultato fondamentale ottenuto tramite il processo di riduzione fenomenologica, questo è difficilmente contestabile; si può contestare, ma da altri punti di vista. Torno ancora a ripetere: con questo processo di riduzione fenomenologica si riesce a cogliere il rapporto Io-Altro allo stato nascente, quando nasce, come si forma, nei primi momenti –intendo non momenti solo cronologici, ma momenti topologici-, come fatto originario che sta alla base della più complessa elaborazione. E qui mi è venuto in mente di ricordare in questo Agostino, l'estraneità interiore è a me più propria della mia stessa natura appartentiva; lui lo diceva parlando di dio: possiamo parlare di trascendenza, possiamo parlare anche di trascendentalità se vogliamo; questo però ci fa vedere come questo concetto non sia legabile ad un inquadramento aristotelico, bensì ad un inquadramento platonico. Quindi ci fa pensare e vedere in una chiave secondo me fondamentalmente nuova anche il retaggio che il Medio Evo ci ha consegnato: noi lo abbiamo capito spesso male, ma il retaggio del Medio Evo è pieno di esistenzialità.
Questo mi porta a parlare subito dell'incontro tra intersoggettività e d'altro passo interpersonalità.
Siccome però è circa un'ora, e l'argomento non è facile, se voi volete, e io lo desidererei, cinque minuti di fermo, di riflessione, e poi ricominciamo.

Armezzani: Dunque…stiamo discutendo di questo col Professore: siccome avevamo fissato l'orario dalle undici all'ora di pranzo, e invece il Professore può fermarsi anche un po' il pomeriggio, allora stavamo decidendo se completare ora la relazione e rimandare al pomeriggio le domande, anche perché si riferiscono all'intero testo della relazione. L'altra eventualità è dare spazio ora a degli interventi per chi deve andare via e poi riprendere invece l'altra parte della relazione dopo una pausa breve per il pranzo… ecco, quelli che devono andar via vogliono sentire la fine della relazione; sembra anche a me più ovvio perché le domande possono riferirsi a tutto…

Callieri: …a meno che non ci prendiamo mezz'ora di relazione e poi allunghiamo il tempo per andare a pranzo per un'altra mezz'ora di discussione…(brusio)…vabbe', io ricomincio…
(risate)
Adesso, la parte successiva, a mio parere, è molto più scorrevole, anche come concettualizzazione, perché è ovvio il tentativo mio di declinare sul piano pratico ciò di cui c'è stata una giustificazione teoretica prima. Per dire questo, però, bisogna che ricordiamo qui, con tutta la sua opera, Ludwig Binswanger, che è stato l'indicatore di via, la guida per questo problema della co-presenza, del co-esserci, dell'Uomo che è minacciato di perdita radicale delle proprie dimensioni dai processi di massificazione. L'accesso che ci indica Binswanger - che è stato un po' il maestro di Cargnello e un po' anche di tutti noi - va indicato muovendosi, più che dalle determinazioni, dalle definizioni complesse e ontologiche - che però rendono la sua opera assolutamente fascinosa- , dall'evento concreto di come noi incontriamo l'Altro, di come noi esistiamo insieme all'Altro, sia in autobus o in casa, che nella corsia di un ospedale, che in ambulatorio, che nell'incontro quotidiano territoriale.
