home                                                                                                torna all'indice generale

COME ENTRARE NEL CINEMA….…. e restarci fino alla fine

It's hard to be humble when you are so great as I am    (dalla scrivania di Sergio Leone)

CAPITOLO 1

E va bene ho preso una cotta, ma siamo agli inizi dei favolosi anni Cinquanta e i porci non hanno ancora le ali. Invece di godermela le bacio i bei capelli biondi.

Al trentesimo bacio mi pianta: è di vent'anni avanti e a letto si masturba dicendo "cazzo cazzo cazzo".

Un piantato degli anni Cinquanta si tormenta. Se sa scrivere, scrive lettere d'amore. Se non sa, scrive poesie.

Io ho diciotto anni e scrivo volumi di poesie che poi le mando per posta. Mi risponde in media con un bigliettino ogni mille endecasillabi. Mi ricordo l'ultimo: diventerai un grande artista. Come a dire: non voglio poeti a letto.

Uno piantato dovrebbe star fermo e invece divento mobilissimo, patetico e peripatetico perché cerco di incontrarla per caso il più possibile.

Biella ha quarantamila abitanti ma trentamila stanno tutto il giorno chiusi in fabbriche piene di puzza rumore e lana e non contano niente, novemila non hanno o non hanno più l'età per lo struscio e quindi siamo in mille su e giù per il chilometro della stretta stradina medievale del centro: cinquecento femmine e cinquecento maschi, i maschietti facilmente riconoscibili per l'usanza barbara di avere tutti i capelli corti e niente orecchini ai lobi.

Dividendo il numero delle ragazze per i metri della strada, se passeggio per almeno dodici ore, risulta una media ponderata di due incontri e mezzo al giorno.

Un innamorato degli anni Cinquanta non sogna "me la inculo me la inculo" ma ha il pudore dei sentimenti e quando vede il soggetto del suo amore (la donna oggetto ancora non c'è) avanzare sul marciapiede si sente cantare dentro "tanto gentile e tanto onesta pare" e finge di guardare fisso la pipa di radica esposta in una vetrina con le orecchie in fiamme.

Al ritmo dei suoi passi sempre più prossimi, il cuore pompa rombi dietro ai timpani. Passa, mi sfiora e mi dice ciao sulle punte scarlatte delle orecchie. Mi volto con esagerata sorpresa e balbetto un ciao ai suoi capelli biondi.

E' l'indimenticabile orgasmo spirituale dei favolosi anni cinquanta.

Il mio grande amore è provincialmente segreto, nel senso che, esclusi lei e me, gli altri novecentonovantotto in eta' da prima volta si raccontano l'un l'altro, a bassa voce, particolari assolutamente falsi sulla nostra grande passione.

Più d'uno dà suggerimenti:

- Stasera ha un appuntamento alle cinque dal ginecologo. La trovi a colpo sicuro.-

Mi accuso di strane turbe ma ci trovo solo la zia.

- Dalla pettinatrice, alle tre. Certissimo.-

Comincio già a perdere i capelli e farfuglio alla divertita parrucchiera di consigliarmi una lozione. L'ignobile bigodinaia fa l'occhiolino alla mia bionda che ghigna da sotto il casco e poi mi consiglia la "levatidaipiedi" che lì per lì funziona ma che nei tempi lunghi non mi risparmierà la calvizie.

- Alle nove stassera. Alla Democrazia Cristiana.-

Sono esasperato e cedo al turpiloquio:

- Balle! Non fa politica!-

- Ma no! Alla DC proiettano un filmetto che han fatto dei matti qui a Biella. Fatti invitare che la becchi!-

Arrivo un'ora prima per studiare la disposizione delle sedie e le diverse mosse seguendo almeno tre ipotesi: lei arriva con la zia. Facile, da un lato è scoperta. Lei arriva con la zia e il padre. Posso baciar la mano alla zia, stringere quella del padre e cercare di ficcarmi in mezzo. Arriva da sola: meraviglioso! Scoperta da entrambi i lati. Mi metto a destra che mi vien meglio il bacetto sui suoi capelli biondi.

Arriva sottobraccio a uno dei mille. La mia storia d'amore ha un nuovo personaggio: "lui". Adesso "gli altri" son rimasti novecentonovantasette.

Mi accascio dietro ed è subito buio.

Un quadro luminoso un po' sghembo viene proiettato contro la parete di fondo dove hanno tolto il crocefisso e Degasperi che, come tutte le cose importanti, hanno lasciato un'impronta.

Qualcuno bestemmia. Chiarissimo un "dio stampagazzette" fa fremere quei muri dc. E il quadro sghembo diventa un rombo inclinato dalla parte opposta.

Io guardo la coda di cavallo. Si è fatta la coda di cavallo e muovendo la testa me la sbatte in faccia.

Sono di nuovo sull'orlo di un orgasmo spirituale. Lui la bacia sui capelli e mi dà fastidio, ma la cosa che più mi turba è la sua mano destra.

Non riesco a vedere dove la tiene. Non ci riesco per tutto il tempo della proiezione.

Su quel rombo sghembo passano ombre spuntinate in bianco e nero, mute e con tante didascalie: e più un libro illustrato che un film commentato.

Ci faccio appena caso perché quella maledetta destra non viene mai allo scoperto e quando anche la sinistra sparisce oltre la linea buia dello schienale capisco che tutto è compromesso. Per me, già adesso, storico.

C'è della musica. Un biondo nevrastenico gira delle manopole mentre uno smilzo che conosco di vista, cambia continuamente i dischi. Le sgrattate e le bestemmie fanno da controcanto.

Tra destra eversiva e sinistra impegnata, io pencolo tutto avanti e la luce mi coglie sbilanciato. Mi tiro indietro di scatto ed evito il bacio di lei e di lui, uno per guancia: le loro labbra si toccano a due centimetri dalle mie.

Lei si alza e mi ghigma "ciao", si appende a lui voluttuosa ed esce insieme al pubblico dalla sala e dalla mia vita. La rivedrò altre volte ma ho la sensazione che "quella fu l'ultima volta che la vidi".

Restiamo il crocefisso, Degasperi, io e i bestemmiatori. Il crocefisso e Degasperi immobili, anche se il primo in posizione più scomoda, i bestemmiatori recitando i loro rosari intorno ad un aggeggio che poi saprò chiamarsi proiettore, avvolti in giri di pellicola che poi saprò essere larga esattamente 16 millimetri. Io, basito. Non c'è altra parola. Il linguaggio quotidiano questa sera proprio non esprime. Basito.

Il Peppo mi mette in mano qualcosa di pesante e mi dice:

- Ten kì-

Non è coreano, è lingua biellese.

Il Piscia mi butta un cavo elettrico in faccia. Apro la bocca per trattenerlo ma non ci riesco.

- 'Sti dilettanti, diu flaut!-

Ripete il lancio e stavolta l'azzanno forte. Sotto la liquirizia di gomma nera scorrono 220 volts.

Non lo so, ma sono entrato nel cinema.

 

CAPITOLO II

Il problema è il culo dei cavalli. Hanno un diametro medio di un metro e venti. Non fanno Far West, inquadrati da dietro gli si legge la scritta AVANDERO sulle chiappe. Ma i cavalli di Biella son questi, bestie da tiro. Hp a quattro zampe. Non sanno che cosa sia il galoppo e il trotto gli sembra roba da froci.

Sanno fare solo due cose: camminare a passo misurato e cacare in modo smisurato.

Il Peppo ci ha messo sopra dei volontari con tanto di finti winchester e pistole. Dice che sono cowboy e che lui è un ranger sulle tracce di un infame bandito. Il Peppo di cognome fa Sacchi. E’ quello che un giorno farà cadere il monopolio televisivo della RAI. Ma ancora non lo sa nessuno.

Il Piscia è morto alla prima inquadratura con un pezzo di top di lana bianca incollato sul mento per farlo sembrare vecchio. Io gironzolo in mezzo a questi nuovi amici, il pensiero immobile su di "lei" e prendo codate di cavallo in faccia senza più avete orgasmi spirituali.

Il Peppo fa una cosa che chiama "regìa". La prima volta che sento la parola, penso che lo prendano in giro, come a dirgli "repubblìca". Nei favolosi anni Cinquanta, nella sperduta provincia piemontese, il pubblico crede ancora che gli attori siano gli unici artisti del cinema.

