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COME ENTRARE NEL CINEMA….…. e restarci fino alla fine

PARTE SECONDA

CAPITOLO VI

Mi chiedono perché.

Anche quando feci domanda per entrare volontario in aeronautica mi chiesero perché. Avevo diciassette anni e dicevo la verità. Risposi che avrei preso il brevetto per i jet e poi sarei diventato pilota collaudatore, mi sarei trasferito negli Stati Uniti, presa la nazionalità americana per essere tra quelli che sarebbero andati sulla Luna.

Mi ricordo la faccia rossa del colonnello. Rossa per il ridere. Richiamò l'attenzione di tutta la commissione:

- Sentite! Questo vuole andare sulla Luna!- Tutto lo staff dei cervelli aeronautici italiani fu scosso dall'ilarità. Si era nel '52 e la Luna era soltanto quel disco romantico che fa dire di sì alle ragazze.

Chissà se si son ricordati di me i capoccioni aeronautici nel luglio del '69: Neil Armstrong è della mia stessa età, 1934 classe di ferro!

Mi scartarono e adesso sono qui davanti a sconosciuti professori di cinema che vogliono anche loro sapere perché.

Rispondo che sento l'intima esigenza di esprimere il mio mondo con le immagini filmiche. Non ride nessuno.

Dieci giorni dopo ricevo il telegramma di ammissione al Centro Sperimentale con relativa borsa di studio mensile di lire cinquantamila.

Chissà che ha risposto il Peppo, lui è stato ammesso soltanto come uditore.

Tornare a scuola dopo tre anni di banca è affascinante. Mi risento i libri sotto il braccio, le gambe lunghe strette tra sedia e banco e voglia di vivere, di ridere, voglia di goliardia: la contestazione studentesca è ancora lontana.

Faccio l'inventario delle compagne di corso: una greca, un'olandese, due uditrici italiane. Niente per i miei gusti. E i compagni: oltre agli altri due effettivi vincitori della borsa di studio, ci sono due uditori dell'anno passato, il Peppo, un altro uditore di Trieste e quattro stranieri: un giapponese, un sudafricano, un jugoslavo e un bel grecone di centoventi chili.

Cominciano le lezioni. Il professore di scenografia ripete con forza che il punto di incontro delle rette parallele si chiama punto di incontro delle rette parallele. Il professore di estetica porta calzini viola e non si ripete mai, non ci riuscirebbe. Sentite:

-Pur riaffermando la sostanziale unicità dell'arte, come possibilità trascendentale dell'esistenza concretata in termini di pura formatività, abbiamo ammesso, con significato storico didattico, la possibilità di distinzione di diversi linguaggi e, in relazione ad essi, di una differente educazione del gusto del soggetto conoscente...-.

Penso ai culi dei cavalli di Avandero mentre mi fisso ebete sulle mitraglianti labbra dell'estetico che continua a scorreggiare:

- Chaplin, Stroheim o Castellani sono infatti perfettamente assimilabili per individualità creativa a Matisse, a Moore, a Faulkner, a Strawinsky, poichè i termini dell'espressione di ciascuno di essi sono profondamente radicati nella individualità e irripetibilità dell'esistenza; ma sul piano della storia, intesa in un'accezione fenomenologica, un'evidente analogia linguistica (intendendo per linguaggio un sistema di convenzioni semantiche) è possibile...-

E' possibile che sia questo il Centro Sperimentale di Cinematografia?

Per fortuna c'è Blasetti. Alesetti Blasandro, come si presenta lui, regista dei miei stivali. E' una boccata d'ossigeno. Unisce le classi di regìa e recitazione perchè al primo piano di un posacenere dice di preferire quello di una bella donna e così mi permette di ampliare l'inventario: c'è anche quella del bikini e ha i capelli rosso rame.

Bello anche il profilo delicato di Lorella DeLuca e poi le altre, tutte graziose e due o tre proprio splendide. Un'occhiata anche agli attori: il frocio risalta come una rosa in un cespuglio. Il bellone pappavecchiette è quello dai riccioloni neri, gli altri sono più anonimi.

Blasetti sbatte una ragazza sulla pedana: ha appena terminato di girare con la Loren "La fortuna di essere donna" e vuole che la ragazza ripeta una scena del film. Deve fingere di guardare vetrine inesistenti lungo una strada immaginaria sapendo di avere addosso lo sguardo di "lui". Muoversi!

La bionda con una notevole coda di cavallo è imbarazzata. Più che sentirsi addosso lo sguardo di "lui" si sente addosso lo sguardo di noi e si muove come se avesse inghiottito un palo telegrafico. Blasetti ride con fragore: se quando un "lui" la guarda si muove così nel suo futuro c'è il convento non il cinema! La afferra e la piega con grazia convincente: culo in fuori, che deve risaltare, la spalla un po' indietro per sottolineare il seno e poi la camminata: morbida, seducente, richiamante. Blasetti sculetta meglio di un travestito brasiliano di fine secolo.

Sotto un'altra! Tocca alla rosso rame. Si chiama Mara e si sa muovere dondolando i fianchi da mal di mare. L'interesse per la lezione aumenta sensibilmente e Blasetti è soddisfatto. Alza nel silenzio un dito e pronuncia uno dei suoi comandamenti: qui dobbiamo fare delle attrici e non delle madri di famiglia.

Applausi degli allievi maschi. Le femministe degli ancora futuri anni Settanta mordono rabbiose i cestini della merenda.

Poi tocca ai registi. Alesetti Blasandro vuol sapere come inquadreremmo la scena.

- Di qua.- dice un mio compagno napoletano mettendosi oltre il vetro dell'immaginaria vetrina- Lei in primo piano e "lui" che guarda sullo sfondo.- Con un tonfo sordo Blasetti si lascia cadere sulla schiena, braccia e gambe rigide in alto, come un topo stecchito. Ridiamo tutti ma nessuno dimenticherà mai questa disapprovazione. Blasetti si rianima e si alza fissando l'arrossito aspirante regista:

- E io ti prendo Sofia Loren, le faccio mette il culo in fuori e tu le fai "nu bello primo piano"? E via! Tu!- punta il dito su di me. Mi alzo sentendomi le gambe cedevoli, ma non devo essere timido, non voglio! A Roma non mi conosce nessuno. Posso darmi il carattere che mi pare: posso essere bestemmiatore sfacciato, violentatore di donne, aspirante santo, seduttore stanco, posso perfino fingermi frocio. E' come rinascere. Ma devo decidere immediatamente: la prima impressione marchia.

Blasetti mi misura con un'occhiata lunga due metri. Chissà se si ricorda di quei matti del cineclub Biella. Io oso. Allungo un braccio perentorio e lo sposto in modo da godere la visuale di Mara dal punto migliore, che se non deve essere la faccia, non può che essere il culetto.

- Da qui. In soggettiva di "lui", se si eccita "lui" si ecciterà anche il pubblico. -

Applausi di Blasetti mentre Mara mi avvolge in un'occhiata di velluto. Torno al posto e mi sento grande. E' stato come quando venivo interrogato sugli articoli di partita doppia. L'importante è essere chiamati per secondi:

- Cassa a Debitori.-

- Dio santooo! Nooo! Gastaldi, dillo tuuuu!- cantilenava il professor Cantone negli anni dolci della mia adolescenza. E io che di partita doppia non sapevo nulla andavo sul sicuro:

- Debitori a Cassa!-

- Bravo, giustooo!- sorrideva il professore che mi benvoleva convinto della mia superba preparazione. Se non è zuppa è pan bagnato, mi aveva insegnato mio nonno nei dolcissimi anni della mia infanzia.

Al pomeriggio, subito dopo il pranzo gratuito alla mensa, abbiamo due ore di storia del cinema con proiezione. Io alla mensa ci vado con la cartella e la riempio di panini per la sera. Cerco di riempire anche la pancia per la sera e quando arrivo in proiezione superrimpinzato mi siedo in prima fila, allungo le gambe e le palpebre calano isolandomi dal mondo.

Il professore si chiama Montesanti, è innamorato della Bertini e ci costringe a orge di cinema muto. Nel buio, il ronzio del proiettore fa da base ad una colonna sonora fatta di ronfetti e respiri profondi. Oggi sullo schermo una Greta Garbo bionda e cicciona si sbraccia nell'interminabile "Die Gostaberling Saga". Mi sento scuotere con violenza e sbircio lo scuotitore: è lui, il raffinato Montesanti allibito e sdegnato:

- Ma come si fa a dormire davanti a Greta Garbo?-

Chiedo scusa e sbarro gli occhi appannati su quelle improbabili ombre in violento bianco e nero che passano sullo schermo e imparo a dormire ad occhi aperti.

Finalmente tutti in teatro per le esercitazioni pratiche! I capannoni bui e semivuoti hanno un'aria di chiesa. In fondo al secondo ci sono tre pareti che simulano una stanza, sui ponti i riflettori immensi e polverosi, sul carrello dalle ruote gommate dinosaureggia una vecchissima Arriflex.

Ci fa lezione Luigi Zampa e subito urla che i direttori di produzione sono i nostri peggiori nemici perché a loro non frega niente se il film viene bene o male, a loro interessa risparmiare sul preventivo per comprare la pelliccia all'amante. Zampa è furioso e urla paonazzo che non dobbiamo fare brutti film per comprare le pellicce alle porche amanti dei direttori di produzione! Questo è il succo della prima esercitazione.

Dopo una quindicina di giorni di condizionamento già discuto in assoluta serenità coi miei nuovi compagni dell'autenticità del soggetto conoscente. Secondo l'esteta dai calzini viola sembra che il sentimento sia in agguato dentro di noi per toglierci l'autenticità.

Se un film ti commuove, attento! La commozione toglie l'autenticità! Se ti scandalizza, occhio: lo sdegno toglie l'autenticità! Se ti fa ridere sei sull'orlo della crisi: il divertimento toglie completamente l'autenticità.

Mi pare di capire che il soggetto per essere autentico e conoscente debba vedere dei film di cui non gliene frega assolutamente nulla. Solo così può mantenere il giusto distacco e giudicare se è opera d'arte o no. Ma se di un film non te ne frega niente è assai difficile che ti sembri un'opera d'arte, per questo i critici sono raramente entusiasti. Alcuni per essere proprio autentici evitano perfino di essere conoscenti e stroncano il film senza vederlo. C'è anche uno scrupolo professionale: dire che un film è buono puzza di bustarella.

-Hai letto la critica sull'Europeo? Dice bene, Del Buono ha beccato la centomila!- così i poveri critici sono costretti a parlar male di tutti i film, eccetto quelli per cui hanno realmente intascato la bustarella.

Noi invece, allievi sperimentali di cinematografia, ci scaldiamo e ne dibattiamo anche durante il minestrone della sera consumato alla Breccia o il cappuccino col cornetto preso al chiosco in piazza dei Cinquecento. Di tanto in tanto ci interrompe Attanasio, il greco da centoventi chili:

- Buono Bubi...- lui si guarda l'inguine e noi cerchiamo la bella ragazza. Il greco usa infatti rivolgersi così al proprio organo erettile che si agita se sente profumo di donna.

Passata la bella ragazza, spenti gli inevitabili commenti sulle rotondità delle natiche, lo slancio delle gambe o la sensualità delle labbra, Tonino, abbruzzese dagli occhi azzurri, riattacca con assoluta convinzione.

- Il film si propone alla conoscenza dello spettatore come uno schema di sensazioni, selezionate e organizzate dall'autore secondo un criterio stilistico, dirette a diversi centri sensori...-

Nessuno può immaginare che tra qualche anno il Tonino biondo dagli occhi azzurri diventerà un regista di successo del western all'italiana.

Il primo ad uscire da questa melassa di parole idiote è il Peppo. Molti anni prima di Fantozzi, nella sala di proiezione del Centro Sperimentale, LA CORAZZATA POTEMKIN riceve da lui questo laconico commento:

- Una gran rottura di balle. -

Montesanti resta senza fiato e nessuno applaude per novanta minuti. I tempi non sono maturi.

Peppo decide di passare all'azione che per lui, fin dalla nascita, è sempre preceduta dal ciak.

Facciamo una colletta e compriamo una bobina di negativo. Chiamiamo Lorella e un paio di attori e ci mettiamo a girare una storia per nostro conto. Nelle ore libere, si dice. E sentiamo che sono libere tutte le ore occupate dai parolai che si dicono umanisti.

A Lorella viene la ridarella, non recita e alla fine piange. Cerco di consolarla: ha fatto IL BIDONE con Fellini sì o no? Lei annuisce e racconta ridendo e piangendo che quel suo famoso primo piano quando scopre che il padre è un bidonista e piange, Fellini l'ha girato a tradimento, insultandola per farla piangere e un macchinista, accovacciato davanti a lei, le faceva tremare la mano scuotendole il gomito da fuori campo.

La nostra iniziativa naufraga nelle lacrime di Lorella e va a picco urtando contro il divieto che ci arriva dalla Direzione: non possiamo usare le attrezzature senza autorizzazione e non possiamo chiedere l'autorizzazione poiché gli allievi non hanno l'autorità per chiederla.

Tutti di nuovo in aula a sentire l'autenticità del soggetto conoscente. Il Peppo pianta burattinai e burattini e torna a casa.

Io resto anche se ho la sensazione che così difficilmente si entra nel mondo del cinema.

 

CAPITOLO VII

Per Natale esce al cinema Corso "La fortuna di essere donna" del nostro maestro Blasetti. Tutto il Centro va a vederlo. Non è un gran film, la Loren e Mastroianni si sgranano addosso battute come due mitragliatrici e noi in platea ci sentiamo tutti soggetti autenticamente conoscenti.

A proiezione finita usciamo commentando con gesti di sufficienza e di delusione. Nascosto nelle tende di velluto grigio delle uscite io vedo il vecchio Blasandro col cappotto di pelliccia e colbacco calato sugli occhi che scruta le reazioni del pubblico che lascia la sala.

Lo devo salutare due volte con un tonante:

- Buonasera Maestro- prima di fare intendere agli amici che non è il caso di continuare gli sprezzamenti ad alta voce. Il Maestro mi dà un'occhiata di traverso e grugnisce una risposta cambiando nascondiglio.

Dopo la Befana, lezione di regìa. C'è attesa: si sarà incavolato il Maestro?

Eccolo!

Ha lo stesso cappotto e colbacco, pare uscito solo adesso da dietro le tende del Corso. Va alla cattedra, ci guarda e poi mima i nostri gesti di sufficienza che ha colto mentre uscivamo dal cinema. Piccoli sbuffetti, smorfie di disgusto, scuotimenti di testa e sputa a terra come se avesse amaro in bocca. Poi butta la pelliccia e si sdraia sulla cattedra, alza i piedi e muove le gambe a bicicletta. Noi siamo gonfi di risate ma non osiamo esplodere perché Alesetti sembra proprio incazzato. Ci guarda e senza smettere la sua ginnastica, dice.

- Quando voi farete un film così io verrò qui a rifare questo ma nudo!-

Adesso ridere è doveroso.

Povero caro Blasandro! Film ne abbiamo fatti tanti ma non sei mai andato sulla cattedra nudo ad agitare le gambe: evidentemente nessuno di noi ha mai fatto film "così".

Il mio tentativo di essere diverso sta miseramente fallendo. Le ragazze qui mi sembrano tutte troppo esperte e tese al successo. Ho assunto atteggiamenti di tranquilla indifferenza per non rischiare brutte figure.

Ai compagni attori si è aggiunto Rik Battaglia che ha fatto il protagonista con Sofia Loren ne "La donna del fiume" e ha un contratto con la Titanus che lo ha mandato a scuola per imparare a recitare. Ha vita facile con le ragazze che ci tengono a farsi vedere in giro con lui. Qualche storia d'amore sboccia qua e là mentre il gay si mette sulla scia delle più belle per imparare a sculettare.