Nella Psichiatria attuale, va detto, purtroppo dominano il momento diagnostico, il momento nosologico, che sono radicalmente obiettivanti; sono utilissimi dal punto di vista operativo, perché altrimenti io non riesco ad immaginare come si possa operare, per cui diventa necessario accettare anche, entro certi limiti, i vari DSM, gli ICD, tutte le classificazioni, senza dimenticare che, perlomeno come propedeutica a questo, è necessario in ognuno di noi - vecchi e giovani, ma soprattutto giovani - educare all'approccio concreto ai singoli fallimenti dell'incontro, o alle sue limitazioni o alle sue impossibilità. Sicuramente Gilberto Di Petta vi avrà parlato della sua esperienza di questi ultimi anni: lavora nei SERT, dove ha trovato un modo, a mio giudizio molto affascinante, di approcciare questa complessa realtà anche, in certi momenti forse soprattutto, proprio da questo punto di vista, dal punto di vista cioè di un'interpersonalità, anche se è un'interpersonalità condannata allo scacco, fallita, discutibile a priori. Il movimento è però sempre quello lì: l'approccio psichiatrico o psicologico come lo si voglia chiamare è fondato sulla prospettiva di un'autentico impegno coesistentivo; la reciprocità di un nuovo rapporto medico-paziente che diviene quindi nettamente antinomico ad ogni reificazione dell'Altro; più io reifico l'Altro più perdo il mio connotato di interlocutore e quindi di possibilità di interloquire direttamente con l'Altro. Qui va ricordato il pensiero di un grande studioso –poco noto da noi; a Napoli, per esempio, Paolo Masullo ha tradotto “La Patosofia” - , Victor von Weiszecker, medico e antropologo, che indicò diversi anni fa, con una coerenza totale, la relazione interpersonale come prima categoria dell'Umano, cioè come chiave per la formazione e la lettura del rapporto medico-paziente. In questo senso l'incontro assume il senso di un apriori, cioè di un accadimento originario che innanzitutto si pone nell'incontro col Tu; si tratta di una modalità patica, costitutiva di ogni dimensione interpersonale. Sono convinto, e mi piacerebbe che voi, studiando alcuni passi di Weizecker - ben accessibili in italiano- riteneste che nella pratica psichiatrica il dare ed il ricevere debbano costituire un atto unitario: il concetto di relazione di totalità, una relazione di totalità che poi si realizza secondo il principio della Gestalt Therapie, della Teoria della Forma. Questo nesso indissolubile dimostrato proprio fattualmente in persone che fanno un lavoro in comune: nell'esempio classico di Binswanger dei due taglialegna che devono segare un grosso tronco in un bosco, il lavoro è comune, non possiamo dire che è più dell'uno o dell'altro. Il concetto quindi di reciprocità.
Una scuola psicoterapeutica a mio parere di notevole importanza, anche se un po' messa da parte dal prevalere di certe impostazioni psicoanalitiche della nuova Psicoanalisi, è la Scuola di Stoccarda (Khristian Huber), dove questa impostazione della reciprocità costituisce uno dei punti fondamentali dell'educazione psicoterapeutica di questa grossa equipe.
E' proprio partendo da questa reciprocità che è possibile prospettare, in un modo direi metodologicamente valido e fondato, il passaggio dal transfert psicoanalitico – e quindi da tutta la dialettica transferale e controtransferale – all'incontro antropologico. Su quest'argomento, io ho avuto la soddisfazione di essere stato invitato dalla SPI, dalla Società Italiana di Psicoanalisi - che ha una bella sezione a Roma, il cui segretario, il Dr. Izzo, è stato un mio antico allievo -, a parlare di queste tematiche, che oggi in Psicoanalisi sono molto sentite: il problema della gestione del controtransfert ( in America pare che le esagerazioni del controtransfert, il debordamento superi il venti per cento del trattamento; non si tratta di un problema di facile soluzione: addirittura alcuni vogliono che il controtransfert per esser tale debba essere sempre agito) e come si passa invece all'incontro inteso in questo senso; questa possibilità di introdurre dei parametri diciamo pure antropologico-esistenziali di base fenomenologica in una prassi legata ad una teoresi e ad una metapsicologia radicalmente diverse. A questo proposito io penso che Gilberto Di Petta vi avrà detto o potrebbe dire qualche cosa, perché ha vissuto queste cose sulla sua pelle.
Se quindi il modello transferale e controtransferale della relazione analitica resta sempre la cifra fondamentale di ogni procedimento psicoterapeutico, diviene però necessario, alla luce di questo che abbiamo detto finora, restituire al transfert un destino diverso da quello di una rigida delimitazione della teoresi metapsicologica. In fondo noi dovremmo imparare a schiudere il paziente alla dimensione singolare dell'incontro, perché molti dei nostri pazienti sono riconducibili ad un denominatore comune diffusissimo, che è la difficoltà interpersonale – questo lo riconoscono anche gli autori di lingua anglosassone-. Se noi riusciamo a calare la vecchia gestione analitica della relazione d'oggetto nella direzione diciamo pure Kohutiana della interazione dialogica - come ha detto recentemente bene Mario Trevi nel suo libro “Riprendere gli umili”(?)- probabilmente non c'è più motivo di tenere rigidamente separate come due confessioni irriducibilmente contrarie la Psicoanalisi e l'Analisi Kohutiana, almeno io penso.