Nasce una discussione sull'obbiettivo. Il Giorgio che sta dietro il cavalletto (l'unico a non essere della ditta Avandero) lo vuole grande e invece il Peppo lo vuole tele. Io obbiettivamente non capisco la differenza ma obbietto che non ha importanza perché fa freddo e l'unico calore lo fanno i cavalli cacando in giusta proporzione alla mole delle chiappe. Il Giorgio mi guarda con disprezzo e sentenzia:

- Zitto tu che non capisci niente.-

Obbiettivo anche questo. Così la notte la passo col Peppo ai giardini pubblici, cinque sotto zero, a farmi spiegare.

La tecnica del cinema mi piomba addosso tutta intera prima dell'alba.

Per cominciare la pellicola è vergine come quella bambina di cinque anni brutta brutta brutta. Nei favolosi anni Cinquanta la cosa appare ancora credibile e non m'impressiona, la pellicola invece si impressiona anche se deve essere trascinata a forza con delle griffe davanti ad un otturatore che ha la benedizione della chiesa perché è a croce di Malta. Così questa povera benedetta pellicola non ancora sviluppata si raccoglie nella bobina sottostante.

Tutto deve essere fatto di nascosto, senza mai farle vedere la luce. La si ficca in un sacco nero, come la testa di un sequestrato, ci si infila la destra dentro (ma il bastardo alla DC quella sera non aveva alcun sacco) e a tentoni la si monta.

La si monta su un telaio in spire rettangolari che guai se si toccano e poi, sempre al buio, la si immerge in un bagno. Lì dentro la pellicola misteriosamente si sviluppa.

Si monta anche una sveglia per una ventina di minuti. -Monta la sveglia ché montare quella addormentata dà assai meno gusto!- commenta sempre il Piscia. E' un rito da iniziati che dà un certo sfogo alle repressioni sessuali dell'epoca. Anche il Peppo prima di cominciare chiede sempre:

- Avete scopato?- perché la pellicola sverginata, impressionata sviluppata e montata su telaio deve asciugare in un ambiente scopato con cura: la polvere è la grande nemica.

Il vero e proprio contatto avviene in stampa, ma per far questo bisogna portarla a Torino. Solo quando la pellicola stampata torna a Biella, la si può davvero montare. E' questa un'azione violenta perché bisogna farla a pezzi per poi incollarla di nuovo cambiando l'ordine degli "spezzoni" che si chiamano così anche quando sono lunghi mezzo centimetro. In questo modo un attore può morire di domenica ed essere vivo di lunedì.

Ormai sono del gruppo: so che la pellicola dentro la macchina da presa "gira" e che all'inizio di ogni "inquadratura" si fa il ciak. Una volta che il Peppo se ne dimentica io grido "ciak ciak!" e lui "ciak in fondo!", io corro oltre gli attori che stan già recitando agitando il ciak in fondo. Finite le bestemmie, dato lo "stop", vengo rudemente a sapere che "ciak in fondo" vuol dire che si può fotografare il legnetto nero anche alla fine dell'inquadratura invece che all'inizio. Ai giardini pubblici non si può imparare tutto.

Stiamo emergendo. Il nostro gruppo autodidatta e dilettante ha un riconoscimento ad un festival, anzi al festival, quello di Montecatini, la Venezia del passo ridotto.

Il nostro "COWBOY STORY" diretto dal Peppo vince la coppa AGIS per il film più spettacolare. I culi dei cavalli di Avandero han fatto colpo. La rivista CINEMA dice che l'atmosfera che abbiamo creato nella baraggia di Candelo ricorda i paesaggi glabri di CIELO GIALLO. E' il primo vero western italiano ma ancora nessuno sa che ne verranno altri.

Il Festival di Montecatini è di marca DC come tutto nell'Italia post "48 e nella giuria son previste alcune cotte, funzionari della Direzione Generale Spettacolo (lo spettacolo non ha ancora un suo ministero e quindi va piuttosto bene), Blasetti e Tito Marconi, il presidente di Cinecittà. Altro che la Venezia del passo ridotto, io sento che è la Venezia del gran passo.

Seduti al bar a fare i vitelloni che sono stati appena inventati da Fellini, cerco di convincere il gruppo a fare sul serio. Risatacce da periti tessili. L'unico che ascolta interessato è il Peppo: vincere il Festival di Montecatini?

Impossibile, troppi i concorrenti carichi di soldi e di esperienza che portano film fotograficamente perfetti, ben sonorizzati, a colori, stupidi ma bellissimi.

Mi alzo in piedi e fisso il Peppo negli occhi:

-Non importa vincere. Importa farsi notare.-

Con la pratica che ho fatto per "lei", scrivere è diventato un tic e, come Dante, devo farmi almeno un paio di terzine prima di colazione. Non mi costa quindi fatica buttar giù poche pagine in cui spiego quello che gli attori devono fare e dire. Tempo dopo mi diranno che ho fatto "la sceneggiatura".

La porto al Peppo e gli parlo con lo sguardo fisso all'avvenire, lungimirando profetico:

- Abbiamo fatto il primo western italiano, ora faremo il primo poliziesco all'italiana. Saremo cattivi e scandalosi. Mostreremo un seno nudo!-

Si sta già sbottonando la camicia.

-Ho intitolato questa storia LA STRADA CHE PORTA LONTANO e vedrai che lontano porterà. Si parla di un giornalista biellese che scopre droga nelle balle di lana. Si dice di un ministro biellese che ha lo zampino nelle balle! Il giornalista scopre che la sua la sua donna è l'amante del gangster ma non ha il coraggio di ucciderla. Lei invece gli spara tranquillamente nella pancia e lui si trascina derelitto a crepare in un boschetto tenendosi il ventre con dentro il dolore e fuori le budella. All'alba passano due bambini che vanno a pesca: vedono il morto e lo girano pancia all'aria, ma l'unica cosa che fanno è fregargli l'orologio.-

Il Peppo annuisce:

- Se questa roba non brucia il culo alla giuria, io mi faccio frate.-

Brucerà.

Per fare il film ci mettiamo otto mesi. Ore libere, giorno e notte, sabati e domeniche. Io lavoro in banca e al mattino, per recuperare, mi addormento nel cesso. Dobbiamo essere pronti per il festival a giugno e lo siamo: LA STRADA CHE PORTA LONTANO dura un'ora e venti. E' un film! Un film vero! Un colossal del passo ridotto. Muto però e con la musica sui dischi ma abbiamo accroccato un multipiatto con manopole per sfumare da un tema all'altro.

E il festival cambia il suo regolamento, decidendo di non accettare in concorso film che durino più di venti minuti. Facciamo quello che si usa già chiamare un casino.

Il film viene ammesso, ma fuori concorso.

E' il mattino di un lunedì di giugno dell'anno di grazia 1955. E' il primo mattino del festival e la giuria si riunisce per vedere le prime opere in concorso (ancora non visionano, vedono proprio).

Le cotte ci sono, Blasetti e Tito Marconi no.

Nel pomeriggio i migliori filmetti saranno proiettati al pubblico ma che fare durante questo primo mattino di un lunedì di giugno?

- Passiamo i pizzoni di quei matti di Biella fuori concorso. -

Chiaro che pizza non vuol dire roba che si mangia.

Ore nove di un lunedì di giugno a Montecatini. Il più grande cinema della città: mille posti. Perfettamente vuoto. Chi mai va al cinema alle nove di mattina di un lunedì di giugno?

Il proiettore si accende. Il Peppo con un microfono al commento e noi seduti dietro lo schermo a passarci l'altro: doppiaggio in diretta.

Il Piscia al multipiatto attacca la canzone dei titoli di testa che canta su un'aria ispirata a RIFIFI': il male che è in me è in tutte le cose e non muore insieme a me...

Dopo otto minuti io ho un break come doppiatore: il mio personaggio sparisce di scena per tre minuti tondi. Il tempo di scaricare le surrenali e dare una sbirciatina in sala.

Come sia stato possibile in otto minuti di un lunedì mattina di giugno a Montecatini riempire una sala di mille posti rimarrà un mistero, ma è tutto pieno con gente in piedi.