Quando hai vent'anni, mangi gratis e stai con ragazze che ti tengono in un perenne stato di semierezione, i mesi passano eccitati. Giugno è di nuovo tempo di esami. Ci danno trecento metri di negativo e ci fanno girare tre minuti di "film". Il resto è orale. Con qualche professore siam diventati amici e chiedo all'esteta-filosofo-parolaio dalle calze viola di non farmi domande astruse: io ho solo il diploma di ragioniere e un'iscrizione quasi platonica all'Università di Torino, facoltà di Economia e Commercio.

Troppo tardi scoprirò che anche lui ha solo il diploma di ragioniere.

La prima domanda che mi fa è:

- Chi è Stefanini?-

- Il centro pivot della nazionale di pallacanestro. Ci ho anche giocato contro una volta in allenamento.-

Vacilla. Non sa se sia vero o no. Io ho giocato per anni della Libertas di Biella, lui ha giocato solo con le parole e la stupidità di chi le ascolta.

Non mi fa altre domande e mi passa al professore di sceneggiatura che per alcuni mesi, battendosi nel cavo della mano sinistra, ha cercato di convincermi dell'importanza dell'acme drammatico a cui deve far seguito la scena madre prima che la parabola dell'attenzione precipiti nella catarsi.

- Tu che leggi?-

- Fantascienza. - rispondo sorridente. Strizza le palpebre, come se avessi detto una parolaccia.

- Non leggi i classici?-

- No. - Allora Asimov non era reputato un classico.

- Non leggi gli autori moderni?- Solo dopo scoprirò che si reputa un autore moderno.

- No. -

- I giornali almeno! Li leggerai quelli o no?-

Scuoto la testa: la borsa di studio non permette acquisti quotidiani di alcun genere.

Penso che mi sbatteranno fuori. Per fortuna c'è Blasetti. Lo sento urlare fin dal corridoio che non gliene frega delle risposte e che se mi bocciano se ne andrà anche lui perché a suo giudizio...

Mi allontana un usciere, dicendomi che non sta bene origliare alle porte del Consiglio.

Passo al secondo corso ma mi tolgono la borsa di studio.

Vado a ringraziare Blasetti ma mi respinge burbero:

- Per la borsa di studio non ti preoccupare. Il prossimo anno te la do io. -

Lo guardo andarsene con adorazione.

Anche il Peppo è riapparso per gli esami e i professori si sono interrogati a vicenda per scoprire chi fosse. Purtroppo non è passato e si vendicherà. Sono rimasto solo a tentare di entrare nel mondo del cinema.

 

CAPITOLO VIII

L'estate marcia su Roma.

Mi telefona Romano Benois, cugino di Peter Ustinov, di gloriosa discendenza artistica francoitalorussa. Mi invita a pranzo a patto che io porti il secondo. Compro una vassoiata di sottaceti di buona figura e poco prezzo e salto sul 35. Difendo il vassoio dalla ressa plebea di questi tempi antebum e scendo a piazza Quadrata. Mi dirigo verso l'arco del Coppedè, un castello tra fata e strega al centro di Roma, pieno di torri e di merli.

Romano e Marta abitano lì. Marta è una bella argentina. Sono i primi amici sposati che ho. Occupano due stanze con bagno al piano rialzato e in fondo al corridoio una misteriosa scala liberty in legno scuro porta sotto, in qualcosa di buio che sembra una cantina.

Giù per quella scala si incanalerà il mio destino.

Di primo c'è un risotto e per secondo sottaceti. Romano a pranzo beve latte. Marta si adegua e io anche. Sembriamo un trio incinta.

Romano beve latte a pranzo, per tutto il resto del giorno invece beve come un cosacco. Mezzo russo, mezzo francese, mezzo tedesco e mezzo italiano, dal portamento si direbbe figlio del papa. E chissà che non lo sia perché a Pasqua ci ha portati in cinquanta a fare merenda sull'Appia Antica nella villa del cardinal Montini, a cui ha dato un'affettuosa pacca sulla schiena predicendogli, novello Nostradamus, che salirà al soglio di Pietro. A me invece predice con il suo vocione tonante che le due stanze e cucina buie che stanno in cantina mi piaceranno tantissimo e mi spinge giù per la follia liberty in legno scuro.

L'unico chiarore proviene dalle finestre che si affacciano radenti il marciapiede, proprio sotto il maestoso arco ornato di un immenso lampadario in ferro battuto, spento dagli anni Venti e mai più spolverato. Oltre le robuste grate floreali che mi difendono da aggressioni esterne, passa una donna cicciotta: ha le mutande rosse. Queste finestre non sono poi così infelici. Arriva trotterellando un cane e alza la zampetta contro gli antichi ferrei arabeschi. Urlo e salto indietro appena in tempo. Il cagnetto terrorizzato schizzetta fuggendo per tutta via Dora inseguito dalla risata fragorosa di Romano: avrà problemi di prostata in vecchiaia.

Mi guardo intorno: il posto è lugubre. Un angolo della prima stanza è sepolto dalla sporcizia. Ci stava un pittore inglese con moglie e figlio, speriamo di non trovare cadaveri scavando.

Sorseggiando latte sui miei sottaceti, il mio aristocratico cosacco mi ha proposto di affittare il seminterrato. La padrona di casa chiede 26.000 mensili ma c'è il vantaggio che abita a Varese.

Mi aggiro a tentoni e Marta accende una lampadina incrostata di unto che penzola indipendente da un paralume in pergamena bruciata. Le stanze sono due e nell'altra c'è un letto matrimoniale. Si potrebbe dividere in tre.

- Si deve dividere in tre, caro!- arrota le erre Romano. Gli altri due li ha già trovati e sono toscani. Chissà che cosa avranno portato loro di secondo.

Alberto Giommarelli lo conosco un poco, è stato diplomato da pochi giorni direttore di produzione al Centro Sperimentale. E' senese, alto pelato e innamorato di una bionda alta e oriunda non si sa da dove. Dice che ha un cugino francese e matto da legare. Non so perché, ma lo guardo e gli credo subito.

La storia è torbida: la bionda andò anni fa in Africa per sposare un proprietario di miniere (d'oro? per la storia sarebbe più bello) e lo sposò ma poi si innamorò del nipote ventenne che subito fece grazie nonna. Nella tresca però c'era stato un salto di generazione: da nonno a nipote. In mezzo c'era un padre e si fece sentire, soprattutto a lei, sodomizzandola con violenza. Dopo di che alla sventurata non restò che iscriversi al Centro Sperimentale.

L'altro si chiama Roberto Masignani, senese anche lui è a Roma per fare il militare. Fa il militare all'italiana pagando la libertà con cartonate di pasta e casse d'olio d'oliva che il padre pastaio manda ai colonnelli.

L'idea di avere una casa tutta mia mi fa subito sognare follie sessuali. Finora sono andato in bianco ma senza soldi, senza letto e senza macchina dove me la porto la ragazza? E poi sono anche senza ragazza. Con un appartamento ad accesso libero, male che vada, avrò sempre tanti amici.

Il trasloco da Castro Pretorio è semplice: butto le mutande nella valigia, la chiudo e prendo il 35.

Inauguriamo la casa con una colossale spaghettata condita con olio e pomodoro fresco. Un grande cartello campeggia in cucina: ieri, oggi, domani, sempre pasta Masignani. E' un facile vaticinio perché ho dato un duro colpo ai miei risparmi avendo dovuto mandare a Varese tre mensilità anticipate e mi aspetta un'intera estate senza mensa e senza borsa. Alberto ha solo le sue speranze di neodirettore di produzione e Roberto ci guarda perplesso quando affondiamo le mani affamate nei suoi cartoni di spaghetti. Affoghiamo l'angoscia esistenziale nella pasta e nell'olio d'oliva. Mezzo chilo a testa a pranzo e a cena e tuttavia le pance tendono ad incurvarsi verso l'interno. Siamo una dimostrazione vivente (appena appena!) della dieta mediterranea, ma le diete non sono di moda, è ancora troppo vicino il ricordo della grande fame della guerra.

A luglio Alberto spreme un bel pomodoro fresco sul suo sessantottesimo mezzo chilo di pasta e commenta che il nostro è un mangiare razionale. Meno razionale ma assai più grasso è Romano che gode di un bell'assegno paterno e di un aiuto argentino e va con la moglie, in un piccolo ristorante dietro la piazza con invidiata frequenza.

Ci invita quando Roberto, e con lui la pasta, vanno a fare un CAR in Abruzzo. Un altro paio di volte ci andiamo da soli barcollando per la fame. Paolo, il ristoratore, capisce e le porzioni di carbonara ricordano il mezzo chilo casareccio ma dopo c'è abbacchio e cappelle di porcini arrosto. Due litri di frascatello gelato ci rimettono in pace col mondo.

Alberto è innamorato e come tutti gli innamorati di questi anni lontani, soffre. Alterna momenti di trascinante euforia ad altri di disperata disperazione.

In un momento di trascinante euforia mi ha mostrato la sua collezioni di peli. Tante bustine trasparenti con dentro peli d'ogni colore e accanto nomi e date. Tutte donne, mi assicura. Lo guardo gongolare, si aspetta un grande apprezzamento. Cerco di mostrare ammirazione chiedendogli come abbia fatto a prenderli. Alberto ride per ventisei secondi e poi piange. Mi indica l'ultima bustina: dentro c'è un pelo ricciolino e biondo. Appartiene all'oriunda. Chiude l'album e urla che si vuole suicidare: la trascinante euforia precipita nella più disperata disperazione. Singhiozza che l'oriunda bionda è una sadica mentale che si diverte a distruggerlo e si lascia prendere i peli solo quando vuole lei.

Divento amico degli amici degli amici. Il Centro Sperimentale è una catena di Sant'Antonio rivolta al passato. Romano e Alberto si sono diplomati quest'anno e conoscono quelli che si erano diplomati l'anno scorso quando loro frequentavano il primo anno, i quali a loro volta e così via, su fino ad Alida Valli. Chicchino è uno che si è diplomato tre anni fa e si è sposato con Chicchina affittando un appartamento ai Parioli che non potevano permettersi e così l'han diviso con Giovanni che è attore da diplomato da due anni. Una divisione così: Giovanni paga tutto il fitto e anticipa un po' di soldi per i pranzi. Chicchino è generoso. Invita spesso gli amici e gli amici degli amici e per noi è una bella variazione ai pranzi razionali di via Dora.

La casa è davvero ospitale e nel corridoio ci sono dei biglietti da cinquecento lire attaccati al muro con puntine da disegno: sono per gli amici più poveri che passano e staccano un ricordo. L'idea è di Chicchino ma i biglietti di Giovanni.

Chicchino e Chicchina sono appassionati delle corse al trotto e Giovanni conosce i fantini di Villa Glori e sa sempre quali sono i cavalli che non vinceranno. Sapere chi non vince è un gran vantaggio: le corse vedono spesso in gara solo quattro o cinque cavalli e la scelta si restringe. Chicchino è uno scommettitore scatenato coi soldi degli amici e se vince li rende. Se perde li invita a casa a fare un pokerino chiedendogli di anticipare la messa, se vince la rende. Se proprio la serata va male, Chicchina distrae con uno spogliarello buffo, da educanda.

Da qualche tempo sto antipatico a Chicchino perchè davanti al totalizzatore gli ho negato duemila lire innegabili. Lui è davanti a me, gioca, ma al momento di pagare finge di non trovare i soldi, si volta e mi ordina di dargli duemila lire. Io gli sorrido serafico di no. Deve rinunciare alla giocata e si piazza alle mie spalle sulle tribunette.

Pupissa rompe a tre metri dal traguardo e lui si sbraccia e mi indica al popolo:

- Ha guardato Pupissa e ha rotto!-

Intorno a me si fa subito il vuoto: chi scommette sui cavalli è superstizioso.

Quando nasce Chicchinino c'è un po' di perplessità, ma noi arrotolando fettuccine al salmone cucinate dalla puerpera si fa finta di nulla. Interrogato, ammetto che Chicchinino assomiglia a Chicchino, invece il primo sceneggiatore che incontro, no. Scende dal piano di sopra, via balcone. Porta una fascia bianca intorno alle tempie e un paio d'occhiali spessi come culi di bicchiere. Si sposta sui gomiti e sulle ginocchia lungo la cinta del terrazzo lanciando gutturali richiami siou. Piomba sul tavolo da poker distruggendomi un full di fanti e Romano mi fa cenno che quello lì è Bolzoni, uno che nel cinema ci lavora.

Lo sceneggiatore va dritto alla culla del nuovo nato e lo osserva con grande attenzione massaggiandosi il mento.

- Assomiglia... assomiglia...- C'è subito suspense. Alberto sta baciando e schiaffeggiando l'oriunda in un angolo ma per un attimo sospendono il menage.

- Assomiglia a... a...- ci scruta tutti lo sceneggiatore e i suoi occhietti grigi sembrano grandi e intelligenti dietro i culi di bicchiere.

- Assomiglia a Giovanni!- risolve infine ululando felice. Se si aspetta applausi non ne riceve. Cala uno strano gelo perché tutti sappiamo che Chicchino ama Chicchina.

Una risata fredda arriva dall'angolo dell'oriunda che dileggia Alberto :

- Col cosino che ti ritrovi quando la metti incinta una donna tu!-

- Ridi ridi come quando te lo metto in culo!- la schiaffeggia rumorosamente e poi la bacia con passione. Il gelo si scioglie e la serata scivola sul culturale con testimonianze più o meno oculari sul riso femminile provocato da più o meno destri tentativi di sodomia. Nella culla Chicchinino dorme l'unico sonno del giusto.

Tra i cavalli di Villa Glori, amici degli amici, incontriamo anche Rossana e Marco. Lei Podestà e lui Vicario. Lei attrice famosa e lui attore un po' meno e ancora non produttore di film ma produttore di belle donne perchè lui fa colpo e noi ne approfittiamo. Ce n'è una, innamorata da pianto, disposta a subirci tutti pur di concludere col bel Marco. A me fa pena e i sani principi della provincia mi fregano. Così ci subisce tutti meno uno.

Il suicidio di Alberto aleggia nei sotterranei del Coppedè perché ha rotto con l'oriunda. Invano Roberto cerca lo scontro vivificatore dicendogli che ormai le aveva già rotto tutto. Inutile anche la precisazione di Romano che ha rotto pure noi. Marta si apparta quando parliamo di donne: si sente come un insetto sul vetrino dell'entomologo ed è l'unico insetto stabile in via Dora, scarafaggi a parte.

La disperata disperazione di Alberto esplode a volte in trascinante euforia. E' mezzanotte e si mette in smoking. Ci costringe tutti in smoking e ci invita alla Rupe Tarpea a vedere lo spettacolo di spogliarello. Alberto non ha una lira ma un invito è sempre un invito.

Dieci minuti dopo siamo tutti davanti alla sontuosa entrata del night. Alberto si slaccia il farfallino e ci ordina di fare lo stesso. Dobbiamo assumere un'aria sazia e allegra, un po' brilla, darci qualche manata e ridere ad alta voce. Passiamo così davanti agli indifferenti buttafuori gallonati e andiamo ad appoggiarci al banco del bar.

C'è una meravigliosa aria di peccato nella penombra rossa di velluti, di dolce vita ante Fellini. In pedana una Gilda bionda si sta levando un guanto. Due camerieri ci girano intorno professionalmente sorridenti ma seccati di essere ignorati.

La Gilda bionda si è sfilata l'altro guanto e sta uscendo dal vestito in una nuvola di pizzi neri che coprono tutto quello che potrebbero lasciare scoperto. Fissiamo quell'abbondanza e non siamo più viveur brilli e annoiati ma quattro ragazzotti allupati. Il maitre ci punta spietato:

- I signori desiderano?-

Certo che desideriamo, fortuna che Alberto è pronto e si infila una sigaretta in bocca:

- Del fuoco.-

C'è tanta aristocratica noia nella sua richiesta che il maitre fa scattare la fiamma dell'accendino.