D'altra parte voi capite bene quanto sia importante, dal punto di vista terapeutico, gestire e facilitare il transito da un'insuperabile solipsismo, come è quello che irretisce molte esistenze mancate o molte esistenze nevrotiche, psicopatiche ecc., verso ciò che io vorrei chiamare la reciprocità delle coscienze. Questo famoso concetto è stato ripreso in maniera mirabile da Minkowski: nel libro “Vers une cosmologie”, “Verso una cosmologia” - che dovrebbe essere finalmente tradotto in italiano, una traduzione difficile – Minkowski dice che l'appartenenza, quindi la reciprocità, è l'elemento – testuali parole – che caratterizza l'essere rispetto ad ogni altra sua qualità fondamentale. Quindi già Minkowski, settant'anni fa, individuava questa reciprocità delle coscienze, che poi è stata ripresa mirabilmente da uno psicologo francese a forte connotato religioso: Maurice Nedonceillee (?). La sua tesi – che egli discusse sotto i bombardamenti nazisti di Berlino – , intitolata appunto “La reciprocitè de les consience” (La reciprocità delle coscienze), ottenne subito alla Sorbonne la pubblicazione. Da sottolineare come poi, e qui la genialità di queste persone, un libro fondamentale sulla reciprocità delle coscienze sia stato pubblicato nel momento più duro del conflitto mondiale: per me ha avuto molto significato la lettura di questi atti della Sorbonne (che poi furono ripubblicati nel 1954).
E allora direi metaforicamente, ma anche non metaforicamente: toccare ed essere toccato; i francesi non dicono “essere in due”, bensì “etre-à-deux”, essere a due: questo “a” è una preposizione pregna di significato. Questo rappresenta un carattere molto più basale allora del “etre un”, essere uno, del “etre moi”: “etre-à-deux”.
Questo è in fondo lo scopo fondamentale di ogni azione psicoterapeutica, qualunque sia la teoresi che la supporta e da cui si muove, ma anche di tutta la gamma del coesistere; può essere veramente quello che i miei amici analisti transazionali insistono molto, il carezzare ed essere carezzati; lo diceva anche il tuo simpaticissimo Tonino D'Errico – (parla con Di Petta) – in una comunicazione al Convegno di Napoli – carezzare ed essere carezzati… bellissimo… l'ultimo, l'ultimo suo; Di Petta ha sentito molto la mirabile influenza del compianto Tonino D'Errico.
Io direi che bisogna arrivare ad un toccarsi d'anime: non è necessariamente toccarsi nel senso della bioenergetica, che ha degli aspetti che possono anche trapassare ad altro – qui sarebbe molto utile sentire l'esperienza che ha fatto Gilberto Di Petta con il collega Gunter Ammon , psicoterapeuta molto importante di Monaco di Baviera e di Berlino.

Il toccarsi d'anime: è una pagina di Minkowski questa che è veramente fondante; ve ne leggo un pezzettino piccolo (a chi vuole poi do la precisa indicazione bibliografica): “Questa reciprocità, inscritta nel toccare – le touchè non è solo toccare, palpare, toccare il seno come dice tutta la tematica delle cose sessuali, ma è qualcosa di ampio – , determina il modo speciale di essere di tutto ciò che è il Me e l'Altro nella loro reciprocità. Questa reciprocità quindi è un fenomeno assai più originario del semplice Me, che come tale non significa assolutamente nulla.”