Non riesco ad immaginare come siano andate le cose: all'inizio quattro o cinque persone in sala, si spengono le luci, cominciamo a proiettare la scena dell'amplesso con la macchina in soggettiva del maschio che fa su e giù nel modo canonico sul primo piano della donna. Che sarà successo? Chi è corso fuori per le strade di Montecatini, negli alberghi, a urlare chiamare svegliare? E i mille? Come han fatto a fiondarsi in sala tutti quanti in otto minuti?

LA STRADA CHE PORTA LONTANO comincia a portare lontano. La platea è in delirio. Il festival del passo ridotto è un'orgia di film fatti ai propri pargoli o di astruse carrellate sugli ori del barocco con qualche galvanizzante funeralino sul Po.

E invece là, gratis, si sta vedendo roba mai vista neanche a pagamento. I buoni perdono. La corruzione trionfa. Il male è più forte del bene e se uno strappa il vestito ad una donna vengono fuori le tette.

E' lo scandalo.

Una signora mi abbraccia strettissimo. Un pelato mi spacca la schiena con rumorose pesanti pacche. Al centro della platea un prete in piedi applaude frenetico.

Sono squarci di ricordi di quell'incredibile mattino di un lunedì di giugno a Montecatini.

Il martedì ne parlano i giornali. Sulla rivista CINEMA Cattivelli ci dedica due paginone con foto: imitano Mike Spillane i ragazzi del cineclub Biella.

Il mercoledì arrivano da Roma i potenti. C'è un ministro, il presidente di Cinecittà e c'è sopratutto Alessandro Blasetti che è tra i fondatori del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Vogliono una proiezione tutta per loro in saletta privata.

Siamo emozionatissimi. Nei favolosi anni Cinquanta, ci vuole coraggio per mostrare a un ministro che mafia e politica copulano tra loro e che ai poveri cristi imbottiti di idee di giustizia può capitare di crepare all'alba con le budella fuori e il dolore dentro.

Siamo così emozionati da diventare sfacciati, Il disco si inceppa, la pellicola si rompe. Al ministro che ci dice di sbrigarci rimbomba un "non rompa le balle!" che piomba la saletta nel silenzio.

L'onorevole scivola annichilito dentro la poltrona e nessuno dice più parola fino alla fine della proiezione e oltre perché i potenti ci sfilano davanti in silenzio uscendo con occhiate cariche di riprovazione.

Restiamo soli e guardo il Peppo che alza le spalle: è andata male.

Il giovedì mattina, in albergo, riceviamo una mozione ufficiale di censura: abbiamo approfittato della buona fede degli organizzatori per proiettare in pubblico un film immorale. Cattivi!

Ci lasciamo andare. Se siamo cattivi è inutile stare composti in giacca camicia e cravatta. Peppo, incazzato, versa un piatto di minestra nella scollatura della nostra primadonna perché sorride a un tizio. Il Piscia stacca il bidè del bagno e lo mette in ascensore alle tre del mattino. Il primo cliente del venerdì faticherà a convincere il buraeu che non vuole portarselo via.

La notte si fa brava, alla moda degli anni cinquanta. Percorriamo le strade di Montecatini in auto scoperta sparando con le dita, sghignazzando e urlando. Cambiamo tra loro sedie, tavoli e dondoli dei bar. Teniamo sveglio l'albergo imitando il verso di un gatto infuriato nella tromba dell'ascensore e i pompieri intervenuti stanno ancora cercando la povera bestiola.

Ma quel venerdì di giugno comincia una strana processione.

Uno dopo l'altro, all'insaputa l'uno dell'altro, i potenti censori ci cercano. A tu per tu, a voce bassa "qui lo dico e qui lo nego", ci fanno i complimenti: come siamo riusciti a fare un così bel film senza soldi senza professionisti e in provincia? Bravi!

Alessandro Blasetti ci chiede quello che io da un anno sto sognando: ragazzi, volete andare al Centro Sperimentale di Roma?

Porca miseria se ci vogliamo andare! Io sì, Peppo anche. Gli altri forse. Ci presenta a Tito Marconi e ci fanno un bigliettino per il segretario del Centro: a ottobre c'è il concorso e una loro segnalazione ha un certo peso...

Gente, siamo del giro! Ho la netta sensazione di entrare nel mondo del cinema.

 

CAPITOLO III

Partire è un po’ morire. E da giugno a ottobre ci sono quattro mesi. Biella è la mamma calda, coi suoi fumi e la sua pioggia che le ha meritato il nome di orinatoio del Piemonte.

I novecentonovantasette sfottono e a volere partire sono rimasto solo io. Anche perchè "lei" ha annunciato il suo matrimonio con quel maledetto dalla destra misteriosa e sinistra impegnata.

Il Peppo tentenna, pone condizioni: a Roma ci si va ma in macchina. In macchina? In macchina! Ma perché? Perché sì.

E macchina sia. In un fienile troviamo una Balilla del "34, classe di ferro. La paghiamo a metà io e il Peppo: trentacinquemila lire per uno.

Mi licenzio dalla banca. Mi chiama il padrone c'è ancora negli anni Cinquanta, poi diventerà datore di lavoro) e mi fa un discorsetto bonario: mi ha seguito in quei tre anni (tre anni!) di lavoro e ha capito che mi annoio, d'ora in poi mi farà cambiare ufficio ogni sei mesi e nel giro di un paio d'anni mi nominerà funzionario... perché andar via da Biella? L'oro scorre per le strade e anche a star fermi ci si impolvera le scarpe.

Io lo guardo: è simpatico, cinquanta ben portati, elegante come può esserlo un banchiere davanti ad un bancario, siede su una bella poltrona ottocento in velluto rosso cardinale che conserva il ricordo del culo di Quintino Sella.

Lui è l'ultimo anello della catena. Tre anni fa quando cominciai a lavorare in banca guardai quello che era stato assunto tre mesi prima di me, poi quello che ci stava da due anni, quello che ci stava da cinque, quello che ci stava da dieci, su fino al direttore generale. Le tappe di una vita, la mia, già disegnate su quelle facce, già vissuta da quelle maniche dai gomiti lucidi, già strozzata da quei colletti bianchi.

Il padrone è l'anello d'oro della catena, ma sempre catena è. Sospiro profondo:

- Io la ringrazio, ma se lei si alza e mi lascia la sua poltrona, io mi licenzio lo stesso.-

Adesso è lui che sospira profondo e, abbandonando la maschera paternalistica e ufficiale, mi guarda con aperta invidia. Si china sulla scrivania intarsiata settecento e mi dice:

- Verità per verità, se avessi vent'anni me ne andrei anch'io!-

Mi regala tre mesi di stipendio e mi manda a casa.

Chi dice che i padroni sono cattivi e sfruttatori? Mi ritrovo a spasso con centoquarantaquattromila lire in tasca e davanti il futuro.

La Balilla si chiama Gaùe, si chiama da sé perché questo è il suono del suo clacson. E' un'auto simpatica che va dove vuole, abbastanza indifferente ai giri del volante. Ben lanciata tocca i settanta all'ora.

Io la lancio male perché ho la patente ma non so guidare. Il Peppo la lancia bene ma solo per portare le morose in camporella.

Si arriva a ferragosto e da settimane mostro invano al Peppo fotografie di ragazze stupende diplomate al Centro Sperimentale.

A ferragosto ad Andorno c'è il Ferragosto Andornese, che non è soltanto il ferragosto passato ad Andorno, ma una cosa paesano-chic dove cantano i cantanti alla moda ben appesi sul primo ramo di un enorme albero centenario che sorge in mezzo a una balera.

Scocca mezzanotte, l'ora di Cenerentola. Io ballo con un'amica di "lei" che sembra non gliene freghi niente di "lui" ma lo sposerà lo stesso. Il Peppo balla con la nostra primadonna che da Montecatini non porta più scollature e gira al largo dai piatti di minestra.

Il cantante gorgheggia sull'albero e sculetta feroce avvolto in pantaloni lucidi (Little Tony o Celentano? Non ho memoria per i grandi) e si becca un sonoro "volano bassi!" con ampio gesto a simulare un volo radente. Scherzi di provincia che capiscono solo quelli del clan.

- Attenti all'uccello padùlo, quello che vola all'altezza del culo!- chiarisce per tutti un Giorgio che da allora è soprannominato il Padùlo.

Concedendo fiato alla donna che strizza con la destra mentre lascia la sinistra ciondolare con indifferenza da viveur, il Padùlo mi urla dal centro della balera:

- Roma Roma! Roma o morte... qui e di vecchiaia!-

E' provocazione, ma benvenuta. Passo la palla al Peppo.