Parliamo spesso di cinema. Secondo me dormendo di giorno e vivendo di notte è difficile sfondare. Alberto sostiene che di notte la gente è più simpatica e bendisposta. Basta frequentare i posti giusti e lasciar fare al destino. Tanto lui sa che il suo sarà suicidio per amore.

Ovviamente c'è la crisi del cinema. Ho studiato al Centro che il nostro cinema è sempre in crisi e che quando la crisi è più nera quello è il momento dei capolavori. Per noi la crisi è nerissima. Propongo di andare dal direttore del Centro e chiedere un aiuto per fare un bel documentario, magari all'estero. Romano approva rumorosamente: Spagna o Egitto! Approfondiamo la proposta la sera dopo a Santissimi Apostoli dove la pizza è un biscotto e paga lui che riesce a bere dieci stivali di birra da un litro e un quarto.

Allarghiamo il gruppo a Giuliano Carnimeo, mio compagno al corso di regìa e ad Angelo, neodiplomato direttore della fotografia.

Roberto partecipa per simpatia, è sempre sotto le armi anche se non l'ho mai visto in divisa e da qualche tempo è anche sotto le unghie di una donna sposata che lui vorrebbe piantare. Per questo si interessa a progetti di viaggio in terre lontane.

Si va al Centro fidando in Felice e si scopre che è capitata una calamità: dopo anni di vacatio han nominato un presidente. Si chiama La Calamita.

E' un uomo-saponetta, scivoloso che sembra di stare sotto la doccia. Riusciamo a farci prestare un macchina da presa con cavalletto e batteria, un ciak e la promessa che ci pagherà le spese di edizione.

Da come parla il neopresidente si capisce che sa nulla di cinema ma è stato scelto col criterio democristiano della massima incompetenza: chi non capisce non rompe le balle.

Ci dobbiamo tassare: centomila cadauno e si va in Spagna! Io scrivo alla mamma e Romano al papà. Anche gli altri si rivolgono agli onesti genitori. Alberto no perché si sente orfano e vuole suicidarsi.

Devo intervenire. Prendo Alberto per un braccio e lo metto sull'ascensore. Il nostro gallonato portiere ci guarda interrogativo. Gli sorrido:

- Andiamo in terrazza, Antonio. Lui si vuole suicidare. -

Antonio china i nobili capelli bianchi per non essere indiscreto. Viviamo nelle cantine di una grande casa!

Alberto si lascia guidare come un bambino e gli faccio attraversare la terrazza assolata scegliendo con cura il lato migliore. Lo spingo sull'orlo:

- Ecco, da qui non ci sono problemi. Vedi? Tutto sgombro, neanche un cavo elettrico in cui restare malamente impigliato. Ti spiaccichi sotto come una pera matura. Per suicidarsi è il migliore dei posti. Se devi farlo fallo subito oppure non ci pensi più e vieni con noi in Spagna. -

Mi tiro indietro di due passi e lo lascio pencolante nel vuoto. Sono sicuro che non si butterà ma ho il cuore raggrinzito dalla paura.

Alberto guarda il precipizio senza fili e la bella piazzetta con la fontana. Mi controlla con la coda dell'occhio e io faccio un altro passo indietro: se si butta non posso più fermarlo.

Alberto mi guarda con gli occhi rossi dal piangere:

- Non ho le centomila per la Spagna. -

- Le metto io. - azzardo chiedendo a mia madre di perdonarmi.

Raspa le piastrelle screpolate dell'antico terrazzo e poi spalanca le braccia rassegnato:

- Non mi butto!- Mi prende sottobraccio sorridente e mi spinge verso la porta che dà sulle scale:

- Ovvìa, leviamoci da qui che il sole ci fa male! Noi s'entra bianchissimi nel mondo del cinema!-

 

CAPITOLO IX

La Spagna è lontanissima dal Mercato Comune e il Trattato di Roma è così giovane che nessuno ci fa caso. Per andare in Spagna a girare un documentario bisogna avere il visto per entrare in Francia, il visto per entrare in Spagna, il permesso della Dogana per l'esportazione temporanea della macchina da presa, dei mezzi tecnici e il trittico per poter passare la frontiera col furgone Volkswagen che abbiamo affittato.

Scopriamo subito che il permesso della Dogana viene rilasciato senza difficoltà alcuna dietro presentazione del benestare della Banca d'Italia. La Banca d'Italia rilascia immediatamente il benestare dietro semplice presentazione di quello del Ministero delle Finanze che non fa opposizione se gli si mostra quello della Direzione Generale Valute. La Direzione Generale Valute è dispostissima a rilasciare uno stupendo benestare dietro presentazione del visto della Direzione Piani e Scambi che vuole soltanto un permessino del ministero del Commercio Estero che può rilasciarlo in pochissimi giorni dietro presentazione di una lettera di benestare della sezione esteri della Direzione Generale Spettacolo, la quale ci sorride cordiale dispostissima a darci il benestare dietro presentazione di tutti i documenti elencati su un ciclostilato di due pagine. In carta bollata, ovviamente.

L'unica nostra fortuna è che ancora non è stato creato il Ministero del Turismo e Spettacolo e quindi nessuno ci chiede il di lui benestare. Pontida e la Lega Lombarda sono solo flebili ricordi scolastici e al Trattato di Roma mancava ancora un anno.

Ci alziamo tutte le mattine alle otto e dopo un mese e mezzo di code a sportelli sbagliati, attese in uffici vuoti, imprecazioni contro impiegati bastardi e rubastipendio, salamelecchi a cinque o sei direttori dagli atteggiamenti papeschi e venti chili di carte da bollo, siamo pronti a partire. Alberto insiste per passare anche dal Papa e avere la sua benedizione ma Romano è irremovibile: dal Papa si va solo se serve davvero, meglio andare dal suo padrino di battesimo che è uno dei principi di Castelbarco, famiglia che di papi ne ha avuti due più una serie lunghissima di cardinali.

Angelo, l'operatore, fa aperta professione di comunismo, quello vero integrale assoluto ante XX Congresso. Moltissima gente di cinema si dichiara comunista e applaude Ingrao, Pajetta and company che tornano dai loro viaggi in Russia arringando le folle entusiaste con descrizioni fantastiche del paradiso rosso dove c'è abbondanza di tutto. And company hanno avuto quasi tutti l'abilità di morire prima delle confessioni di miseria nera di Gorbaciov.

I susperstiti, mostrando una faccia da chiappe rugose, nei primi freschi confusi giorni degli anni Novanta, parleranno di strategia dell'attenzione, attenzione alle balle che ci hanno raccontato per quarant'anni. Poi verrà la P2, tangentopoli, i mafiosi e toccherà votarli per salvare l’Italia!

In questi nitidi anni Cinquanta Angelo storce la bocca disgustato davanti a quel nipotastro di un russo bianco, fuggito dalla gloriosa rivoluzione d'ottobre, che ha pure un padrino principe!

Romano tenta di alleggerire parlandoci del suo antenato cuoco alla corte del re di Francia, portato in Russia dall'allupata Caterina, imperatrice amante degli uccelletti allo spiedo.

Però dal principe ci passiamo. Stringo intimidito la mano di un uomo con la P maiuscola.

- Principe...- balbetto e mi sembra brutto dire altro a quel grande vecchio dagli occhi cerulei che sembra proprio un principe.

Anche Angelo stringe quella mano candida nella hall del Residence Palace. Forse Flaiano è nei pressi e ne ricava la convinzione che con c'è comunista nostrano che non provi un brivido di piacere nello stringere la mano di un nobile.

Il principe vive al Residence con un cane a cui passa fette di gruviera da due etti da farmi piangere lo stomaco inspaghettato all'olio d'oliva. Ha settant'anni portati dritti come chi non hai mai lavato il pavimento che ha pestato. I capelli che più bianco non si può, occhi limpidi senza responsabilità, pieni della luce dell'impressionismo e dei riflessi delle ceramiche di Sèvres. Vive in attesa dell'indennizzo dell'Enel che ha nazionalizzato le sue società elettriche.

Il principe ci guarda con simpatia, abbraccia il figlioccio e ci offre un liquorino. Il ministro degli Interni è un suo caro amico, forse potrebbe invitarlo a cena e parlargli di noi per farci avere un appoggio ufficiale in Spagna.

Scoliamo gratitudine da tutti i pori e Angelo esce camminando all'indietro. Fuori dalla porta girevole torna marxista e storce la bocca.

- Che schifo!- chissà se ce l'ha con se stesso, col principe o col ministro degli Interni.

Rimandiamo la partenza in attesa della cena del principe. Passa un giorno passa l'altro ed ecco Romano affacciarsi dall'alto della scala liberty e annunciarci con la sua tonante voce:

- Culoni! Il principe va a cena stasera ! -

- Beato lui.- grugnisce Alberto e mette sul gas l'ettolitro d'acqua che ci serve per bollire la pasta Masignani.

Il giorno seguente, emozionati e col vestito buono, riappariamo nella hall del Residence. Eccolo il principe! Ha sempre settant'anni e continua a portarli dritto come chi non ha mai dovuto lavorare nella vita.

C'è un po’ di Modigliani nei suoi occhi chiari stamani e la pelle delle mani porta il ricordo di una carezza ai senza spigoli di Moore.

Ci guarda con simpatia, abbraccia il figlioccio e ci offre un liquorino. Parliamo un poco di balletto e impariamo che quello russo moderno è stato inventato dal nonno di Romano con Diaghilev e Stravinskij. Il principe si dilunga sulle coreografie di Petruska e io dò un pestone a figlioccio affinché padrino intenda.

Il principe con un sorriso rassegnato risponde alla domanda plebea: certo che è stato a cena col ministro. Una splendida serata e un delizioso Montrachet Marquis de Laguiche.

- Ah -dico io- c'era anche un marchese?-

Il pestone del figlioccio è cosacco. Il principe sorvola principescamente sulla gaffe:

- Gran cru.- sospira e riattacca con le scenografie de L'Uccello di Fuoco.

Io taccio confuso. C'era o non c'era il marchese de Languiche?

Il marchese non c'era. E' stato un tète-à-tète col ministro ed era buono il vino. Cristo, e noi? Come scrisse Pierino nel suo famoso tema.

Il principe è scandalizzato. Non è elegante invitare a cena un ministro e chiedergli immediatamente un favore. Tra qualche giorno lo inviterà di nuovo e farà scivolare abilmente il discorso sulla crisi del cinema, la disoccupazione giovanile e quindi sul nostro problema. Gli occhi del principe sono chiari e sinceri. Probabilmente erano così nelle teste cadute sotto la ghigliottina di Parigi. Faccio un cenno ad un cameriere:

- Una brioche- ordino seccamente e sorrido sarcastico al principe- Perchè non c'è più pane.- Lo sguardo del principe resta lontano e purissimo intangibile dal lazzo borghese ammantato di storia fasulla.

Viva il re e abbasso la monarchia!

Decidiamo di partire e dividiamo i compiti: io e Romano alla regìa, Giuliano aiutoregista, Angelo operatore e Alberto direttore di produzione. E Roberto? Farà con noi la campagna di Spagna versando ai colonnelli dieci quintali di rigatoni.

Andiamo a prendere il furgone da Otello. E' azzurro con tre divani (non Otello, il furgone!). Noi siamo sei, perfetto. All'occasione ci servirà anche da roulotte: tre sui divani e tre sul pavimento.

Io ho la patente, anche quella internazionale, ma non so guidare. Alberto sa guidare ma non ha la patente. Per fortuna Roberto ha tutt'e due i requisiti. Guiderà lui.

Carichiamo i grandi riflessi argentati sul tetto insieme al cavalletto. L'Arriflex e la batteria devono stare al coperto con le valigie. Angelo strepita per la pellicola che deve stare in cassette termiche e all'ombra.

Il mattino del 26 agosto è domenica. Roberto gira la chiavetta e il motore romba, con una voce un po' particolare. Ossequiati dall'inchino di Antonio lasciamo l'arco fronzoluto del Coppedé e iniziamo l'avventura.

Sulla prima salita fuori città un gruppo di ragazze in bicicletta ci sorpassa ridendo.

- Metti la seconda!- esorta Alberto e Roberto scuote la testa: è già in prima. Smanetta sul cambio e adesso la velocità tende al buon passo d'uomo. Passo romano adatto a queste antiche strade.

- Questo bastardo di tedesco va a tre.- ghigna Angelo e il discorso scivola sulla ferocia nazista. Arriviamo a Siena a mezzanotte. Di questo passo l'inverno ci sorprenderà sui Pirenei.

Grazie alla solidarietà di contrada, un meccanico vestito a festa si sdraia sotto il lento tedesco. Facciamo cerchio come parenti ansiosi. Il meccanico si rialza e si pulisce puntigliosamente l'abito blu: diagnosi punteria malata, prognosi pochi minuti.

Applaudiamo il meccanico che ci guarda confuso. Dopo pochi minuti passiamo rombanti da Piazza del Campo puntando verso la costa. Ora il tedesco si scatena sui cento all'ora. Vien voglia di cantare Deutschland uber alles.

Roberto si addormenta a La Spezia alle tre di notte. Troviamo una pensione e ci ficchiamo a letto. E' la prima spesa di produzione.

L'Aurelia, stretta e intasata, senza alternative con o senza fiori, si lascia percorrere faticosamente. Mi sfilano davanti in successione inversa i liguri strapiombi della mia passione stilnovista per la bella con la coda di cavallo. Ineluttabile lasciarmi cullare dalla godibile mestizia del ricordo del mio primo amore.

Ponte San Luigi: un bel tramonto. Una bandiera bianca, rossa e verde e una bianca, rossa e blu. Due sbarre , una fila di macchine. Omini in divisa fanno rispettare le regole del gioco: qui Italia, là Francia. Qui "grazie", là "merci".

Quando tocca a noi son quasi le nove. Dobbiamo scaricare le nostre temporanee esportazioni piombateci dalla dogana di Roma davanti all'impiegato che gioca per l'Italia. Ci guarda sorpreso e noi attacchiamo il ritornello che ci accompagnerà per tutto il viaggio:

-Siamo un gruppo di giovani studenti del Centro Sperimentale di Roma e andiamo in Spagna a girare un documentario...-

Tiro fuori il pacco dei benestare, bellissimi, di vari colori, tutti adorni di timbri grassi e neri. L'impiegato si ritrae inorridito: o noi stracciamo tutta quella robaccia, leviamo i sigilli e passiamo alla viva il parroco, oppure dobbiamo passare la notte in Italia e al mattino seguente andare in banca e versare un quarto del valore della merce in temporanea esportazione come cauzione di buon ritorno.

Appena di là dalle sbarre dovremo fare la stessa cosa in una banca francese preoccupata del nostro buon andare, ai Pirenei invece faremo domanda di rimborso per la cauzione francese dimostrando che non abbiamo venduto niente durante il tragitto e verseremo un altro quarto ad una banca spagnola, preoccupata del nostro buon stare. L'impiegato ha una risatina sadica e spia le nostre facce imbambolate. Sceglie lui per noi e straccia con voluttà il nostro mese e mezzo di code timbri e maledizioni. La Direzione Generale delle Valute svolazza a pezzetti che copulano allegramente coi fottuti benestare del Commercio Estero mentre la Banca d'Italia si fa montare dalla Direzione Generale dello Spettacolo.

Alberto afferra le veline rosse della Dogana di Roma:

- Queste no! E' un po' che ci faccio la posta a queste!- e schizza oltre i cespugli slacciandosi i pantaloni.

L'impiegato che gioca per l'Italia è sull'orlo di un orgasmo e quando Alberto allunga il collo oltre i cespugli gridando:

- Io con la dogana mi ci pulisco il culo!- ha un lungo gemito di piacere.

A pochi metri i gendarmi francesi scrutano senza capire. Non vorranno mica vedere le veline della dogana...? Roberto intona la Marsigliese e Romano attacca il ritornello in francese:

-Nous sommes un groupe de jeunes étudiants du Centre Expérimental de Cinematographie de Rome...

Ai gendarmi non può fregar di meno e ci fanno grandi cenni di passare.