Questo Me e l'Altro nella loro reciprocità indica, allora, l'appartenenza come categoria primaria dell'Umano; è qui forse che paradossalmente il Noi di cui parlava Buber va inteso come un'identità, ma un'identità eterogenea: ognuno non riceve l'Altro che per poter restare Altro da lui; l'incontro con l'Altro rende più autentica la mia ipseità, tanto più autentica quanto più l'Altro si incarna dentro di me. Questa dialettica non è quindi, come voi vedete, soltanto Husserliana, perché in quel periodo in cui veniva scritta, studiata e proposta, questi autori non avevano sicuramente, per ragioni cronologiche, letto Husserl. Io direi che c'è un vero e proprio va e vieni dialettico tra l'identità del Noi e l'eterogeneità dell' Io e Alter Ego – l'Io e l'eterogeneo, lo Straniero di cui avevamo prima parlato - : quindi Io e Tu, Io e Lui. Questa promozione mutua, che sta alla base di ogni dimensione dialogica, si esprime però attraverso un lavoro pericoloso – e di questo per voi giovani psicologi è importante avere consapevolezza - , perché è un lavoro che spesso ha il rischio dell'inadeguatezza; in esso si superano dei limiti, o si evita di toccarli, o di spingersi a dei limiti che invece sono poi la chiave di un rapporto, la chiave risolutiva, a volte, di certi blocchi. C'è il problema quindi di una saturazione o di un saturarsi proprio tramite questa reciprocità, in cui si rivela tutta la dialettica della Persona, perché la Persona – e qui c'è un altro grande psicologo francese, Louis Lavel – è sempre un farsi dialettico introiettato, è sempre existentia e insistentia, è sempre, direi, vocazione e invocazione – su questo Marcel ha detto tanto - ; e allora dobbiamo pur dire che la radice di ogni reciprocità è proprio nell'Alterità: questa dimensione dialogica che però ha il pericolo di toccare radicalmente e di confondersi con qualche cosa che è metapsicologico, con qualche cosa che è radicalmente esistenziale e patico. La difficoltà è quindi del costituirsi tra loro e del trascendersi l'uno e l'altro. C'è un libro bellissimo di Herzog, uscito recentemente, sul suo maestro Binswanger, che tocca proprio quest'argomento. Vi ho parlato qui delle situazioni bi-personali di Weiszecker.
Dobbiamo allora anche dire che, nell'orizzonte concettuale della dimensione interpersonale, come si va proponendo da più parti da oltre trent'anni, quindi nell'incontro, ogni medico, ogni psichiatra, ogni psicologo, ogni psicoterapeuta aperto e sensibile al Tu deve cercare di cogliere e di comprendere i vari mondi vissuti in cui egli si imbatte; ecco l'altro grande tema fenomenologico: voi sapete che per Husserl (…..cambio cassetta) è qualche cosa che, detto in linguaggio Gadameriano, è prima del pre-giudizio, del Vor-verstaendniss. In questi mondi vissuti, noi psicopatologi ci imbattiamo quotidianamente nella nostra attività clinica, per esempio nel nostro quotidiano rapportarci all'esperienza psicotica, alle sue plurime facce: l'angoscia depressiva, la grandiosità maniacale, la perplessa sospettosità delirante, l'aggressività, la noia, la passività dello psicopatico, gli innumeri sentieri delle sofferenze mentali. In questo senso, l'incontro intersoggettivo, io direi interpersonale … e qui dobbiamo riconoscere il grande debito che abbiamo nei confronti di uno psichiatra statunitense Sullivan, che sull' “Interpersonal Psychiatry” ha detto delle cose molto belle… dobbiamo dire che ogni discorso, per noi che facciamo questo lavoro, sempre deve essere dialogo oltre che monologo; dobbiamo cercare di cogliere l'aspetto dialogico anche in quello che non è espresso, anche nei silenzi; a volte, per lo psicoterapeuta, decifrare il silenzio dell'Altro è più importante che ascoltarne certe verbalizzazioni che sono solo di difesa. La decifrazione dei silenzi è veramente a volte fondamentale.
Quindi io direi, per concludere questo mio punto, che il nostro atteggiamento deve rimanere sempre aperto alla solitudine e al silenzio: sono questi dei termini nei quali poi cade spesso l'incontro con l'Altro - cade per evitare di dichiararsi falliti, cade per evitare le deception più profonde in noi- ma che possono essere considerati anche fonte di comunicazione, quindi non mai soltanto un vuoto.
Si può dire quindi che è all'insegna del dialogo che noi dobbiamo tessere la nostra tela quotidiana degli incontri, all'ombra propedeutica essenziale di tutto quello che c'è stato comunicato dai nostri grandi maestri, in particolare, qui da noi, da Husserl con tutta la sua impostazione - senza con questo volere minimamente intaccare la grande importanza dell'altra grande figura, che ha tanto reso perplesso il povero Binswanger, che è Martin Heidegger (Binswanger non sapeva se fare la spola più verso l'uno o più verso l'altro!) - .
Io mi fermerei qui per poter subito iniziare la discussione.