- Sentito? Si va o si sta?-

Il Peppo ha sempre fatto il duro. Lui il pane lo taglia spingendo la lama del coltello verso l'esterno, come se lo sfregiasse.

- Per me si può partire anche subito. -

Bacio sui capelli l'amica di "lei" e la mollo in mezzo alla pista. Il cantante continua a sculettare sul ramo e l'orchestra a suonare ma i ballerini si ferman tutti, come in un saloon del vecchio West.›

- Ti prendo in parola. Andiamo a fare le valigie. -

Non può più ritirarsi, può solo abbrancare un braccio del Padùlo e ordinargli:

- Vieni anche tu. -

- A Roma? Io? E perché?- molla anche lui la donna che rifiata grosso.

- Non fare domande di merda. - è la storica chiarificante risposta del Peppo. Il Ferragosto Andornese applaude il nostro coraggio e la nostra determinazione.

E' l'una di notte. La mamma sotto i portici piange: che farà mai nella vita un figlio che sbatte un po’ di mutande e magliette in una valigia a mezzanotte di ferragosto e dice che va a Roma a fare il cinema?

La Gaùe ha sul tetto un portabagagli di ferro su cui fermamente leghiamo le nostre valigie: la mia, quella del Peppo e quella del Padùlo che di tanto in tanto rimormora la sua domanda di merda.

L'una e un quarto della notte del sedici agosto 1955 batte sul quadrante della Storia quando con lunghi gaùùùe gaùùùe la Balilla attraversa le strade di una Biella immersa nel sonno dei lavoratori accompagnata salutata e seguita da strombettanti clacson di amici. Qualche finestra più o meno operaia si spalanca e non tutti i voti sono augurali.

Il Peppo guida e maschera l'emozione con possenti accelerate sul filo dei settanta orari, io gli siedo accanto e guardo le montagne: addio monti sorgenti dall'acque, cime ineguali note a chi è cresciuto tra voi. Il Padùlo sbuffa sul sedile posteriore:

- Fra quindici giorni siamo di nuovo tutti a casa! Non avete la grinta! Non siete lustri, siete opachi! Nel mondo del cinema bisogna essere estroversi. Niente freccia! Fuori il braccio all'americana!- abbassa il vetro e allunga fuori un braccio quando un camion nottambulo e a fari spenti ci taglia la strada. Il Peppo schiaccia il freno con tutta la forza della gamba. Con un lamento zigzagante la Gaùe si blocca in venti metri proiettando venti metri avanti il portabagagli con le valigie.

Scendiamo. La luna illumina il camion in fuga, il Padùlo che si tiene il braccio dolorante e una fioccata di camicie, calzini, mutande che fiorisce i cespugli e il buio del campo. La brezza della notte agita i fazzoletti impigliati che ripetono macabramente i sarcastici addii degli amici.

- Dobbiamo tornare indietro. - è la deduzione del Peppo.

E no. La mamma ha pianto sotto il portico. Il Padùlo ha fatto domande di merda in piena balera. Mi sono licenziato dalla Banca Sella. Gli amici hanno ancora i bicchieri bagnati del vino dell'addio e noi si torna dopo aver percorso tre chilometri tre sulla via per Roma?

- Nudi alla meta, ma si va avanti.-

- Fascista.- commenta il Padùlo.

Le valigie sono danneggiate ma sono ancora valigie. Il portabagagli invece è inutilizzabile. Se mettiamo le valigie in macchina, non c'è più posto per noi.

Soluzione: smontiamo il divanetto posteriore per far posto alle valigie su cui ci sederemo a turno. Il divanetto lo leghiamo sul tetto con una corda passante per la ruota di scorta.

Il viaggio riprende. La luna mi mostra il paesaggio di tutta la mia vita che si allontana.

Una stretta al cuore: spargere le mutande sui prati porta male?

Nei favolosi anni Cinquanta non ci sono autostrade tranne la gloriosa Milano Torino ad una corsia e mezzo.

La Gaùe punta su Genova che conquista a mattino inoltrato dopo aver aggiunto un allarmante ticchettio al suono armonioso del suo motore classe 1934.

Il meccanico genovese ci guarda incuriosito: tre matti col sedile sul tetto gli chiedono di dare un'occhiata in quel lontano passato tecnico.

Sotto il cofano il motore canta "Giovinezza" al ritmo degli scarponi di una sfilata di balilla.

Il meccanico punta il ditone unto accusatore contro un ferretto:

- Si è rotto.-

- Ce lo può cambiare?-

- Devo farlo al tornio. Mica ci sono più i ricambi di prima della guerra. -

- Ma di Balilla la Fiat ne ha fatte tante. Era la macchina per tutti dei favolosi anni Trenta, no?-

Mi da un'occhiata da meccanico comunista incazzato:

- Non per tutti tutti, belìn. Per tutti pochi. I tutti pochi che contavano allora. -

Due ore dopo, col ferretto al tornio luccicante nuovo, la Balilla si immette sull'Aurelia, paesino paesino, passando su strapiombi di roccia e macchie di verde, specchiandosi in un mar Ligure preinquinamento.

E' per me una struggente visione: sono i posti in cui ho vissuto la mia grande tragica stagione d'amore. Con "lei" che non ne poteva più di essere baciata sui bei capelli biondi ma non lo diceva.

La notte ci coglie sul Bracco. L'Aurelia sale polverosa in tornanti che ricordano le piste di sabbia che costruivo da bambino per giocare con le biglie.

La stanchezza e lo stress calano su di noi di colpo. Il Padùlo, passato alla guida, ferma la Gaùe accanto ad un albero: basta.

Ci buttiamo su una ripa erbosa per distendere gambe schiena e quella sottile angoscia da distacco.

Memento homo quia pulvis est: le formiche prendono alla lettera e il sole del primissimo mattino ci sveglia brulicanti di buone formichine nere che ci hanno camminato addosso piano per non svegliarci.

Non si sono arrabbiate anche se ci siamo stesi sul loro formicaio. Adesso gambe e schiene sono così ben distese che non riusciamo più a piegarle per infilarci nella Gaùe che ha atteso paziente accanto all'albero. Il Peppo si mette al volante ingrugnato: la sottile angoscia sta diventando qualcosa di peggio.

Marina di Pisa è una trappola perché ci stanno degli zii del Peppo che ospitano una sua sorella. Passiamo a salutarli e a fare il bagno: mare blu, spiaggia d'oro. Come si sta bene! Roma e Biella sono equamente lontane.

Per tre giorni e tre notti occupiamo quella spiaggia. Nudi di giorno, coperti con un cane lupo consenziente di notte.

La terza notte il cane lupo non arriva. Alle tre del mattino il freddo è insopportabile: non sembra possibile che tra poche ore supersexy in due pezzi sculetteranno eccitanti sulla banchisa.

Anche pensieri così lasciano piedi gelati e umido nelle ossa. Uno alla volta ripariamo nella Gaùe che almeno ci protegge dalla rugiada della notte.

Be’, tanto vale accendere il motore per scaldarci. Però si spreca benzina. Israele combatte gli arabi in guerre lampo senza fine e la benzina è cara: 82 lire al litro!

Il Peppo innesta di malavoglia la prima: non abbiamo neanche salutato. La protesta è debole: in fondo degli zii del Peppo non ci è mai fregato niente. E' stata una scusa per fermarci, per calmarci, prima di buttarci definitivamente nel vorticoso mondo del cinema.

 

 

CAPITOLO IV

Storditi, rincretiniti dai sobbalzi non ammortizzati, i menti ispidi, calzini al vento stesi ad asciugare sulla corda che lega il divanetto alla ruota di scorta, zoccoli da spiaggia ai piedi, l'Aurelia ci vomita di sorpresa in piazza San Pietro.

Così il mio primo abbraccio con Roma, avvolto dalle colonne del Bernini e gli occhi gonfi di stanchezza strizzati sul cupolone. La sottile angoscia mi si scioglie dentro. L'aria è calda, densa. Pellegrini pigri scendono e salgono il sagrato del Papa. Rade auto strombettano allegre per via della Conciliazione. Una gira intorno alla fontana della piazza e passa sui piedi di due pretini rossi che saltellano svolazzanti per evitare l'urto. Un testone nero e ricciuto si sporge dal finestrino dopo l'inchiodata e urla:

- Ma li mortacci tua!-

- E de tu nonno!- ribatte serafico il pretino con pesante accento tedesco, voltandosi subito verso la chiesa per un veloce segno di croce.