Dinanzi a me si stende la carta di Francia. Angelo l'ha aperta e Giuliano la consulta.

Ci viene incontro una colonna di carri armati scortati dalla polizia stradale e un agente muove la sua paletta in basso due volte.

Roberto, diventando l'italiano all'estero ligio alle leggi, rallenta e si mette sulla destra. L'agente fa una U e ci affianca. Ci fissa con vercingetorica rabbia:

- Credete di essere ancora in Italia?- ci apostrofa con orrido accento. Gli sorrido ampio tra le corna:

- Certamente no. Ce ne siamo accorti dalla sua cortesia.- o non capisce o fa finta.

Procediamo. Nizza, Cannes, Montecarlo, Marsiglia. Notte fonda.

La fame ci costringe a scendere. I prezzi tradotti in lire ci costringono a risalire. Puntiamo su Biarritz perché vogliamo entrare in Spagna dal nord.

La Francia è un'immensa pianura padana con ghirigori stradali senza senso percorsi da antichi camion col camino e abitata da migliaia di Jean Gabin che grugniscono monosillabi incomprensibili.

Navighiamo in questo stupido mare verde per tutto il giorno e comincia a fare un freddo esquimese. - Sicuro che non siamo arrivati in Lituania?-

Giuliano abbassa un vetro e sconfigge l'ululare della brezza. Grida ad un passante:

- Dove siamooooo?-

L'uomo si volta e non grugnisce. Taglia strada lottando contro il vento e s'avvicina tenendosi il cappello con le mani. Urla:

- Siete a Biarritzze, paesà e mo' so' cazzi vostri!-

Il vento lo vince spingendolo lontano. Romano tira fuori il suo taccuino: ha un indirizzo a Biarritz, famosa stazione balneare. Ci balena nel cervello intirizzito un'etimologia della parola balneare e cerchiamo le foche e le balene nel mare grigio piombo orlato di biacca che si intravede oltre una casa.

L'indirizzo di Romano è un anello della lunga catena di solidarietà dei russi bianchi che avvolge il mondo.

Gli esuli si passano gli indirizzi da padre in figlio e l'anello di Biarritz ci ospita tutti buttando materassi sul parquet del salone. Mentre Romano paga l'ospitalità parlando nella lingua degli zar, io vado al bagno e mi libero del peso di quarantott'ore, contento di lasciare qualcosa in Francia. Tiro una manopola e invece di una civile sciacquonata si apre il fondo del cesso mostrandomi una sottostante lontana scogliera frangiata di schiuma. Fortuna che son svelto a mollare la manopola e l'otturatore si chiude prima che il vento sghignazzando oscenità mi ributti in faccia il mio regalo alla Francia. Chissà se quella riga di spiaggia che ho intravisto dall'oblò del cesso è alla moda: forse questa è l'unica tintarella possibile a queste latitudini.

Con la luce del primo mattino eccoci davanti all'oceano. Per me è la prima volta e guardo con rispetto quelle immense lente distanziate onde plumbee che vengono a sbattere sugli scogli. Piove e ci ritiriamo in un bar da dove spediamo agli amici cartoline piene di sole e noi sottoscriviamo: sotto questo cielo eternamente azzurro, ti ricordo. Dev'essere così che Biarritz è diventata stazione balneare.

Abbiamo una fame nera ma ce la teniamo per la Spagna. Puntiamo su San Sebastian. Chi lo conosce l'inno spagnolo? Angelo sputa a terra disgustato: ha sopportato l'inno della rivoluzione borghese, non sopporterebbe un inno fascista! Una coppia di guardie "civil" ci toglie d'imbarazzo. Leggono la targa Roma e si illuminano sotto i buffi cappelli cerati e ci fanno cenno di lasciare la fila. I cugini francesi protestano coi clacson mentre le guardie ci fan passare davanti a tutti e invece di controllare i passaporti ci tendono le mani:

-...el gran pueblo latin!- riesco a capire in tanto entusiasmo.

Mi volto verso la Francia: egalité, fraternitè eccetera, sarà, ma non ce ne siamo accorti. Superata la sbarra sembra invece che essere italiani sia un merito: è altrettanto stupido ma più piacevole.

Angelo cerca subito guai affermando ad alta voce che un popolo di persone intelligenti, in pieno 1956 non può più obbedire a un duce, ma le guardie alzano le spalle tolleranti:

-Franco es un cabron.- affermano in tutta tranquillità e non serve la traduzione del nostro poliglotta Romano.

Pioggia e vento non si rendono conto di essere in Spagna e di qua fa freddo come di là. Ci arrampichiamo verso una trattoria: pranzo completo 38 pesetas. Alberto fa il direttore di produzione e moltiplica in lire: 494. Non è caro perchè è un posto di lusso. E poi ormai la fame è incontenibile. Entriamo umidi di pioggia ed esplode una musica spagnola. Non so se c'è una festa o se è sempre così. La gente ci viene incontro. Romano attacca il nostro ritornello in spagnolo:

- Somos un grupo de jovenes estudiantes del Centro Experimental de Cinematografia...-

- Arriba Italia! Arriba Roma! Arriba Espana!- è tutto un brindisi e allegre manate di benvenuto. Questa trattoria sul confine deve averla messa l'ente del Turismo: c'è troppa Spagna.

San Sebastian è una bella città con una bella spiaggia piena di bagnati. Bagnati dall'oceano, bagnati dalla pioggia. Bagnati che si tuffano nell'onda lunga e grigia che viene a schiumare su una spiaggia in tinta e poi corrono a sdraiarsi sugli asciugamani di spugna zuppi di pioggia fingendo che ci sia il sole.

Cominciamo a girare. Sono emozionato: è il mio primo giro di manovella da quasi professionista. Sto certamente entrando nel mondo del cinema.

CAPITOLO X

Regista. Come un Fellini esigo che Roberto, cilindro in testa e carta geografica aperta davanti al viso, si incammini verso l'oceano. Esigo che ignori la prima onda, la seconda e la terza e che continui a camminare dritto finché non sparirà del tutto sott'acqua. Nella finzione filmica riemergerà a Barcellona. Mi sembra un ottimo inizio satirico contro quel tipo di turismo che un giorno un poeta chiuderà nella frase: se oggi è mercoledì questo dev'essere il Belgio.

Roberto non sa recitare e tende a lasciarsi travolgere dalle ondate. Non posso sprecare troppo negativo con questi attori principianti! Inframmezzerò con un PP. Giro intorno un'occhiata torva: voglio proprio vedere chi ha la faccia di chiedermi che cosa sia un PP!

Nessuno fiata, il fiato si vedrebbe subito in questi otto gradi mattutini. Alla terza prova Roberto ha un principio di assideramento ma lo spettacolo deve continuare. Gli indico dozzine di festosi bagnati che si schizzano acqua addosso e ridono. Solo ora noto che sono tutti alti e biondi. Vichinghi? Parlano tutti spagnolo, vuoi vedere che è una stronzata la storia dello spagnolo piccolo, bruno e torero?

Quando Roberto è tutto sotto do lo stop. Lui non lo sente ma gli manca l'aria, affiora sbuffando come un tricheco e ci grida incazzato:

- Andate già via? Non vi fate un bagno?- il fragore della risacca e il frullare del vento gli impediscono di sentire la rispostaccia di Angelo, biondo ma piccolo e siculo, le cui dita gelate non riescono più a smontare l'obiettivo.

Tutti sul furgone con le coperte e puntiamo su Burgos lanciandoci lungo una carrettera deserta che si perde per ore in mezzo a lande di terra rossa come infiniti campi di tennis. Al tramonto Romano ordina l'alt: quella sarà la prima inquadratura del "suo" documentario. Viene così implicitamente stabilito che stiamo girando due documentari: il mio e il suo.

Si monta l'Arriflex sul treppiede e Romano fa l'inquadratura. Annuncia tonante:

- Motore!-

- Motore sì, ma quello del Volkswagen perchè non c'è luce abbastanza. Tanto sai quanti ne troveremo di panorami così...- e Angelo rimette la cuffia all'Arriflex gelando l'entusiasmo del neoregista.

Burgos è una città severa, religiosa. Ci arriviamo di sera e dopo aver mangiato tortillas entriamo in un night: il salone è bianco, illuminato da luce chiarissima e diffusa. Un'orchestra di gente in nero suona una musica che si potrebbe ballare anche con un morto in casa. Qualche coppia muove educatamente i piedi tenendosi con lieve disgusto per le punta delle dita.

Un cameriere tonsurato ci informa sommessamente che Burgos è città santa e il caudillo esige compostezza e castità. Per gli stranieri in visita chiudono un occhio e possiamo passare in un separé dove troveremo un flipper.

Il mattino dopo le guglie della cattedrale mi impressionano ed esigo che Roberto si arrampichi sulla quella più alta: non so dove metterò questa inquadratura ma è molto pittoresca. Roberto obbedisce ed è già al primo rosone quando una guardia civil si affanna a spiegarmi che in Spagna è purtroppo vietato scalare le chiese. Angelo sputa a terra: dittatura!

Saliamo sul pullmino e andiamo a Segovia. Basta seguire l'acquedotto romano. E' quasi una settimana che seguiamo gli acquedotti romani. Nasce un'accanita disputa culturale: i romani costruivano acquedotti perchè andavano a piedi o andavano a piedi perchè costruivano acquedotti?

- I romani erano i nazisti dell'antichità- taglia corto Angelo.

Ora il paesaggio é banalmente verde e Romano brontola che dovremmo tornare sulle terre rosse di Burgos per girare l' inquadratura iniziale del suo documentario senza la quale si sente castrato. Angelo sbuffa: di paesaggi rossi è piena la Spagna.

Il sole al tramonto allunga l'ombra del furgone che arranca su per una salita. Quando arriviamo in cima, un panorama di terre rosse fa urlare d'orgasmo Romano e scarichiamo alla svelta cavalletto, batteria e Arriflex. Romano mette l'occhio al buco e tutto intorno è il silenzio della creazione.

- Motore!-

Angelo schiaccia il bottone dell'Arriflex ma nulla si muove.

-Motore!- ripete Romano guardando torvo la cinepresa. Dev'essere la batteria. Stringiamo i morsetti.

-Motore!- obbedisce solo il sole calandosi dietro l'orizzonte. Romano lo minaccia con un pugno. Ricarichiamo tutto sul furgone mentre Angelo sbuffa che di paesaggi rossi è piena la Spagna.

Due ore dopo un acquedotto a due piani ci taglia la strada, chiudendo completamente la valle, come una diga traforata. Passiamo sotto le arcate e siamo a Segovia.

La città è rannicchiata dietro l'acquedotto: qui i romani devono essersi data una lunga sciacquettata.

Romano leva il naso dalla Guide Bleu Michelin che usiamo per evitare i ristoranti con più di una stelletta. Stasera si fa un'eccezione: Maison Candido, il ristorante più antico del mondo, dove si mangia ancora con ricette di Luigi XIV.

Accolti da inchini settecenteschi, saliamo al piano superiore del ristorante puntando i piedi sui bordi laterali di lucidi scalini di legno completamente consunti. Alberto brontola la sua paura di trovare piccioni del seicento e pane cotto nel medioevo.

Il tavolo è un tavolaccio. Le sedie sono panche lucidate da un'infinità di culi. Le stoviglie sono ciotole e dentro ci versano un brodetto di tartaruga che faceva la felicità del Re Sole. Lo assaggiamo coi cucchiai di legno, con sospetto. Ha uno strano colore rosa. Il sapore è sconvolgente. D'un buono che non è di questo mondo. Vini secolari gorgogliano nei boccali di terracotta.

Un "cochinillo asado en su jugo" arriva su un vassoio di quercia e le porzioni vengono fatte usando come coltello un piatto di frassino per sottolineare la tenerezza della carne. Un pranzo assolutamente antiprogressista. Incide sul nostro bilancio per mille lire a testa.

Ci portano un enorme registro foderato in pelle di capra: dobbiamo firmare e, se vogliamo, scrivere un parere sul locale. Sfoglio all'indietro e trovo tracce di Ponti e Loren e più indietro ancora i reali di Savoia. Siamo tra grandi e scriviamo parole dettate dall'antico vino. Barcollando scendo la scala consunta. Metto il piede sui resti levigati del primo scalino e parto in toboga atterrando su un soffice tappeto davanti al bancone del bar.

- Carlo Primero por el senor!- declama il barista felice. Anche questa è un'antica usanza della casa.

Una culata sul tappeto per un cognac così vale la pena. Romano e gli altri che hanno riso e non sono caduti vorrebbero risalire ma la maison non concede bis.

Madrid ci attende. Dopo la visita al cupo Escorial coi suoi grandi quadri, ci lanciamo sulla carrettera verso la capitale. Al fermo posta potrebbe esserci una lettera del principe con la P maiuscola con liete notizie economiche. Le nostre poche pesetas stanno calando nonostante i prezzi bassi.

Purtroppo il principe deve aver trovato sconveniente parlare di noi al ministro anche durante la seconda cena perchè l'impiegato postale madrileno sogghigna il suo "nada". Ci sistemiamo in un alberghetto di terza e andiamo a dare un'occhiata alla città, dalle supermignotte della Gran Via fino a quelle per tutte le borse di calle Echagaray.

Io sono abituato all'astinenza, ma gli altri smaniano. Roberto e Alberto hanno certe cadenze e in via Dora fanno i turni sul lettone matrimoniale. Poiché le porte non chiudono bene, espongono un lumino stradale affinché il mondo intenda. Un lumino che ci costò un rabbioso inseguimento della polizia che voleva recuperarlo: fortuna che in questi favolosi anni cinquanta nessuno spara addosso alla polizia e la polizia non spara addosso a nessuno.

Giuliano è abituato al bianco come me, ma recita la sua brava parte. Angelo ha ventinove anni e non può non smaniare. Romano sghignazza alla cosacca e rincorre tutte le mignotte che trova e quando ha bevuto ogni gonna che vede è una mignotta. Strizza terrorizzate signore e compiaciute turiste ultracinquantenni.

Poi rimorchia Isabelita. Angelo pianta subito la grana: vuole i soldi dalla cassa comune per scopare anche lui. La cassa comune la tengo io, cucita nella tasca posteriore dei jeans (pantaloni blu di tela genoa che nei favolosi anni cinquanta sono brache da fatica. Si prendono pel culo di camali, facchini, muratori. Sono ancora lontani gli anni in cui, Jesus!, si prenderanno pel culo di tutti), e le mignotte non sono sul preventivo fatto da Alberto. Ma Romano... Lui pesca nel suo. Soldi personali, lui ne ha e noi no. Un po' scocciante ma è così.

Angelo è furioso e parla di eguaglianza. Alberto sembra dargli ragione: l'eguaglianza del cazzo è essenziale, altrimenti si creeranno delle tensioni. E gli fissa provoca- toriamente il cavallo dei pantaloni.

Angelo capisce e gli urla di andarsi a fare le oriunde.

- Anche tu sei oriundo. - un bel silenzio di un secondo e poi la conclusione esplosiva- Del buco del culo.

Un modo elaborato per dire stronzo ma significa che Alberto è guarito. Mi sembra il momento di intervenire e attiro l'attenzione di tutti su una spagnola col neo, da ente del turismo:

- Non mi direte che riuscite a scopare solo se pagate!-

Angelo si stringe nelle spalle: la sua era una protesta sociale, niente di personale. Buttato sul sociale non frega più niente a nessuno.

Romano se ne va con Isabelita e gli altri, con la grana strettamente cucita nella tasca dei miei jeans, vanno tutti in bianco. Per me è consolante.

Torniamo in albergo all'aurora e troviamo Romano e Isabelita che ci aspettano, mano nella mano. Non un cliente e una puttana, due fidanzatini di Peynet.

Romano ci racconta che Isabelita, dopo aver preso le centocinquanta pesetas pattuite, lo ha portato a casa sua: una miseria incredibile. Sospira e colorisce: un quartiere spaventoso, una catapecchia folle. Ma dentro, tutto lindo con tendine alle sgangherate finestre. Il lettuccio con la coperta di pizzo e, dietro una tenda, la vecchia madre inferma. Isabelita batte per necessità.

Romano il cosacco si è commosso, non ha scopato e se l'è portata dietro. Isabelita è oriunda (ahi, la parolaccia!) di un paesino della Mancha e ci può far da guida per un tratto del viaggio.

- Originaria, si dice. - puntualizza Alberto guardandosi le unghie, poi mi sorride:- Grazie.

- Capisco che parla della cura tetto senza fili.

Angelo la prende di nuovo male e dice che se Romano si porta la mignotta ce la faremo a turno. Questa sua predisposizione all'arroganza fa più mafia che comunismo.

Isabelita non capisce l'italiano ma capisce l'antifona e ci vuole l'insistenza di tutti per convincerla a partire. Insisto anch'io ma mi chiedo che farà nel frattempo la vecchia madre inferma dietro la tenda. Chissà se Romano ha sollevato quella tenda...

Prima di lasciarci alle spalle Madrid, Romano ci porta da un altro russo bianco. Tre baci e russo fitto a catinelle. Stavolta il bianco è un intellettuale e possiamo chiedere consigli sul nostro lavoro (è la prima volta che lo chiamo così) e lui leva alte due dita: non dobbiamo perderci Ronda e Moron de la Frontera.

Tracciamo sulla carta il nostro itinerario, passando per la Mancha.

Mi guardo nel retrovisore traballante del nostro furgone: ho la barba da radere e sono cotto dal sole. Ho la faccia del coraggioso cinematografaro delle savane. Sento che racconterò questo viaggio quando mi chiederanno come sono entrato nel mondo del cinema.

CAPITOLO XI

Adesso fa caldo. Non possiamo aprire i finestrini perché dalla strada si leva una farina bianca finissima che penetra dovunque. Il Volkswagen batte sulle balestre e noi battiamo sui nostri ammortizzatori naturali.

Isabelita è eccitata: manca dalla sua terra da quando era bambina. Angelo la guarda e noi guardiamo lui che riprende il contegno duro:

- Quando una è puttana è puttana e basta. -

Gli copriamo la voce con urla di entusiasmo perché contro il cielo bianco latte sono apparse le grandi braccia rotanti dei mulini. Se la Mancha era così anche ai tempi di Don Chisciotte, il poveretto aveva questa polvere negli occhi quando li scambiò per giganti.

Isabelita ci guida al suo villaggio. Poche case, una gigantesca assurda chiesa. Gente lacera si avvicina con grandi occhi scuri spalancati, come tanti pierrot, su facce di farina, e un pretone obeso con la tunica lucida di sovrapposte patacche di unto. Isabelita salta nel bianco della strada e la gente la fissa imbambolata: una donna con le brache! Il pretone si fa un mezzo segno di croce e Isabelita gira intorno uno sguardo che si riempie di lacrime.

Il prete ci chiede chi siamo e Isabelita lo fissa emozionata, balbetta che siamo italiani e che veniamo da Roma. Di sè non parla. La parola Roma ha un grande effetto e Alberto tira la manica di un ragazzino indicandogli Romano: quello è il figlio del papa.

- El hijo del papa! El hijo del papa!- la voce si allarga ai campi bianchi e le pale dei mulini sembrano girare più in fretta. Roberto tira fuori una moneta da cento lire della Città del Vaticano e la regala al prete affogato nel grasso rubizzo.

L'intunicato la esamina con sospetto, poi con meraviglia e avidità. Se la può tenere? Ma certo. Il figlio del papa non bada a simili piccolezze. Romano è attorniato da donne e bambini e sa stare al gioco. Mostra la chiave del coppedè che assomiglia nella sua follia liberty a quella di Pietro. Tutti si inginocchiano e vogliono baciare la chiave di via Dora 2. Non possiamo impedirlo. Il pretone ci benedice.

Non ha nessuna importanza l'oggetto della fede, importante è la fede in se stessa. Angelo è l'unico che vorrebbe intervenire: lui è ateo e... Alberto e Roberto lo portano di peso verso un mulino per mostrargli la prossima inquadratura.

Il prete grasso ruspa come un gallo in un pollaio. Tutti corrono ai suoi cenni sgarbati e imperiosi: a lui deve parere normale che il papa abbia figli a spasso per il mondo.

Arriviamo a Cordoba che è buio. Siamo molto stanchi e ci fermiamo in un piccolo albergo. Sorge il problema di Isabelita. Angelo insiste che dobbiamo fotterla tutti. Roberto lo sbatte su un letto con inaspettata forza e gli punta un dito contro:

- Se provi a fartela, mi ti faccio io!-

Finiamo tutti per annegare gli istinti in un mare latteo di orchata de Chuffa.

C'è un manifesto appeso in una bacheca in fondo al caffè: domani grande corrida con los mejores toreadores de Espana.

Io e Romano vogliamo entrambi una corrida nei nostri documentari.

Alle quattro de la tarde ci presentiamo a Cabras, nell'arena. Il pubblico ha già riempito la tribuna al sole, quella che costa meno. Nella "sombra" ci vanno i ricchi: per lo più stranieri e potenti del regime.

- Somos un grupo de jovenes estudiantes del Centro Esperimental de Cinematografia de Roma...- la tiritera in spagnolo ha un suono buffo pronunciata da Romano con le labbra spesse e le p carnose. Ma ci dicono di no. Per riprendere una corrida ci vuole l'assenso dei toreri che non amano essere fotografi da incompetenti.

Romano sventola un foglio che ha ottenuto a Madrid da non so quale autorità estiva su cui c'è scritto che "en nombre de Dios e di S.E. el Generalissimo Francisco Franco" tutta la Spagna deve collaborare con noi. Uno dei toreri sputa a terra ostentatamente. Romano esalta il suo accento argentino e sostiene con faccia da Ustinov di essere uno specialista sudamericano in film sulle corride.

Lo fissano negli occhi e gli credono. Ci fanno entrare nel callecon, che è quello stretto anello che separa la palizzata mobile (ma io credevo che fosse fissa) dalle tribune, al sicuro in alto oltre tre metri di muro. Nel callecon ci siamo noi, i banderilleros, gli addetti all'arena e qualche agente in divisa.

Angelo apre il cavalletto che con le sue tre gambe blocca completamente il passaggio. Io gli passo la macchina da presa e Alberto tiene la batteria. L'orchestra prorompe nelle note di annuncio. La giuria è in piedi. Entrano i toreri coi boys delle quadriglie. La folla applaude fragorosa.

Il primo a misurarsi col toro sarà un rejoneador, un torero a cavallo.

Angelo innesta i cavi nella batteria che mi passa Alberto e si affretta a cercare la migliore inquadratura. Nel silenzio improvviso il primo toro irrompe nell'arena.

Io quando si dice toro penso a un toro come ne ho visti tanti sui pendii delle Alpi. Il marito della vacca. Un bue con le palle. Qualche volta da noi si dice vacca troia, ma ai tori non importa.

Questo invece è una belva sbucata direttamente dall'inferno, sembra un mastino ingrandito cento volte che dimena furibondo immense corna, infilzando l'aria e schiumando dalla bocca. Questo ha sicuramente saputo che vacca troia e gliene importa.

Si ferma un attimo, massa di muscoli coperta di pelo bruno, raspa la sabbia e soffia dalle froge (se dicessi che soffia dal naso sembrerebbe raffreddato), poi si scatena. Piomba a testa bassa contro la palizzata e scopro che essa è mobile e mi sento gelare l'osso sacro. Le corna appuntite fan volar via le assi infilate nelle scanalature dei pali di sostegno. La belva salta le rovine della palizzata e piomba nel callecon a trenta metri da noi. Alberto, che mi sta dicendo che non dobbiamo mostrare di aver paura, si interrompe.

La realtà si frantuma in lampi di terrore staccati e accecanti: le corna del toro che corre verso di me sono larghe quanto il corridoio. I pantaloni di Alberto sono bianchi e fasciano il suo culo in alto, tre metri più in alto, teso nel titanico balzo per arrivare alle tribune. Romano, Giuliano e Roberto hanno sublimato. Direttamente in vapore. Il volto di Angelo, bloccato anche lui come me, tra cavalletto, cavi e batteria, è color noce acerba con sciroppose gocce viola che scolano verso le guance. Il toro arriva come una locomotiva, sento anche il fischio. Un grido di orgasmico raccapriccio scortica le gole del pubblico sanguinario, tutto in piedi. Una voce stridente, rauca, proveniente da lontani spazi di disperazione, mi sussurra nelle orecchie:

- Io ggggiiiro....-

Angelo ha il dito bianco sul grilletto della macchina da presa e sento ronzare l'Arriflex. Lo sente anche il toro e si blocca davanti a me. Una fragile gamba del cavalletto e un metro d'aria ci separa. Mi fissa con occhi avvolti in una rete di sangue, occhi di chi sa di dover morire e che ha mutato il terrore in rabbia omicida. Il tempo si distende in tutta la sua relatività.

Il culo bianco di Alberto è sospeso immobile sorretto dalle mani degli spettatori che lo trascinano verso l'alto. L'arena rimbomba come una chiesa. Vedo la mia bara, le corone e gli amici della Magna e Bevi che cantano a squarciagola sull'aria di Toreador, la famosa canzone di un vecchio film di Totò:

"Toreador fate 'nlà ch'ai riva al tor

se 'tsauta adòs, at fraca i iòs!"

(Torero fatti in là che arriva il toro,

se ti salta addosso, ti frantuma l'ossa!)

Agenti, toreri, banderilleros si son messi in salvo saltando dentro l'arena.

Adesso il toro ci incornerà uccidendo brutalmente due jovenes estudiantes del Centro Esperimental de Cinematografia de Roma...

Il fiatone della belva puzza di morte e mi perdo nel suo sguardo appannato di follia.

Un torero agita qualcosa di rosso al centro dell'arena. Il toro, solenne come un monumento, gira la testa rigando il muraglione con le corna. Subito torna a fissarmi. Io non mi sono mosso! Giuro, non mi sono mosso! Il toro non pare convinto ma dà un'altra occhiata verso quei fortunati mattatori boia che sventolano drappi in mezzo alla sabbia: sceglie loro e salta.

Simile ad un gigantesco grillo supera lo steccato e galoppa sgropponando contro i suoi assassini. T'amo, o pio bove.

Angelo ha il dito paralizzato sul grilletto dell'Arriflex che continua a ronzare nonostante che la pellicola sia finita. Io riesco a girare la testa per guardarlo e i muscoli del collo mi fanno male, come se tornassi a muoverli dopo un periodo di catalessi.

Un lungo frenetico rombante applauso. Pubblico e giuria son tutti per me e Angelo. Qualcuno ci lancia il cappello. Donne ci lanciano fiori.

Siamo rigidi di paura ma da lontano possiamo sembrare impassibili e l'applauso si intensifica.

Mi sciolgo. Il corpo mi formicola. Anche Angelo drizza di scatto il dito e l'Arrriflex si ferma. Ci scambiamo un'occhiata indagatrice e poi un timido sorriso per complimentarci di essere ancora vivi.

Il toro intanto vien preso in giro con le capas e i picadores gli fanno i primi crudeli buchi. Il rejoneador viene a stringerci la mano. Riesco ad articolare le dita e ricambio la maschia stretta. Il torero mi fissa con occhi grigi e ridenti e mi dice spagnolesche frasi di elogio. Ringrazio con un piccolo cenno della testa.

Alberto, Romano, Giuliano e Roberto si stringono intorno a noi, un po' imbarazzati per la fuga. Roberto mi dà una manata:

- Che matti! Per fare un primo piano al toro per poco non vi facevate sbudellare. - Visto che questo è il copione, recito anch'io:

- In fondo cos'è un toro? Il marito di una vacca. - E mi devo inchinare alle autorità che stanno venendo a congratularsi con un eroico esponente del gran pueblo latin.

- Noi del cinema ignoriamo il rischio quando si deve fare una buona ripresa.- Bacio la mano alla moglie dell'alcalde cercando di ascoltare quello che ho detto: noi del cinema.

 

CAPITOLO XII

Isabelita ci lascia. Ha finito i soldi e non vuol pesare su di noi. Piange e ci abbraccia. Dice che le abbiamo dato una cosa che pensava di non poter più avere da nessuno: il rispetto. Ci sentiamo troppo buoni, a disagio.

L'accompagnamo alla stazione di Siviglia. Sotto le antiche arcate volano pipistrelli. Un'immagine d'addio molto triste.

La piccola Isabelita torna a Madrid a fare la puttana. Ci saluta con le guance bagnate di lacrime affacciata al finestrino.

- Non ti abbiamo dato i nostri indirizzi!-

- E il tuo? Com'è il tuoooo?-

Il treno sbuffa e se ne va e Isabelita fa di no con la testa. Ha ragione lei. Non ci vedremo mai più. Inutile illuderci che l'addio sia un arrivederci.

Guardo quel treno che si allontana e mi sento pesante dentro.

Io ho un treno che mi attraversa il sonno prima che diventi sogno. Un treno di infiniti vagoni che sta lasciando una stazione. Il treno corre laggiù, nella nebbia dei binari lontani, ma il vagone davanti a me è ancora fermo. Il penultimo si muove appena, il terzo è in movimento lento. Via via più veloci gli altri. Dai finestrini centinaia di persone mi salutano meste. Sono quelli che hanno dovuto partire prima di me. Da un vagone lontano come la mia infanzia mio padre mi fissa immobile, poi la nonna che agita la sua vecchia mano con le dita curve per l'artrite, il nonno coi bianchi baffi arrogantemente girati all'insù, e poi tutti gli altri. Quel mio amico di Biella morto di cancro sta quattro vagoni più in là. La sorella di un mio compagno di scuola morta sugli sci è al finestrino accanto. Blasetti è salito da poco e Sergio Leone è ancora sul predellino.

Il mio treno della notte continua a srotolarsi verso l'infinito portandosi via facce. Facce che non conosco e facce che ho amato.

Isabelita si sbraccia nella caligine dove i binari si toccano. Addio.

Angelo soffoca un singhiozzo. Lo derido con rabbia: eccolo il duro! Piange come uno...

- Anche tu piangi.-

Mi porto una mano al viso e sento bagnato. Guardo in su ma non piove.

Piove di nuovo, governo ladro. Qui dicono tutti Franco cabròn, llueve otra vez.

Seguendo il consiglio del russo bianco di Madrid ci rompiamo i coccigi sui crateri pantanosi del farwest spagnolo puntando verso il Portogallo.

Per ore davanti ai nostri occhi imbolsiti sfilano vigneti sfoggianti grappoloni d'uva. Dev'essere la vigna di Noè e Noè sarà sbronzo sommerso da questo mare di foglie. Stanchi assetati e affamati fermiamo il furgone e scendiamo stiracchianti e gementi a staccare qualche succoso chicco. Il succo del primo chiccolone grande come una prugna mi sta addolcendo le papille che due buchi di doppietta mi guardano dritto negli occhi. Quel bastardo di Noè s'è svegliato proprio adesso. Irsuto, sporco, con occhi sfavillanti di sdegno, tiene il dito sul grilletto.

Da dietro il Volkswagen azzurro paradiso, una voce di testa, strozzata dalla paura, tenta un a solo:

- Siamo italiani!...-

- Nosotros somos un grupo de jovenes estudiantes del...- Noè non sta a sentire Romano, mi tocca con la canna del fucile affinché mi scosti e guarda la targa del furgone:

- Ro...ma...- compita con difficoltà, la gola impolverata per il non uso. Abbassa la doppietta e i suoi occhi si fanno dolci come la sua uva. Viva la motorizzazione! Alla faccia dei milanesi che vorrebbero la nostra targa ridotta a RM! Noè lascia cadere il fucile e si tuffa nel mare verde aprendo un varco rosso di terra. Ne riemerge come Bacco, con pampini fra i capelli paglia di ferro e le mani colme di grappoli. Parla una spagnolo smozzicato, incomprensibile per noi. Anche Romano deve concentrarsi per capire. Poi lo abbraccia spremendo il primo vino.