Il testone nero si rovescia in una risata grassa e soddisfatta e riparte con uno spernacchiamento fumoso che stagna e si dissolve lentamente nell'aria ferma.

Io guardo il Peppo e il Padùlo, non so che cosa sentano loro ma io sono tornato. Sono tornato a casa. Ho un'acuta sensazione di già vissuto. Come la prima volta che infilai una maschera sub e guardai il fondo del mare: scesi a capofitto fra le posidonie sentendo che tornavo in un mondo lasciato in un'epoca più lontana del tempo della mia vita.

Risaliamo sulla Gaùe e apro la mia cartina di Roma. Due anni fa a Biella venne un aiuto regista e ci disse che abitava in via Matilde da Canossa e che se fossimo capitati a Roma di andare a trovarlo.

Rintracciare la strada sulla cartina è operazione lunga. Il dito inesperto percorre un dedalo di strade e di piazze: c'è un mare di città tra piazza San Pietro e quella strada.

Tentiamo la traversata. Un ormeggio in via Veneto per un caffè. Sono appena le dieci e Roma dorme ancora. Pigra, pacifica, tranquilla: niente del convulso di Milano o di Torino. La gente non cammina, passeggia. I garzoni pedalano sui tricicli con beata calma e fischiettano. Si intrecciano frasi e battute, sembrano tutti amici.

Uno rincorre una giapponesina e le tocca il culo. Quella si volta sorridente:

- Stlonzo! -

- Come non detto, a figlia del soleee!- ride il pappagallo.

Ridono anche i camerieri di Doney e questo ci dà il coraggio di entrare nel bar, zoccolando. Meritiamo qualche occhiata divertita, qualche "'n vedi questi!" ma tutto in tono amichevole che dà calore, che accoglie, che introduce.

Quando suoniamo alla porta di un appartamento al secondo piano di un palazzo di via Matilde da Canossa si affaccia in pigiama, strizzando gli occhi per la luce, capelli dritti, Aldo Florio, il nostro amico aiuto regista.

Ci guarda perplesso. Dobbiamo ricordargli di quella volta, due anni prima a Biella, quando aveva detto che.

Si gratta. Ma sì, ricorda. Ci guarda di nuovo e noi guardiamo lui: che farà di noi il primo romano de Roma?

Sbadiglia e sorride:

- Sembra che abbiate attraversato il Sahara. Su, entrate, avrete voglia di un bagno. A maaa! Abbiamo gente a pranzo!- dà un'occhiata all'orologio e borbotta un "te credo che ho sonno, son manco le undici..."

Puliti, lavati, sbarbati e pomodori al riso fumanti preparati dalla mamma di Aldo. Adesso che è ben sveglio ci guarda con simpatia:

- A dirla tutta non credevo mai che sareste venuti. Quando vado in provincia ne incontro di ragazzi come voi che dicono "vengo a Roma", ma so com'è la provincia, è difficile staccarsi.-

Ha detto "provincia", proprio come l'avrebbe detto Cesare. Giulio Cesare. Per me Biella è in provincia di Vercelli e la cosa finisce lì. Per lui invece tutto quello non è Roma è provincia.

- Sono state le biografie dei grandi. -

Aldo si ferma con mezzo pomodoro in bocca. Continuo:

- Hai letto le biografie dei grandi sui libri di scuola? C'è sempre: nato a Canicattì nel, frequentò il liceo a, poi nel milleccetera a Roma entrò a far parte di. E mai che dicano come diavolo abbiano fatto a mollare casa famiglia e città natale per venire a Roma nel milleccetera. Qualcuno li ha chiamati? Un amico li ha invitati? Un parente? Blasetti? Il presidente di Cinecittà? Ci ho pensato per anni e poi ho capito: per venire a Roma i grandi sono semplicemente saliti sul cavallo, o sulla carrozza, o sul treno a seconda delle epoche. Noi siamo saliti su una Balilla del "34. Dopotutto è stato facile.-

Ride e mi sembra che nei suoi occhi alla simpatia si aggiunga amicizia. Forse adesso posso davvero dire che ho un amico che fa l'aiuto regista.

Sale anche Aldo sulla Balilla e ci guida alla ricerca di una stanza mobiliata da spender poco. Ce la trova in via Castro Pretorio: due coniugi vecchi, una figlia di vent'anni, affittano stanze a due o tre letti. Quattordicimila mensili, diviso tre ci possiamo stare.

Tre brandine e un comò. Un vetro rotto sull'ondeggiare dei platani che ci dividono dalla caserma. Stazione Termini biancheggia immensa sulla sfondo.

Siamo a Roma e abbiamo una casa. Dietro l'angolo c'è una Cassa di Risparmio e corro a depositare la mia ricchezza: centomila lire. Libretto a risparmio, il tempo degli cheque è ancora lontano.

Aldo ci guarda:

- Che volete vedere? San Pietro?

- L'abbiamo già visto. - rispondiamo insieme.

- Via Veneto?-

- Anche. -

- Il Pincio allora. Al tramonto è bellissimo. -

Non c'è entusiasmo e Aldo ci scruta, poi sorride. Ha capito: vogliamo vedere Cinecittà!

Beh, sì, ma c'è tempo... uno di questi giorni... Aldo ride. A Cinecittà ci stanno gli americani con GUERRA E PACE. Non si entra senza permesso.

- Volete guadagnare qualche lira?-

- A Cinecittà?- domando con voce tremula.

- Comparse. Girano le scene della fuga da Mosca all'arrivo di Napoleone. Ho un amico che fa il capogruppo. Tremila al giorno.

Gente, il doppio della mia paga di bancario.

- Per domani ormai è tardi. Per dopodomani. Vi telefono. - Aldo se ne va inseguito dal coro dei ringraziamenti.

Abbiamo disfatto le valigie e messo la roba nei cassetti. Il Padùlo no, dice che è fatica sprecata: poichè non siamo lustri ma opachi il cinema non è fatto per noi e tra quindici giorni si torna tutti a casa. Tuttavia conviene che Roma non poteva accoglierci meglio e festeggeremo pranzando in trattoria. Chiaro che non diventerà un'abitudine, ma per la prima sera...

C'è un buco seminterrato nel palazzo a fianco con dentro tavoli di marmo. Si mangia senza tovaglia e un cartello avverte: "lire 270 prezzo fisso". Se qui si mangia con 270 lire e se ne guadagnano tremila al giorno, i biellesi che si rompono la schiena in fabbrica sono proprio, come dicono tutti qui?, ah sì: stronzi.

Spaghetti al sugo e frascati fresco.

Una goccia di sugo cade sul marmo lucido e lo pulisco col tovagliolo di carta: dove c'era la macchia il lucido se n'è andato. Mamma, dove sono le patate bollite e la trota lessa per il mio fegato itterico convalescente? Questa roba corrosiva è come una roulette russa: o la va o la spacca. Mi sento ottimista e ho una gran fame, si vede che l'aria mi fa bene.

Il Peppo prende la sua citrosidina. Lo fa sempre quando pranza fuori.

La prima notte romana. Qui l'aria ha sapore. Dolciastra come i fiori di tiglio, venata da zaffate di amatriciana e abbacchio al forno.

Facciamo a piedi il giro di piazza dei Cinquecento. Immensa per chi, come noi, arriva dalla "provincia". E la fontana dell'Esedra ha statue provocanti... forse non dovevo baciarla solo sui capelli quella là...

Ma qui è pieno di ragazze e al Centro Sperimentale incontrerò le più belle del mondo.

Via Tuscolana, km. 10,300. Il Centro Sperimentale di Cinematografia è bello. Non dico architettonicamente, ma lo sento bello. Però son tutti in ferie. Riapre il 28 agosto.

Cinecittà è sull'altro lato della strada, trecento metri più in giù. Ci andiamo con la Gaùe, fin davanti ai duplici cancelli.

Proviamo ad entrare?

Il Peppo ingrana la prima, punta sul cancello, ma poi sterza. C'è un portiere in divisa. Facciamo un altro giro. Il portiere è sempre là. Entra una cadillac. Gente di cinema, si vede subito. Giriamo ancora. La cinta gialla, i cancelli, il portiere.

- Guarda laggiù - fa il Padùlo- si vedono le case false!-

I tetti di Mosca sporgono oltre quelli dei famosi teatri dove si fa il cinema.

Giriamo un'altra volta, poi il Peppo lancia la Gaùe sulla Tuscolana del ritorno: tanto non ci avrebbero lasciato entrare.

Ci telefona Aldo: domattina alle quattro trovarsi davanti ai cancelli di Cinecittà. Saremo nella squadra di Pietro.

Alle quattro? Sì ed è meglio non andarci in macchina. Ci sarà un po' di confusione e comparse che arrivano in macchina darebbero nell'occhio. Ma bisognerà alzarsi alle due e mezzo per prendere il tram notturno delle tre! Ci vuole quasi un'ora per arrivare a Cinecittà!

Aldo ride al telefono: di notte il tram corre di più. Ci metterà trenta minuti, possiamo dormircela tutta fino alle tre del mattino.

Io, il Peppo e il Padùlo ci bagniamo gli occhi sotto lo scroscio del lavello e intanto ci scambiamo occhiate rassicuranti: in fondo anche noi, quando si va in montagna, ci si alza col buio.

- Chi va in montagna è un picio.- sentenzia il Padùlo sciacquandosi abbondantemente il pene. Vuoi vedere che gli operai biellesi sono meno picio di quel che mi era sembrato?

Alle tre del mattino a Termini non arrivano neppure i treni. La stazione chiude dalle due alle quattro. Fa freddo e la piazza immensa sembra ostile. Eppure, laggiù, dall'altra parte della pianura al neon, c'è il trenino azzurro per Cinecittà. Il trenino azzurro dei sogni, come lo chiamano i rotocalchi.

Per noi è il trenino azzurro del sonno. Ci saliamo sbadigliando e ci lasciamo scuotere per mezz'ora abbondante.

Sul piazzale di Cinecittà il trenino fa capolinea e con una manovra ad "U" ci riporterebbe a Termini ma il bigliettaio rivuole i soldi del biglietto. Ci svegliamo e scendiamo.

Sapete che fa l'alba alle quattro del mattino senza l'ora legale? Balugina. E nel rosa dell'aurora susseguente realizziamo che il piazzale è pieno di gente.

Noi siamo della squadra di Pietro, ma Pietro chi è? Viviamo minuti d'angoscia. Quei picio venuti dalla provincia sono andati fino a Cinecittà e poi non saputo trovare Pietro!

Strane facce oppure straniti gli occhi miei. Gruppi di zingari. Studenti coi libri sotto il braccio ( a casa avran detto che le lezioni cominciano prima?). Impiegati con cravatta che si son dati malati in ufficio. Donne brune. Donne bionde. Donne incinte. Donne vecchie. Ragazze truccatissime (sperano di essere scoperte?). Bambini. Una suora (sarà già in costume di scena?). Qualche sguardo stralunato, di quelli che annunciano il monologo "essere o non essere". Molti morti di fame pallidi, molti morti di fame abbronzati più Basilicata che Costa Azzurra.

Il Peppo cerca di non mescolarsi, col mento aguzzo puntato verso il cielo afferma: sono qui per curiosità, io sono un regista premiato ai festival.

Il Padùlo sogghigna della nostra timidezza mal nascosta:

- Bell'ambientino eh? Qua metà son froci, metà puttane e il resto ladri e assassini. Sapete che è l'unico posto al mondo dove nessuno ti chiede chi sei? Scappi dalla galera e zac! Cinecittà!-

Scruto i miei vicini di calca: molti potrebbero essere scappati da Regina Coeli da poco.

Alle cinque il sole comincia a scaldare e si sta stretti. C'è un movimento, si apre uno dei cancelli. Poi cominciano a chiamare. E' un incrociarsi di grida, come in borsa.

- Da Otello, da Otello, da Otello! I miei dieci!

- Carmine! Qui Carmine! I dieci di Carmine muovano il culo!-

- Cesare, venite da Cesare! Chi deve andare a farsi fottere da Cesare!-

- Da Bellicapelliiii!- strilla un grasso calvo come il pomo del letto di mia nonna.

E la folla spinge, si mischia come un mazzo di carte viventi.

- Pietro! Pietro! san Pietro!- e agita un mazzo di chiavi che suona come un campanello.

- San Pietro!- urlo io e do una culata alla suora, monto sui piedi di un assassino, respingo un frocio, mi faccio largo tra due puttane e agito una mano verso quelle chiavi tintinnanti.

- Il mazzo, il mazzo, il mazzo! Attaccarsi al mazzo!- giacula l'ineffabile Pietro cercando di spostarsi verso un angolo più quieto del piazzale. Io lo seguo, sulla mia scìa il Padùlo e ultimo Peppo infastidito. Grido a Pietro:

- Siamo i tre di Biella!-

- Di che?-

- Di Biella! Quelli di Aldoooo!-

Forse ha capito perché spunta qualcosa sul notes che tiene insieme alle chiavi.

Qua e là esplodono contestazioni. Sembra che da Otello siano in undici e quindi c'è uno che ci marcia.

Nei pressi di BelliCapelli un energumeno rosso fuoco urla sul viso di un piccoletto tutto Calabria:

- A gran fijo de 'na mignottaaaaaa!- se chiudesse la bocca gli potrebbe mordere il naso. Il piccoletto non si scompone e scrolla le spalle:

- E che t'ho da dì, si conosci la mamma...- e se ne va insieme agli altri nove lasciando il rosso a bocca spalancata e senza fiato per replicare.

Dai cancelli spunta uno col megafono: attenzione, attenzione. Adesso tutti riceverete un numero. Conservatelo bene perché stasera chi presenta il numero becca la grana e chi l'ha perduto se lo becca nel culo.

- Bell'ambientino- è il rinforzo sarcastico del Padùlo.

Ci vuole mezz'ora per riuscire a metterci in colonna e passare dai sospirati cancelli. Ci danno un tagliandino con un numero stampato. Vale tremila lire. Siamo entrati come un gregge, ma siamo entrati. Davanti a me Cinecittà!

Pietro mi dà uno spintone:

- Tu! Dormi in piedi?-

Se noi siamo le pecore questo è il mio cane da pastore. Abbaia su e giù lungo i suoi dieci per tenerli in fila mentre gli aiuti degli aiuti registi ci passano in rivista:

-Popolano, popolano, soldato, soldato, popolana, suora, popolano, soldato. -

Guardano il Peppo che fa il suo sguardo da ranger e sentenziano:

-Ussaro. - poi uno grida indicandomi:

-Guarda questo quanto è lungo!- parla di me ma non con me.

-Fagli fare il pope!-

-Pope!- e poi dà un'occhiata al Padùlo biondo: -Nobile! -

Al Padùlo sembra una promozione sociale: lui nobile, unico del gruppo.

Quando facciamo la fila per i costumi sono quasi le dieci e fa un caldo omicida. Dalle tre alle dieci sono sette ore, sono già stanco e ben lontano dal cominciare.

La scena prevede l'inverno di Mosca e scopro che i pope vestivano con trapunte bisunte dal peso di venti chili, avevano un manicotto di pelliccia immondo, un colbacco lurido in testa e puzzavano orrendamente , almeno se devo giudicare dal costume che mi danno. Per vestirsi bisogna prima spogliarsi e mi danno un altro tagliando numerato: chi lo perde torna a casa nudo.

Alle undici sono al trucco per l'attacco della barba che per un pope pare che sia essenziale. Mi mettono anche un "girello", ossia una mezza parrucca che sporge dal colbacco. Per le scarpe i numeri 45 son finiti. Dicono che mi devo arrangiare con un 43. Ma non posso tenere le mie? Per carità! Se King Vidor se ne accorge l'aiuto dell'aiuto perderebbe il posto!

Mi sequestrano immediatamente le mie scarpe e io incastro i piedi in quel 43 da Alì Babà.

E' mezzogiorno e colo sudore come l'acqua sulle belle dell'Esedra. I peli della barba finta danno un prurito pidocchioso e dalla gualdrappa si leva un prepotente odore di pope. Sulla strada principale di Mosca mi trovo a fianco una biondona che arriccia il naso:

- Ammazza quanto feti, oh!-

- Guarda che non sono io, è il pope.- mi difendo.