- Russo bianco?- biascico incredulo con la bocca piena d'uva.

Romano scuote la testa e ci esorta a tornare sul furgone. Carichiamo l'uva mentre Bacco-Noè scatta sull'attenti, fucile in spalla e leva alto dritto inequivocabile il braccio destro in un saluto romano. Angelo, pronto, tende il suo pugno comunista fuori dal finestrino. L'uomo si gonfia come un rospo e la doppietta torna in linea di tiro.

Roberto sibila al nostro direttore della fotografia:

- Apri quella mano o chiudo la mia!- lo afferra per le palle e stringe. Angelo con una smorfia di dolore apre. Quando mostra un bel palmo disteso, Roberto molla la presa. Il vignaiuolo è di nuovo sull'attenti e ci urla dietro:

- Du..ce, du..ce, du..ce!-

Angelo è furibondo. Siamo degli sporchi fascisti. Portiamo a spasso mignotte e ce le scopiamo di nascosto per sfottere lui che è comunista. Abbiamo vent'anni mentre lui ne ha ventinove e non più ha tempo da perdere.

Nei favolosi anni Cinquanta, l'accusa di sporco fascista fa ridere perché il fascismo sembra morto per sempre, è come se ci desse del ghibellino. Le bombe di piazza Fontana devono ancora scoppiare.

Le manifestazioni del fascismo spagnolo sembrano scene in costume per ricordarci l'infanzia.

Romano, che a tratti si ricorda della sua parte russa, dichiara che Angelo ha ragione: non stiamo guardando le cose nel modo giusto. Il popolo spagnolo è oppresso da un'orrenda dittatura nata dal mare di sangue della guerra civile. Dobbiamo far parlare la gente e non accontentarci degli innumerevoli cabròn con cui onorano il loro duce.

Nessuno fiata. Siamo colpevoli. Se riusciamo ad arrivare a questo benedetto Moron de la Frontera, approfondiremo.

La notte, monotona come sempre, cala. E cala anche una una pioggia da Noè. I fari fanno brillare l'acqua sulle vaste foglie delle viti. La strada si è fatta sentiero e a volte svanisce totalmente nell'impasto di fango rosso. Dobbiamo scendere per cercare le tracce dei solchi di chi ci ha preceduto. Là dove i vigneti diradano e non fanno siepe la strada diventa ipotesi.

- Forse troveremo scritto "Chiuso dal 1936"- mugugna Alberto rientrando bagnato fradicio da una esplorazione con la torcia. Sembra proprio che da qui non passi nessuno da decenni. La velocità del tedesco è di trenta orari e ficca il muso nelle pozze di acqua rossa come un Panzer, riemergendone con fragorosa prepotenza.

Alle undici sobbalziamo su un selciato, segno di civiltà e dopo pochi minuti Roberto spegne il motore al centro di uno spiazzo irregolare circondato da case.

Come fantasmi dal limbo, facce bianche di bambini aderiscono torcendosi contro i nostri vetri appannati. Facce dai grandi occhi su cui colano acqua ciocche di capelli spalmate sulla fronte. Sensazione da fantascienza. Siamo scesi con l'astronave targata Roma e gli alieni ci scrutano dagli oblò.

Romano rompe il silenzio e cala un vetro, portandosi giù la striatura del moccolo di un fantasma:

- Nino, ay un hotel aquì, por favor?-

Le facce pallide arretrano: quelli dell'astronave parlano! Labbra esangui scoprono piccoli denti irregolari. Un tinnìo metallico vibra nello scrosciare costante della pioggia: forse ridono. Due dei piccoli scolanti acqua indicano una casa sgangherata alle nostre spalle, poi svaniscono in un turbine di vento.

Roberto fa marcia indietro e accosta il furgone alla casa. Non sembra un albergo e nemmeno una locanda. Una porta fuori squadro lascia passare un pò di luce.

Romano, armato del suo spagnolo, va in avanscoperta riparandosi i riccioloni con le mani. Spinge la portaccia e la spalanca traendone un accordo draculiano. Guarda dentro e ci fa cenno di seguirlo. Guadiamo la palude che ci separa dall'ingresso ed entriamo con le scarpe infangate.

La cupezza di Bergman e la follia di Fellini sono impastate in questo patio chiuso da una cupola vetrata. Un vetro è rotto e piove dentro. Al centro del patio si è formato un lago tutto seni e golfi la cui profondità è ben segnalata da una sedia a dondolo che si muove creando onde come un catamarano. La sedia è al centro del lago, proprio là dove cade la pioggia e dondola una vecchia centenaria dalle belle gengive rosse scossa da un continuo riso senile. Le mani in corteccia di quercia muovono quattro ferretti da calza e del filo bianco. Un grande ombrello nero la protegge ma anch'esso è rotto e gocce d'acqua le colano sul volto rugoso bagnando il suo riso querulo. Superiamo il patio cabotando, lo sguardo fisso sulla vecchia dondolante, ninfa dimenticata in mezzo ad uno stagno postmoderno.

Aldilà ci sono dei tavoli.

Abbiamo in pugno le nostre valigie col necessario per la notte e abbiamo una fame arretrata, stordita con chili d'uva.

Una pallida ragazza di forse quattordici, forse ventiquattr'anni, ci corre incontro spettrale proveniente da profondità buie nascoste da un tendone unto. Romano sfoggia il suo sorriso da cucciolo bisognoso che fa impazzire le donne e chiede se possiamo mangiare e dormire.

La quattordici/ventiquatrenne annuisce poi si mette una mano davanti alla bocca e ride. Corre ad apparecchiare un tavolo.

Mi guardo intorno perplesso: siamo soli. Purché non ci dissanguino nel sonno. Roberto chiede a Romano se Dracula fosse un russo bianco. Romano è sensibile sulla Russia, si arrabbia sia che si parli male degli zar che di Stalin e sorride con l'aria di chi sa ma non può dire se qualcuno parla del rapporto Krusciov che è stato sciorinato al mondo nel felice marzo di questo 1956.

Alberto ci delizia con la storiella delle tre lettere lasciate da Stalin e Angelo mugugna infastidito che se Stalin ha ammazzato un po' di gente avrà avuto le sue brave ragioni.

Romano ripete il sorriso enigmatico e si alza per cercare un posto in cui fare pipì.

Arriva la zuppiera fumante e di nuovo la ragazza dall'età indefinibile ha uno scoppio di risa. Dev'essere una malattia di Moron de la Frontera, forse c'è una zanzara che dà la buonaria.

Con l'umidità che permea i muri di questo ninfeo un bel brodo caliente è benvenuto. Ci riempiamo i piatti e Roberto ne aspira una cucchiaiata rumorosamente, con gran gusto: dentro, fuori, rumorosamente e con gran disgusto. Si tampona disperato la bocca col tovagliolo. Alberto sogghigna:

- Il brodo bollente lo si piglia così! O che non t'ha insegnato niente la tu' mamma?- stende tutto l'accento senese e poi aspira da un buon centimetro di distanza dal cucchiaio creando una minitromba di brodo.

Dentro fuori con pressione spray.

Roberto si torce dal ridere. Alberto sputa brodo e bestemmie pulendosi la lingua col tovagliolo. Annuso la brodaglia. Odore caratteristico, non ho bisogno di assaggiare: è purissima sciacquatura di piatti.

- Se lavaste i piatti un po' più spesso invece di farli lavare sempre a me, avreste riconosciuto subito questo odore.-

- Facciamo uno scherzo a Romano - propone Giuliano versando il suo brodo in un vaso di foglie d'ortica che si torcono dal disgusto. Allaghiamo i vasi e poi fingiamo tutti di raccogliere col cucchiaio le ultime gocce dai nostri piatti ancora fumanti: che buono! Favoloso! Meglio che alla Maison Candido!

Romano si siede felice: i suoi amici russi bianchi danno sempre informazioni perfette e si ficca in bocca una cucchiaiata colma colma. Leviamo alti i tovaglioli facendo provvidenziale barriera allo sbruffo cosacco e cospicuo.

Chiamata dal vocione possente di Romano la ragazzotta accorre intimidita. Guarda i piatti vuoti e a tratti il riso affiora sulla sua faccia preoccupata. Romano dice qualcosa in spagnolo veloce e dal telone emerge una maitresse dal deretano possente sventolando tre strati di gonne. Si rivolge con aria da padrona a Romano e dice qualcosa che suona secca come la scarica di un mitra.

Romano ci guarda e stira le labbra in un sorriso freddo che significa: ragazzi, sto nella merda anch'io.

Da mangiare non c'è altro. La maitresse sperava che la densa ben condita sciacquatura dei piatti ci avrebbe fatto pensare ad una specialità locale. Per dormire, una stanza c'è, piccola senza finestre e con un lettino. Gli altri si possono arrangiare nella veranda e nel cortile.

Tiriamo a sorte e a Romano tocca la stanza, a me la veranda e a tutti gli altri il cortile.

Siamo molto stanchi e Romano ci saluta sventolando il pigiama. Io seguo, pieno di sospetto, la ragazza spettrale che fa luce con un moccolo di candela. Attraversiamo corridoi ammuffiti che danno in corridoi silenti e sbuchiamo su un balcone coperto. Qui c'è luce elettrica e illumina il letto che occupa tutto il balcone. Sulle lenzuola bagnate ci sono orme fangose di scarpe, orme fresche che vanno e vengono. Le indico indignato allo spettro senza età che soffia sul moccolo e poi sale sul letto, lo attraversa per arrivare ad un armadio e prendere una coperta da stalla. Ripassa sul letto e se ne va, lei, moccolo e coperte. Prendo l'impermeabile dalla valigia e lo stendo sul letto, poi mi ci sdraio sopra vestito. Un lampo squarcia il cielo e spegne la lampada opacizzata da cacche di mosche. Un tuono furibondo tenta di spaccare i vetri della verandina.

Si leva un vento feroce che la fa vibrare traendone fischi e ululati. Una goccia cade ritmica sulla mia fronte. Mi sposto. Una goccia cade ritmica sulla mia guancia. Mi sposto ancora.

La tempesta crea suoni di voci. Grida di strazio portate dal vento. Chiudo gli occhi per dormire e salvo la pupilla dall'allagamento di una goccia dal ritmo di caduta più lento delle sorelle. Forse dovrei protestare con la direzione.

La pioggia diventa diluvio e le gocce si fanno ruscelli. Non è più possibile resistere.

Con la valigia in pugno e l'impermeabile sulle spalle inizio il viaggio nel buio. Nei corridoi umidi non arriva la luce dei lampi ma il buio amplifica paurosamente il rombo dei tuoni. Mi aspetto il Minotauro ad ogni angolo. Mi manca improvviso il pavimento sotto le scarpe e faccio una traditrice rampa di scale col fondo dell'anima. E in fondo c'è acqua, non Carlos Primero. Un lampo penetra azzurro da un finestrino mettendo in fuga ombre nere infernali. Ho visto una porta e mi butto da quella parte. La spalanco. Vento e pioggia mi schiaffeggiano brutalmente. Una gallina gorgheggia spaventata. Sto per richiudere ma una voce cantante sovrasta le urla della bufera:

-...queste son le nostre grazie, questi sono i nostri doni, lèvati dai coglioni, tanto in culo, tanto in culo ti si va!-

E' Alberto. Mi metto l'impermeabile sulla testa e corro fuori. Oltre la cortina di pioggia, un lampo illumina a giorno una tettoia chiusa da un telone, come la bocca di un palcoscenico. Sollevo il sipario ed entro nella stanza dei quattro più sfortunati di Moròn. Un grande letto in ferro battuto accoglie Giuliano, Angelo, Alberto e Roberto, completamente vestiti e intirizziti, stretti per scaldarsi cercando di evitare imprevedibili cascatelle d'acqua che li inondano dopo essersi raccolte nei teli catramati che fanno da tetto. Su uno dei pomi del letto c'è un protervo gallo che mi starnazza in faccia. Lo colpisco con un pugno costringendolo ad una fuga spiumata. I quattro mi guardano e ghignano:

- Come mai non riesci a dormire?-

La tettoia è foderata di antichi scenari teatrali. Ne sollevo un lembo e scopro fiorenti colonie di scarafaggi andalusi, cornuti come tori da combattimento.

Un colpo di vento alza un lembo del telone sipario e mostra la vecchietta dalle gengive rosse che attraversa lentamente il cortile, apparentemente insensibile allo scrosciare della pioggia. Ha una camicia da fantasma, lunga fino ai piedi e l'acqua gliel'appiccica addosso segnandone lo scheletro. Impugna un fumante vaso da notte. Compie la traversata scossa da piccoli scoppi di risa e vuota il vaso in una buca.

Aspettiamo che lo scheletro portacacca torni all'inferno e poi sciacquiamo fuori.

Il furgone immobile accanto alle antiche mura sembra cosa venuta da un altro mondo. Con la pioggia che ci esce dai pantaloni e dalle maniche ci avventiamo verso quel brandello di civiltà.

- La chiave ce l'ha Romano.- geme Roberto dopo aver sommozzato nelle proprie tasche.

- Io dentro non ci torno.- si ostina Alberto appoggiandosi al muro e alzando la faccia per farsela lavare dalla pioggia. Un lampo bianco solarizza Giuliano:

- Cerchiamo un altro albergo. - E' un'idea brillante.

Rasentiamo teorie di catapecchie sghembe che ci ruscellano acqua a tradimento, saltellando sui sassi irregolari del selciato. Una luce! Un bar!

Entriamo correndo e dentro è caldo, asciutto e pieno di gente. Tutti maschi. Bevono, fumano e giocano a carte. C'è un allegro livello di rumore umano. Roberto si sgrulla esclamando ad alta voce:

- Eccoli qui tutti i bischeri del paese!- Un uomo grasso, basso e pelato lo serra con lunghe muscolose braccia pelose. Lo scuote con preoccupante facilità e singhiozza:

- Paesà!-

Piange e ride e parla napoletano stretto. Par di capire che sia il proprietario del locale e che da vent'anni non vede un italiano.

- C'è un buon albergo?- grida Roberto liberandosi dalla stretta. L'oste stringe me che mi sento subito mosca e annuisce: c'è un solo albergo a Moròn, un buon albergo, giù in piazza. Indica da dove siamo venuti.

Il buon ragno ruota le sue mani pelose e spinge verso il bancone per offrirci da bere: perché siamo venuti a Moròn?

Ci scambiamo un'occhiata rassegnata: già, perché?

- Siamo qui per un documentario. Vogliamo far conoscere al mondo le bellezze di Moròn.- ironizza Giuliano che si merita in risposta un abbraccio di entusiasmo.

Gioia purissima brilla negli occhi umidi del nostro anfitrione che ci spinge fuori sotto la pioggia: la cosa più importante della città ce la vuole mostrare subito.

Cerchiamo invano di rifiutarci. Due passi! E attacca, caprino, una stradella in salita tutta ruscelletti e cascatelle. Gli arranchiamo dietro per dieci minuti mentre la pioggia cala per compassione.

Arriviamo su uno spiazzo buio. Forse di giorno si vede un panorama. Il napoletandaluso ci spinge verso un obelischetto alto pochi metri che indica disperato il nero cielo incombente pieno di brontolar di tuoni e gocce ritardatarie volanti sul vento.

Tira fuori una torcia e la punta sull'obeliscucolo: c'è qualcosa in bronzo lassù, una cosa piccola che sembra... sembra un pollo!

Sì, un pollo senza penne immortalato con le alucce tese e le zampette divaricate in un'assurda disperata fuga.

L'andalonapoletano si gonfia di orgoglio e cerca sui nostri volti lavati un compiacimento che nessuno riesce a fingere.

- El gallo de Moròn!!- e la doppia elle di gallo ha il suono bagnato dello spagnolo.

- Forse ha assaggiato il brodo dell'albergo...- azzarda Angelo ingrugnato. Il morondelafronteragno scambia la nostra costernazione per attonita ammirazione e si lancia nella spiegazione storica del monumento.

Nel settecento l'imperatore mandò un certo signor Gallo a Moròn per riscuotere le gabelle. I cittadini lo spogliarono nudo e lo fecero fuggire a colpi di frusta. Da allora la gente di Moròn non paga tasse e il monumento ricorda l'eroico evento.

- Peccato che si chiamasse Gallo. Se si chiamava Stronzo adesso il paese avrebbe il monumento giusto. - commenta Alberto collassando giù per il sentiero affidandosi alla forza di gravità.

Chino la testa stanchissimo e mi lascio andare anch'io verso il fondo valle, badando a non cadere sulle gambe molli d'acqua e di stanchezza. Quando il piè fermo è sempre il più basso, sento ronzarmi nella testa un pensiero fastidioso: non ci saranno modi più agevoli per entrare nel mondo cinema?

 

CAPITOLO XIII

L'alba lotta invano con le nuvole nere del temporale che continua a rimuginare tuoni da colica intestinale.

- Qui l'alba non biancheggia, scureggia.- commenta Angelo.

Andiamo in gruppo a svegliare Romano tirandolo giù dal letto. Col culo sul pavimento bagnato ci guarda coi suoi occhi grigioverdinocciola: la chiave del furgone? Ma perché non ce ne andiamo a dormire ancora un po'?

Intuisce violenza sulle nostre facce perché si infila le brache sulle mutande bianche col gambalino. Roberto fa asciugare il motore con robuste accelerate e Giuliano consulta la carta dell'Andalusia.

- Per arrivare a Ronda...-

Angelo dà una manata sulla carta: non vorremo ancora seguire i consigli di quel russo disertore di rivoluzioni!

Romano si indigna subito: nell'albergo si stava benissimo e ce ne stiamo andando con troppa precipitazione.

Alberto tenta di precipitarlo fuori dallo sportello. Metto pace: dobbiamo andare a sudest per puntare su Malaga e Granada, e Ronda è di strada. Se sarà un incubo come Moròn tireremo dritto.

Tutti acconsentono meno Angelo: si va a Ronda. Il sole scioglie le nubi, le foglie dei vigneti brillano lavate di fresco e mettono allegria.

E' mezzogiorno quando il furgone saltella felice sulla strada principale di Ronda. Una grande profondissima crepa divide in due la città: el Tajo. E' un burrone profondissimo le cui sponde sono unite da tre ponti: uno fenicio a schiena d'asino, uno romano dai grandi archi imponenti e uno elegante settecentesco su cui il grupo de jovenes estudiantes del Centro Experimental de Cinematografia de Roma si sta riempiendo i polmoni di aria profumata e gli occhi di colori gioiosi. Il sole, il Tajo, le case, le facce della gente, questo sembra un altro pianeta. Moròn forse è un incubo da indigestione di sciacquatura di piatti.

Abbiamo una fame maiuscola ma Roberto si ferma davanti all'ufficio del Turismo. Entriamo con la nostra lettera del caudillo. Il delegato provinciale è un ometto dai capelli grigi, vispissimo e simpatico. Ci stringe la mano con calore e si presenta: don Francisco de Assis Lopez y Diaz. San Francesco! E gli vediamo l'aureola quando in pochi minuti ci trova una locanda in cui si mangia e si dorme con quaranta pesetas a testa, ci promette che ci farà filmare il castello dei marchesi di Salvatierra e ci fornirà gratis le ragazze nobili della città vestite coi costumi tradizionali per le riprese dei balli folcloristici e infine ci invita a gustare copitas al Casino de los Artistas.

Meglio dire ad Angelo che casino sta per piccola casa.

San Francesco ci presenta un po' di bella gente. Un signore sorridente mi stringe la mano e dice:

- Sono così lieto che siate venuti. Finalmente gli amici la finiranno di prendermi in giro. Ho studiato italiano per otto anni e non ho mai avuto occasione di parlarlo, così qui nessuno crede che io l'abbia imparato. All'idea che sareste anche potuti non venire mai, io...- si blocca impaurito e chiede esitante:- Lei mi capisce, vero? Forse il mio accento non è molto buono ma....-

Siamo rimasti a guardarlo pensando ad uno scherzo, poi lo rassicuriamo: parla italiano meglio di noi.

Ci invitano subito a pranzo in tre e gli altri protestano: ognuno vuole essere il primo ad averci come ospiti e non vuole dividere l'onore con gli altri.

Si accordano a fatica con una lunga lista di prenotazione.

Finalmente a tavola. Cominciamo con gamberetti in salsa andalusa, lumache in su tinta, gazpacho e continuiamo con paella alla Valenciana, cochinillo asado, uova in salsa e pesce in carpione.

Alberto distende le gambe sotto il tavolo:

- Questo è il paese nostro. E chi torna più a Roma.- Ha espresso il sentimento di tutti, perfino Angelo annuisce con la testa bionda e la bocca piena.

Qui vivono due razze ben separate: ci sono i nobili alti dalla pelle bianchissima e liscia, capelli corvini e grandi occhi ovali e scuri. Sono vestiti con giacca e cravatta, cappello o paglietta e spesso hanno i guanti. Sono pochi. Gli altri invece sono piccoli con la pelle butterata color cuoio, occhietti tondi neri vivacissimi, capelli ispidi quasi africani. Hanno addosso un po' di tutto tranne vestiti. I bambini sono spesso infilati in sacchi di juta con buchi per le braccia e le gambe. Sono coperti di mosche. Sono tanti. Pepito è uno di questi, avrà otto o nove anni. Non ha genitori né casa, ha crosticine intorno agli occhi e dorme in uno dei tanti buchi tufacei del Tajo. Ci avvicina sperando di rimediare qualche centesimo. E' informatissimo del posto e prontissimo ad ogni servizio. Decidiamo di assumerlo per il tempo che staremo a Ronda: cinque pesetas al giorno più vitto e alloggio. Ci guarda incredulo. Forse ci vede con l'aureola come noi vediamo don Francisco de Assis.

Mi insegna lo spagnolo, mima le scene e dice le parole.

Dopo una mattinata di riprese nel bello ma faticossisimo Tajo, torniamo alla nostra locanda per pranzare. Hanno apparecchiato un grande tavolo per sei. Pepito però fa sette. Ci servono una zuppa fumante e il settimo piatto lo posano a terra, su uno scalino. Pepito, abituato al trattamento, si accoccola affamato accanto al piatto. Tutti e sei ci alziamo in piedi indignati.

I gentilissimi proprietari ci guardano esterrefatti: davvero vogliamo che quello sieda a tavola con noi?

- Ma è un bambino, non è mica un cane!- Roberto va a sollevare Pepito che non capisce e teme per la sua zuppa che Giuliano mette sul tavolo. Io prendo una sedia.

I padroni si affrettano ad aggiungere un coperto. Pepito ci guarda imbarazzato. Dobbiamo incitarlo, dargli qualche pacca cameratesca, far rumore col brodo e pian piano si sgela, tuffa il cucchiaio e aspira felice.

Camerieri e padroni mormorano fra loro e capto un "estan rojos", sono comunisti.

Nel pomeriggio, medio evo. Stiamo aspettando davanti ad un ponte levatoio. San Francesco è andato a parlamentare col castellano. Quando ci fa cenno di entrare, Roberto guida il furgone sui nobili legni scheggiati dagli zoccoli dei cavalli dei crociati. Nel cortile merlato i servi sono schierati su due file. In divisa e coi guanti bianchi. Li passa in rassegna il marchese, mentre su un lato attende una carrozza dorata carica di bagagli. Otto cavalli bianchi scalpitano, ben tenuti da un grosso automedonte gallonato.

San Francesco parla a bassa voce, come se fossimo in chiesa. Dice che il marchese di Salvatierra sta partendo per la villeggiatura ma ha dato disposizioni al maggiordomo di servirci e obbedirci come tanti marchesini.

Il feudatario non ci guarda, non ci vede, sale sulla carrozza e i cavalli trottano fuori. Il ponte levatoio romba sotto il peso giusto.

Siamo marchesi. Visitiamo il nostro castello. Sopra lo scalone c'è un Goya. Sui tavoli i posaceneri sono giallo brillante, difficile che sia ottone. Alberto ne soppesa uno e poi se lo ficca in tasca. Fatico a convincerlo che non è un gesto da marchese.

Dietro il castello il medioevo finisce bruscamente e si entra a Beverly Hill: una grande piscina a cuore, cespuglioni di fiori, spugne colorate, ombrelloni, bar su ruote, saune.

Dobbiamo girare una scena di ballo gitano e San Francesco ci ha promesso ballerine gratuite. Le pesetas cucite nella tasca posteriore dei miei jeans sono pochissime e anche il filo è quasi finito. Ho paura che non ci resterà neppure il denaro per la benzina del ritorno.

Le ballerine arrivano, strettamente accompagnate, vestite coi coloratissimi costumi di questa terra. Ce ne sono anche due bionde, dove non saranno arrivati i vichinghi?

Una ragazza castana esce nel sole. Un vortice prilla nel mio cervello, una sensazione tremenda di già vissuto. Sono ben certo di non aver mai visto questa ragazza eppure mi alzo, come in sogno, vado da lei e la prendo per mano. E lei lascia la sua mano nella mia. Non me la stringe, nè io avevo steso la mia per stringere la sua. La guido verso una piccola panca, in mezzo ai fiori.

I suoi occhi sono di velluto e io parlo spagnolo.

Giuliano mi guarda allibito, il labbrone inferiore pendulo. Ma ora esiste solo Luisa. Ci pensa Romano a girare la scena del ballo.

Gli amici mi diranno che sono rimasto seduto con lei, mani nelle mani, per tre ore. Lasciandomi Luisa mi ha dato appuntamento nella piazza e io aspetto davanti all'arena di Ronda, la più antica di Spagna. Siamo già popolari e molti ci salutano. Angelita, una delle due bionde, si avvicina e mi dice di non aspettare Luisa. Perchè? Ridacchia furbetta: Luisa è fidanzata e il fidanzato era con lei oggi pomeriggio. Si è offeso e il padre di Luisa ha deciso di non lasciarla più uscire fino a quando non ce ne saremo andati.

- E chi sarà mai 'sto padre!- sbuffo irritato e Angelita fa un passo indietro e mi dice altera:

- Es un general del generalissimo Franco!- mi volta le spalle e se ne va.

Alberto e Roberto han fatto più facili conquiste e mentre noi partecipiamo all'encierro loro si infrattano nel Tajo.

L'encierro si svolge nell'arena e la vaca non è una mucca ma un toro femmina che carica furibonda la folla che si diverte a scansarsi o a beccare cornate micidiali. Angelo riprende con l'Arriflex in mano e io gli corro dietro reggendo la batteria. Per due veterani come noi la vaca non è un problema.

Gli inviti a cena sono tantissimi, ma quello che ci fa Angelita ha un secondo fine: Luisa. Il generale non può proibire alla figlia di frequentare la nobilissima casa di Angelita Hinojosa e così possiamo rivederci. Ceniamo nel patio con tutte le porte spalancate in modo che i passanti possano controllarci: qui usa così quando ragazze nubili invitano ragazzi scapoli. Qui è tutto indietro di due secoli e permeato da aromi sottili di grazia che mi mettono addosso una curiosa sensazione di ritorno. Come un viaggio in un passato conosciuto.

Beviamo il vino liquoroso andaluso che mette subito allegria. Romano fa la corte ad Angelita e le posa una mano su una spalla. Angelita si irrigidisce. Guarda quella mano come fosse la zampa di un immondo insetto e dice seccamente:

- El mi novio...- in simultanea il mio cervello traduce:- Il mio fidanzato in tre anni non si è mai permesso tanta confidenza. Romano non naufraga su simili scogli e le sussurra che "el novio" non sa quel che si perde. Angelita non riesce a dominare il sorriso. Alberto richiama l'attenzione esclamando ad alta voce:

- Che vuol dire "me hace dano, sale un nino?"- i suoi occhi sono innocenti e le ragazze ridono per dieci minuti. Romano gli soffia la traduzione e Alberto si accende di rosso vergogna e viene subito soprannominato "bombilla", lampadina.

Me hace dano, sale un nino, in italiano suona più o meno così: mi fai male, nascerà un bambino.

Dopo cena la passeggiata. Io e Luisa davanti e tutti gli altri dietro. Riesco a sfiorarla con un bacio davanti al patio della villa della nonna.

Forse non la vedrò più. Angelita mi consola indicandomi le sbarre delle finestre che sono di foggia araba e panciute:

- Padri e mariti le han messe perché non ci potessimo affacciare, ma noi li abbiamo convinti a farle così.-

Capisco meglio la sera dopo. Il medico condotto ci ha invitati a cena in un ristorante. Siamo diventati amici, ci ha detto che guadagna solo 300 pesetas al mese ma ha insistito per averci suoi ospiti. E' un uomo molto intelligente e gli chiedo come sia possibile che la gente accetti ancora quel medioevo, per noi è affascinante ma il divario tra la miseria e la ricchezza è assurdo. Allinea sulla tovaglia sale pepe e curry. Dice: ricos, nosostros, los rojos. Adesso quella è la scala sociale, se dovesse esserci una rivoluzione ecco... sposta il curry al posto sale e indica il pepe rimasto sempre in mezzo: per la borghesia non cambierebbe niente. Il bagno di sangue della guerra civile è ancora troppo fresco e nessuno ne vuole un secondo. Non resta che aspettare che il caudillo muoia. Dopo, tutto cambierà.

La discussione si blocca: sono entrate Luisa e le altre ragazze accompagnate da una torma di fratelli. Il medico si alza di scatto e si muove per andarsene. Lo tratteniamo a forza. Con rabbia fredda ci spiega che i nobili in quel locale non hanno mai messo piede. Sono venuti soltanto perché ci siamo noi e questo lui lo considera un affronto. Non dobbiamo offenderci ma deve andarsene. Continuiamo a tenerlo per le braccia: ha pagato dei gitani e non hanno ancora suonato. I gitani attaccano una delle loro musiche indiavolate.

Luisa e gli altri nobili si sono seduti ad un tavolo in fondo al locale, non ci hanno neppure salutati. Luisa si alza e balla. I gitani si scatenano intorno a lei. Luisa balla e mi fissa mentre una gitana urla "esto che me sta pasando no se pasa naide mas!", c'è davvero qualcosa di magico in quello che passa tra me e questa appena conosciuta nobile andalusa. Il medico mi sibila nell'orecchio che sta ballando per me. E' uno scandalo, appena finita la musica la porteranno via.

Seguo la danza di Luisa come in un sogno, trasportato ancora una volta in un'altra epoca e anch'io sono diverso. Come potrebbe mai un ex bancario ragioniere biellese essere omaggiato da una nobile andalusa che vortica con la sua ampia gonna dalle balze colorate mentre l'eccitazione gitana promette amore bruciante?

La musica cessa. La gente applaude. Il medico vuole andar via. Lo fermo: se Luisa e la sua gente verranno al nostro tavolo, resterà? Ride sarcastico: non lo faranno mai!

E invece lo fanno e la serata esplode in un'allegria totale. Per una sera i tabù sociali sono infranti.

Le bottiglie vengono stappate a ritmo frenetico e Romano si accorda segretamente col proprietario affinché non le metta sul conto del medico, le pagheremo noi.

Però dopo aver bevuto così tanto chi si rammenta dell'accordo? Sciamiamo ridendo in strada, nobili e borghesi uniti dall'euforia. Cupi, piegati sul bancone del bar, altri borghesi rosicano invidia.

- Ay que pagar la cuenta!- esclama qualcuno in tono sarcastico e il nostro anfitrione, rosso di vergogna, giura di aver pagato. La voce sgradevole insiste ripetendo la sua battuta e Romano assicura il medico che si tratta di alcune bottiglie che ha ordinato per sé, da portar via e che si è dimenticato di pagare. Paga e riprendiamo la nostra allegra sciamata per le strade antiche di Ronda. Accompagniamo tutti a casa col furgone e poi Romano esige che torniamo al ristorante.