Siamo cinquemila schierati sulla piazza. Però io, i popolani, i soldati e gli ussari in piedi, il nobile Padùlo invece sbracato in carrozza. Il sudore mi lava il corpo nudo sotto il costume siberiano e cerca invano di bagnarmi i piedi. Le gocce esitano intorno al morso che il cuoio della pelle delle scarpe dà alle pelle dei miei piedi e poi scivolano sulla morta tomaia.

Torna il megafono: tutti pronti per una provaaa!

I capigruppo percorrono il perimetro dei loro greggi abbaiando e facendo alzare a calci quelli infrattati in zone d'ombra o che fanno la pennica dietro le finte pareti del Cremlino.

Ecco il regista! King Vidor è un vecchietto tutto bianco. Sale su un podio e dà un'occhiata, poi parla a bassa voce con uno degli aiuti registi, un cristone italiano dall'aria texana.

- Pronti per una provaaa! Attenzione! Allora, siamo a Mosca e fa freddo! Ficcatevelo nel cranio: fa freddo! Il primo che viene beccato a sudare o ad asciugarsi il sudore gli faccio un culo così!-

Guardo il nobile Padùlo che sogghigna dalla carrozza, mollemente disteso sul raso scarlatto.

- Ho detto che fa freddo e sta per arrivare quel fottuto di Napoleone! Voi tutti odiate Napoleone perché per causa sua dovete lasciare il tepore delle vostre case e scappare da Mosca verso il gelo della steppa! Adesso vi saranno distribuiti dei fagotti. Il primo che ne apre uno...

-...gli faccio un culo così!- è il coro dei cinquemila.

- Prendete per il culo poi vediamo chi ride ultimo. Ho detto dei fagotti. Dentro ci avete messo le cose più preziose! Ci tenete più della vostra vita! Qui in mezzo alla strada c'è la carrozza di Natascia e la macchina da presa la segue in carrello per tenere in primo piano la signorina Hepburn, però inquadra anche dietro e intorno. E voi state tutti scappando! Scap-pan-do! Questo vuol dire correre! Correre! Voglio facce stralunate dalla paura. Gente, Mosca bruciaaa!-

Un sonoro pernacchio si leva da qualche parte. I moscoviti di Trastevere sghignazzano. Ma ecco la carrozza, e al finestrino, bellissima tutta occhi, Adrey Hepburn. Tra me e lei ci saranno cinquanta metri appena!

- Pronti per la provaaa! Azione!-

La carrozza di Natascia si muove mentre la strada si riempie di noi coi fagotti. Per fortuna al pope non han dato niente perché pesano dieci chili.

Correre imbragati in costumi da Siberia sotto il sole di mezzogiorno del ferragosto romano è roba da lavori forzati. Facce rigate di sudore che sembrano lacrime. Ma è un corricchiare romano, svogliato. Qualcuno cammina ciondolando le braccia come se corresse veloce. Due o tre cento non si muovono proprio.

Io corro dietro alla carrozza per vedere come fanno il "carrello". La macchina da presa è montata su un'enorme gru che viene spinta lungo un binario da cinque robusti macchinisti.

Dietro la macchina da presa siede un tizio che gioca a fare l'altalena parlando in inglese con un altro che ruota delle manovelle. La macchina è all'altezza del finestrino della carrozza e credo che di tutto il casino che stiamo facendo a Mosca veda ben poco.

- Stop. Pausaaa!- urla il megafono.

Adesso sì che la gente corre. Mollano i fagotti e scattano come centometristi lasciando me, l'ussaro Peppo e il nobile Padùlo avvolti nella polvere rossa della strada di Mosca.

Scrollo la testa con supponenza piemontese: che esagerati questi romani, corrono solo per andare a riposare!

Noi tre biellesi, calmi e tranquilli, arriviamo ultimi sotto l'enorme tettoia che dà ombra ad una sterminata fila di tavoli e panche. Capisco alla prima occhiata: cinquemila persone si pigiano per infilarsi tra due transenne e arrivare ad uno dei due inservienti che servono la pastasciutta con mestolate frenetiche, colanti sudore che aggiunge sale al sugo, ma nettamente rassegnati a non farcela. I maccheroni arrivano su lamiere ondulate di tre metri per due, portate da quattro schiavi seminudi. Ce n'è per tutti di pasta, ma non di tempo.

A Roma fai come i romani. E se i romani corrono, corri anche tu. Quando tocca a noi è finita l'ora di pausa e il megafono tuona: in scenaaa!

Pietro ci leva i piatti ancora vuoti dalle mani. Chi ha mangiato ha mangiato e chi non ha mangiato... ormai sappiamo tutti qual è l'alternativa!

Alle due, allucinati dalla fame e dalla stanchezza, tre biellesi tornano a Mosca. Il nobile in carrozza, il pope e l'ussaro a piedi.

Si fa un'altra prova. L'aiuto regista cristone urla nel megafono che così non va bene. Alle tre e mezza siamo di nuovo tutti schierati ai nostri posti: sono dodici ore di fatica e nemmeno un centimetro di pellicola è stato girato.

L'aiuto regista si arma di una lunga frusta e urla:

- Questa deve essere quella buona perchè poi la luce non andrà più bene! Che dovete fare? Solo correre! Correre quando passate davanti alla carrozza. Io mi metto qui, fuori campo, e chi non corre si becca una frustata sul culo! E adesso pronti, si gira!-

King Vidor mette la scopoletta col paraluce.

- Action- suppongo che sussurri all'orecchio dell'aiuto regista che amplifica possente:

- Azioneeeee!-

Mosca si muove, la carrozza con Natascia disperata dentro, pure. L'aiuto regista fa sibilare la frusta che si abbatte inesorabile sulle nostre povere spalle di comparse: per evitare i colpi, tutti accelerano il passo. Non è proprio una corsa ma qualcosa che comincia a somigliarle. Io trotto sbilenco, coi piedi insanguinati, tutto teso ad imparare e mi accorgo che il cristone, preso dalla libidine della frusta, non bada alla macchina da presa che sta panoramicando e ha sull'obiettivo un immenso paraluce.

L'urto è inevitabile, d'istinto, come avrei fatto a Biella col Peppo, mi butto sul cristone e lo scaravento a terra. Rotolo con lui nella polvere e quello mi afferra per la gola con le enormi mani imbestialite. Fortuna che prima dello strozzo riesco a gridargli:

-La panoramica!- Le sue dita a tenaglia si fermano sulla mia carotide. Gli basta un'occhiata per capire e mi alza, mi spolvera, si scusa e si complimenta. Acchiappa una delle sedie degli attori e mi invita a sedere. Accetto lusingato, emozionato.

Poi il cristone corre via chiamato dal dovere. L'inquadratura è buona. C'è ancora tempo per un'altra.

Qualcuno si siede sulla sedia accanto alla mia. Mi volto e mi sento arrossire nella barba da pope: i grandi scuri occhioni della Hepburn mi sorridono, giuro, a cinquanta centimetri dal mio naso!

Mi dice qualcosa in italiano, ma non capisco perchè una campana mi suona nella testa. Lei sorride di nuovo e mi offre una sigaretta. Cerco di formare una pinza decente con indice e pollice e la prendo. Cerco di cercare i fiammiferi ma la gualdrappa non ha tasche e mi ricordo che fiammiferi, sigarette e tagliandini vari me li sono ficcati nelle mutande: adesso come accendo alla Audrey Hepburn? Mi accende lei e mi sembra che dica:

- Che caldo, eh?-

Annuisco con un nodo alla gola. Torna il cristone, chiama Audrey e mi dice che io posso starmene tranquillamente seduto. Guardo la Hepburn che se ne va con la sua magrezza da bambi e aspiro fumo. Accavallo le gambe e guardo Cinecittà con occhi da padrone: adesso sì che sono proprio entrato nel mondo del cinema!

 

CAPITOLO V

Per dodici giorni sono stato un pope russo. Per dodici giorni mi sono alzato alle tre di notte, ho fatto le dantesche file a Cinecittà, son corso dietro alla carrozza di Natascia e ho soccorso soldati feriti insieme a May Britt dalle bianche poppe posate sulla scollatura balconata mentre le vittime, che avrebbero dovuto supplicare acqua, la tastavano implorando: latte, latte!

Per dodici giorni ho fatto il fugone con la gualdrappa sollevata come una damina del settecento verso la pastasciutta e una volta sono arrivato nei primi dieci.