La saracinesca è abbassata. Romano scende, nonostante i nostri sconsigli, e calcia con grande violenza la serranda che rimbomba come un gong. Al terzo calcio sta per cedere e qualcuno dall'interno la alza. Romano va verso il banco del bar dove, appollaiati come poiane ci sono ancora gli stessi avventori di prima. Vuol sapere chi sia stato el cabròn che ha detto che bisognava pagare il conto.

Si mette male. Uno tira fuori il coltello, io afferro una sedia e me ne faccio scudo. Giuliano si appoggia al muro di fondo pallido come la parete incalciata, Angelo resta sulla soglia immobile. Dal furgone la voce di Alberto esorta alla fuga.

Romano ha una forza fisica non sospettabile e vedo che si sta inferocendo e il vino farà il resto. Tento una mediazione e riesco ad ottenere un armistizio. La tragedia volge al comico: se Romano ritira el cabròn l'andaluso chiederà scusa per la sua incauta frase dovuta alla rabbia di vedere i nobili entrare in quel posto solo per onorare degli stranieri.

L'oste felice stappa altre bottiglie e offre lui. Posso posare la sedia e tutto finisce in un supplemento di bevuta.

I giorni passano veloci ma nessuno parla di andar via. Non sono mai riuscito a vedere Luisa da solo ma l'amicizia del gruppo è aumentata. Cantiamo insieme abbracciati e lo sdegno per la mano sulla spalla è ricordo lontano. Dovremmo partire ma le pesetas sono finite e il conto della locanda non può essere pagato, anche il furgone è senza benzina. Vado a casa di Luisa e il generale mi riceve. Mi ascolta mentre gli dico che mi sono innamorato di sua figlia, poi mi offre un sigaro e sorride: Luisa è fidanzata col principe Ivan che è in collera per quanto sta succedendo.

- Usted non può sposare mia figlia per tre motivi: primo usted è un italiano. Secondo usted è un italiano comunista. Terzo usted è un italiano comunista che fa il cinema.

La conversazione termina qui. Tuttavia il generale non proibirà più a Luisa di uscire, sa che prestissimo dovremo partire noi.

Siamo a cena dell'alcalde stassera e Angelo dopo troppo Porto intona Bandiera Rossa. L'alcalde canta con noi ridendo e ci dice che los rusos son todos maricones e che se vengono in Spagna lui gli mangera los cocones. Non serve traduzione, sapendo che maricones vuol dire froci. C'è anche il console di Grenada che sentendo che siamo un grupo de jovenes estudiantes del Centro Experimental de Cinematografia de Roma ci chiede se qualcuno di noi si chiami per caso Roberto Masignani. Roberto balza in piedi come una molla:

- Perché?-

Il console è ha disagio e gli mostra un fonogramma: è ricercato da due settimane per diserzione.

Roberto si accascia sulla sedia facendosi vento. Il console, prega Roberto di presentarsi immediatamente alla Guardia Civil per essere rimpatriato con un aereo militare. Lo attende la fortezza di Gaeta, qualcosa nella pasta Masignani non ha funzionato. Adesso siamo anche senza autista.

E' domenica mattina e Luisa va a messa. Ci vado anch'io. Entro a funzione già iniziata. Il portale è pesantissimo e devo spingerlo con due mani, poi l'uscio prende abbrivio e si spalanca rumorosamente inondando con un rettangolo di sole il buio della chiesa. Si voltano a guardarmi: ho i jeans e una maglietta. Controsole, ritto sulla soglia del tempio, devo parere un anticristo. Mi faccio di lato e aspetto la fine della funzione.

Ite, missa est. La gente esce. Luisa dà l'acqua santa al padre poi si avvia compunta, gli occhi bassi. Quando mi passa accanto mi lascia scivolare in mano il suo rosario. Tanto gentile e tanto onesta pare.... Beatrice era una dilettante!

C'è una luna tonda sospesa sul Tajo. Romano mi ha spinto sotto le finestre di Luisa con un gitano e una chitarra. Il gitano canta e l'aria è densa di profumo di fiori carnosi. Luisa appare alla finestra, avvolta in vaporosi veli bianchi. Mi butta una rosa, c'è un biglietto legato al gambo. Domattina alle otto a casa di Angelita. Ma domani è il giorno triste della partenza: i padroni della locanda ci han detto di non preoccuparci per il conto, il benzinaio ci ha fatto il pieno a credito, San Francesco ci ha anticipato cento pesetas. Non occorre essere ragionieri per capire che con cento pesetas non arriveremo in Italia ma possiamo e dobbiamo partire.

Alle otto il furgone è caricato. L'Arriflex è tornata nella custodia e le pellicole sono tutte impressionate. Ci muoviamo piano, svogliati. Davvero è finita?

Corro da Angelita e trovo Luisa. Non sappiamo che dirci. Lei mette una mano sulla mia e io poso l'altra sulla sua e lei ancora la sua sulla mia, sembra un gioco buffo ma abbiamo il cuore gonfio che fatica a battere come se il sangue fosse diventato denso. Ci scriveremo. Tornerò. Ma sappiamo che non è vero. Io ritorno al futuro, ritorno sulla mia lontana galassia, esco dal suo spazio e dal suo tempo. Muoio per lei e lei muore per me.

Quando il furgone punta ad est sono le undici e tutta Ronda è per le strade o alle finestre. Un'intera città ci saluta e qualcuno piange. Pepito singhiozza dopo averci pregato invano di portarlo a Roma. Non può capire che anche noi, a modo nostro, siamo dei morti di fame. Abbiamo la cravatta e quindi per lui siamo ricchi.

Il Volkswagen si allontana. Romano salta giù dopo la prima curva, c'è una vedova avvolta di veli neri svolazzanti che l'attende clandestina per un ultimo bacio. Il Tajo non sembra più una bocca che ride, ma una bocca che urla.

Per tutto il giorno nessuno parla. Se basterà la benzina arriveremo a Barcellona. Non m'importa più di tornare nel mondo del cinema.

CAPITOLO XIV

Sono le due di notte e piove. Il furgone è in riserva da un paio d'ore. Abbiamo ancora venticinque pesetas ma questa è Barcellona. Abbiamo fatto tutta una cupa tirata. Non abbiamo più voglia di Spagna.

Alberto ferma il furgone davanti al Grand Hotel: con venticinque pesetas non possiamo pagarci neppure la più lurida delle stamberghe, se dobbiamo far piangere qualcuno meglio che sia il Grand Hotel.

Entriamo salutati dal portiere di notte. Abbiamo di nuovo una fame nera. Ronda è davvero lontana. Il portiere ci dice dispiaciuto che il servizio del ristorante cessa a mezzanotte ma che può ordinarci qualcosa ad un night non lontano. Poiché il conto del night bisognerebbe pagarlo subito decidiamo di avere solo una gran sete e il portiere è felice di metterci sul conto sei bottiglie d'acqua minerale.

Chi non mangia oggi ha più fame domani. Così il primo pensiero del mattino è la colazione. Alle undici e mezza siamo già tutti seduti intorno al tavolo con camerieri compiti e facili all'inchino che ci consigliano antipasto di mare con vino francese, zuppa di lumache con Jerez, aragosta con champagne.

Ci guardiamo: forza con l'antipasto di mare e magari anche qualche tartina di caviale.

I primi sospetti nascono nei camerieri alla quarta aragosta e alla decima bottiglia di champagne ma li celano dietro la maschera professionale.

Brindiamo a tutto e a tutti e teniamo consiglio: lasciare il furgone in pegno e prendere il treno? E poi chi verrà a riprenderlo? Vendere tutti i nostri orologi? Non bastano, occorrono almeno diecimila pesetas. Romano controlla la sua lista di russi bianchi ma non ha indirizzi a Barcellona però gli viene un'idea folgorante. Qui ci sono le filiali di alcune grandi industrie italiane, chissà se ci farebbero un prestito? Angelo storce la bocca: la schiuma del capitalismo non sborsa mai una lira senza garanzie, interessi e profitto.

Romano parte all'attacco della Pirelli. Di pomeriggio il direttore non c'è e si deve aspettare domani. Altre aragoste e altro champagne poi ci scateniamo nel barrio chino come una ventata di follìa. Entriamo nei locali urlando, beviamo ai bicchieri degli altri, abbracciamo le donne e fuggiamo seguiti da risate e da improperi. Non abbiamo niente da spendere, niente da perdere, al più possiamo beccare una coltellata ma a vent'anni e dintorni si ha l'assoluta certezza di essere immortali.

Abbiamo un magone dentro che deve trovare sfogo. Tre donne a cui abbiamo offerto da bere ci inseguono per i vicoli perchè siamo fuggiti senza pagare. Scappiamo e ridiamo ma non siamo sicuri che loro ridano e ce le troviamo di fronte all'improvviso ad una svolta.

- Viaaa!- Dietro-front e fugone. Giuliano urla:

- M'han preso per un coglioneeee!-

- E t'han riconosciuto pure a Barcellona!- grida Alberto nel vento.

La mattina dopo Romano si presenta in giacca e cravatta alla Pirelli spagnola.

- Siamo un gruppo di giovani studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma...-

La magica tiritera sorte il suo effetto perché il dirigente apre una cassaforte e agguanta una mazzetta di banconote da mille pesetas alta quattro dita.

- No,no...-Romano sorride gentleman- abbiamo finito le riprese e ci servono solo pochi spiccioli per il ritorno. -

Caliamo nella stima del dirigente che sfila dieci banconote da mille e ce le dà: potremo restituirle alla Pirelli di Roma.

I camerieri ci aspettano con facce minacciose e restano confusi a guardare le venti pesetas che diamo di mancia ad ognuno di loro. Ridiventano servilissimi e inchinatissimi. Angelo li guarda con disgusto: e quando mai farà la rivoluzione gente così?

Lasciamo il Grand Hotel, Barcellona e la Spagna. Cessiamo di essere el gran pueblo latin per ridiventare macaronì. L'Europa unita è lontana.

Ci fermiamo a Montecarlo. Alberto vuole una palla del principe Ranieri. di quelle ammucchiate davanti al portone del palazzo reale con le guardie che fanno su e giù. Fingiamo un grande interesse architettonico per il palazzo e scopriamo che le palle di Ranieri sono ingessate. Occorre una buona mezz'ora di lavoro per farne girare una senza che le sentinelle se ne accorgano. Il soldatino mi guarda fisso, poi gira robotico sui tacchi e riprende la camminata ritmica. Sollevo la palla e mi dò alla fuga giù per la discesa dell'Orto Botanico. Alberto è felice, possiamo riprendere il viaggio.

Alla frontiera francese passiamo facilmente dichiarando ai doganieri di avere le palle di Ranieri. Ma a Ponte San Luigi quello italiano vuol vedere i documenti. Gli raccontiamo i coriandoli fatti dal suo collega all'uscita e gli spieghiamo che siamo un gruppo di giovani studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia. Si arrende ma vuole almeno il trittico del furgone.

Il Trittico perché divisibile in tre parti: una per la dogana d'uscita, la seconda da consegnare al rientro mentre la terza credo che resti al viaggiatore come ricordo dell'imbecillità umana.

Frughiamo nel cassettino del furgone e troviamo un grappolo d'uva marcia, una foto del rejoneador di Cabrass, un preservativo che ha l'aria di essere usato, una cartina dell'Europa e una sigaretta Nazionale. Il doganiere ci fissa in fondo agli occhi: senza trittico non si passa. Quel furgone non è mai uscito dall'Italia e quindi non può rientrare. Invano batto manate sulla carrozzeria: è italiano, è targato Roma, è uscito perché è ancora fuori dal patrio suolo. Il doganiere scuote la testa: il furgone non conta, conta il trittico.

Romano posa una mano accattivante sulle spalle del funzionario:

- Perché non ci mostra la sua parte del trittico? Siamo usciti da qui e dovreste avercelo. -

Due ore dopo i doganieri devono ammettere di non avere la loro parte di trittico. Firmiamo che siamo disposti a marcire all'ergastolo qualora il furgone sia un miraggio e ci lasciano rientrare in patria. Viva l'Italia!

Vicino a Pisa vive un altro amico di Romano. Stavolta è bianco ma non è russo, però è figlio del direttore tecnico della televisione. Cosa a cui non diamo alcuna importanza perché la televisione ha un solo squallido canale in bianco e nero e la sua trasmissione più eccitante è la lagna del sabato sera: un varietà con un pizzico di canzoni, un pizzico di balletto, un'infarinatura di comico e mezzo litro di presentatore. Roba da vomitare.

Il figlio del direttore è di nobile lignaggio e ci ospita, anche perché non può cacciarci dalla sala della sua bella villa dove ci siamo sbracati ubriachi di stanchezza. Si vendica tenendoci svegli tutta la notte con la leggenda macabra della sua famiglia che vuole tutti i primogeniti arsi vivi. La vecchia nonna, madre del direttore tecnico, è ancora innamorata del bel Pucini che la amò furiosamente per un'intera estate e il gatto Filippo piange se alle sette del mattino non lo si mette sul davanzale della finestra che si affaccia sui vigneti per controllare i contadini che vanno al lavoro.

Alle nove facciamo colazione con pane, burro e marmellata e poi visitiamo il cimiterino in fondo al parco con la collezione dei primogeniti morti in roghi vari attraverso i secoli. Un miagolio disperato lancia il figlio del direttore alla ricerca del gatto Filippo mentre Alberto, con l'aria del gatto Silvestro, gongola guardandosi una scarpa: no, lui l'ha punto visto il micetto.

Quando il furgone balzellona sull'Aurelia sollevando la polvere dei cesari, Alberto ci assicura che gatto Filippo per un po' non potrà più sedersi da nessuna parte, altroché controllare i braccianti che vanno al lavoro!

- La rivoluzione la si dovrebbe fare qui, caro Angelo!-

- Potremmo far domanda per il Centro Sperimentale di Cinematografia di Mosca- ci butta addosso Romano- così andiamo a controllare. -

La proposta cade fra i sedili e nessuno la raccoglie.

Roma ci accoglie coi colori del Grande Autunno. L'azzurro se l'è mangiato il freddo e le foglie mostrano accesi pigmenti gialli e rossi. I colori dell'Urbe.

Eccoci di nuovo sotto l'arco trionfale del coppedè. Stanotte stenderemo le gambe nei nostri letti. Domani comincia il lavoro: restituire il furgone, portare la pellicola allo sviluppo, ricominciare il gioco dell'oca dei ministeri per concorrere ai premi di qualità per documentari decisi dal Parlamento al posto della percentuale sui biglietti di ingresso, e il montaggio, l'edizione...

Luisa balla per me sullo sfondo dei muri liberty di casa, contro le inferriate nere oltre cui i cani tendono a mostrarmi i coglioni prima dello zampillo. Luisa, con una rosa tra i capelli, gli occhi di velluto che mi fissano come mai ha fatto una donna mentre i gitani urlano col fondo della gola che "esto che me sta pasando no se pasa naide mas..."

Tra un mese riapre il Centro e io devo fare il secondo anno. Marta tornerà dall'Argentina. Alberto dovrebbe pagare il fitto anche per Roberto chiuso in chissà quale carcere militare e dice che lascia la stanza. Antonio, il nostro elegante portiere gallonato, ci consegna una raccomandata proveniente da Varese: e la nostra ineffabile padrona di casa che ci chiede con garbo se per caso ci siamo dimenticati di inviarle l'affitto di giugno, luglio, agosto e settembre.

Ormai è ottobre e avrà capito. - chiude il problema Alberto buttando la lettera nel cestino. Romano vuol fare l'attore è ha il diploma per farlo. Alberto vuol fare il direttore di produzione e ha il diploma per farlo. Ma il c'è la crisi e nessuno di noi è ancora entrato nel mondo del cinema.

                                                            continua                  

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