Per dodici giorni ho tenuto i piedi in forma numero 43, ho mangiato peli di barba, ho visto l'incendio di Mosca, ho conosciuto un vecchio attore del muto che chiudeva la sua parabola nella parte di un popolano moscovita raccontandomi di come fosse l'inventore del lucido Marga e di come gli avessero soffiato il brevetto per poche lire. Sono stato uno dei cinquemila che han fatto GUERRA E PACE e ho guadagnato trentaseimila lire trascinando per dodici sere i piedi vescicati a far la fila per rendere le scarpe, quella per rendere i costumi, quella per prendere la grana col prezioso tagliando da non perdere pena la metafora omosessuale.

L'ultimo conato muscolare è stato per dodici sere l'assalto al trenino azzurro dei sogni, anche lui uno per cinquemila.

Alle nove sono in via Castro Pretorio a mangiare un panino con gli occhi chiusi, steso sul letto. Il Peppo è venuto solo il primo giorno, il Padùlo in carrozza ha resistito tre.

Mi dicono qualcosa mentre mangio il panino, ma che può capire un povero pope russo stremato dopo una fuga da Mosca durata dodici giorni?

Capisco il tredicesimo giorno: i miei amici sono stati al Centro Sperimentale dove il Peppo ha presentato la sua domanda e i suoi documenti. Adesso tornano a Biella poichè gli esami sono ad ottobre ed è inutile star lì a girarsi il picio e quella di girarsi il picio è da molti giorni la più importante attività manuale del Padùlo. Picio è piemontesismo che sta per cazzo ma la vecchia affittacamere non si pone questioni semantiche quando entra nella stanza e vede il Padùlo che se lo gira instancabilmente a manovella.

-Carica... carica...carica...- cantilena felice e la vecchietta, che lui chiama Grumalda, fugge sconvolta per l'indignazione o per il dolore di troppo lontane nostalgie.›

Io li guardo mentre rimettono le mutande nelle valigie: che le hanno sparse a fare per i prati di Candelo se già le riportano a casa?

Il Padùlo ride: quindici giorni, aveva detto, e quindici sono.

Il Peppo alza le spalle: quello che si poteva fare è stato fatto. Ora bisogna aspettare ottobre per sapere se la domanda sarà accettata.

- Tu non vieni?-

- No. Io sono partito davvero. -

Il Peppo esita, poi rientra nella parte del duro. Afferra la valigia con uno strattone.

- Ah, un'altra cosa. Io non ho mai fatto il tuo nome. Al Centro ci sono tre posti per allievi registi, è difficile che ne entri uno, due è assolutamente impossibile. -

Mi sento venire il complesso di Cristo, ho i muscoli indolenziti e sento che han contato tutte le mie ossa.

- Torniamo su con la Gaùe, tanto tu non la sai guidare. -

Annuisco, so che non sarà tempo di macchina per un bel po' e sono troppo stanco per dargli i trenta denari.

Mi sento solo prima ancora che chiudano la porta. Chiamo la padrona di casa: io posso pagare per un letto, dovrà trovare qualcuno da mettere su gli altri. La vecchia Grumalda, ormai mi viene di chiamarla così, toglie il terzo letto e mi dice che non è difficile trovare un altro ragazzo perché Castro Pretorio è vicino all'Università.

Solo a Roma. In realtà veramente solo per la prima volta in vita mia. Guardo la gente che si parla, che si saluta. Gruppi di amici passano facendo chiasso. Solo.

Chiamo Aldo Florio per sfogare il dolore dell'abbandono e del tradimento e il romano de Roma si indigna: lui che ci ha appena conosciuti si è dato un gran da fare per aiutarci e ci facciamo lo sgambetto tra noi? Impreca e mi fa un solenne giuramento telefonico: a costo di non occuparsi d'altro fino ad ottobre io sarò uno dei chiamati all'esame di ammissione del Centro Sperimentale!

Ringrazio grato e comincio a muovermi in proprio. Risalgo sul trenino azzurro e scendo davanti al Centro. Il biglietto di raccomandazione di Blasetti e del presidente di Cinecittà l'ha già consegnato il Peppo, ma io ricordo che era indirizzato ad un certo Paciotti. Chiedo di lui. Mi fanno entrare. Salgo la scala monumentale in travertino e sfocio in un'ampia veranda che disegna un grosso quadrato con un giardino in mezzo, un chiostro moderno.›

- Così tu sei Gastaldi!-

- Lo sono. -

Mi dà una pacca sulle spalle e io allungo la mano credendo di incontrare la sua, non la trovo e l'abbasso, lui invece ha visto il mio gesto e allunga la sua nel vuoto. Ride.

- Vieni. Hai presentato la domanda?-

Gliela mostro, col pacco dei documenti e la bobina 16 mm. del film girato a Biella.

Paciotti mi accompagna in segreteria e la timbra per accettazione poi mi strizza l'occhio: voglio aiutarlo a scegliere quelli che saran chiamati per gli esami?

Sì, con entusiasmo.

Mi porta in una stanza: è colma di pacchi di domande. Ce ne sono più di diecimila: soprattutto gente che spera di diventare attore, ma anche quelli che sperano di diventare registi sono molti. Per i tre posti a disposizione Paciotti deve selezionare una ventina di candidati a sostenere l'esame, i primi tre avranno l'ambita ammissione ai corsi. Possono essere ammessi altri due giovani come uditori, con facoltà di entrare al primo corso l'anno successivo.

La prima domanda scelta è la mia e Paciotti la spiana ben bene sulla scrivania spiegandomi:

- Qui mettiamo i prescelti. Okay?-

- C'è anche quella di quel mio amico, l'altro di Biella...-

- Ci tieni?-

- Sì, perché?-

- Niente. Ecco, l'avevo già messa da parte.- e la domanda del Peppo si posa sopra la mia.

- Diamoci da fare con gli attori adesso. Ne possiamo scegliere quaranta per una decina di posti. Attacca quel pacco là. Vedrai, la massima parte è roba da ridere.-

Comincio lo spoglio. Per gli attori è obbligatorio allegare fotografie. Fotografi di paese si sono impegnati in ritratti: una mostra del grottesco. Facce assurde rese lunari dal ritocco. Lo stile per i maschi del sud è ancora Rodolfo Valentino, quello per le femmine oscilla tra Lyda Borelli e la prima Sofia Loren, quella col ph e le tette di fuori.

E' uno spoglio troppo facile ma mi sento a disagio: so che dietro a quelle facce stralunate in espressioni improbabili ci sono montagne di sogni come i miei. E i sogni se ne fregano di essere improbabili.

- Questa me la porto a letto!- sventola la foto di un bikini minuscolo fiorito su un corpo perfetto. Le do un'occhiata: due grandi occhi scuri, un volto triangolare con una massa di capelli forse castani forse rossi. Così Mara Ombra, come recita il retro della foto, va ad inaugurare il piano della scrivania riservato alle ragazze che sosterranno l'esame per il corso di recitazione.

Paciotti prende un pacco di domande in un armadietto e le posa tutte su quel bikini da orgasmo. Lo guardo interrogativo e mi illumina:

- Questa è l'amica del direttore.-

Bella, bruna, formosetta. Approvo.

- Questa è l'amica di un cardinale. -

Mi passa la foto di una bonona riccia con grosse labbra protese in un'offerta inequivocabile.

- Questa scopa con un onorevole e questa è la DeLuca che ha fatto IL BIDONE di Fellini. I maschi: questo è Rik Battaglia che ha fatto il film con la Loren, questo è il gigolò di una vecchia ben ammanicata, questo è l'amico di quel senatore finocchio e questo è amico mio. - mi guarda irridente- Lo sai che anche il presidente di Cinecittà è frocio?-

Metto la mano sul cuore per giurare sulla mia integrità eterosessuale. Poiché i posti sono già quasi tutti assegnati la selezione si fa rapida. Che abbia ragione il Padùlo? Metà froci e metà puttane...

-Allora ci si vede a ottobre!- Paciotti mi allunga la mano mentre io gli dò una pacca sulle spalle. Quando gliel'allungo io, la pacca me la dà lui. E' destino che le nostre mani non s'incontrino.

In mezzo c'è tutto settembre. Che faccio? GUERRA E PACE ha finito le scene di massa. Qualche volta telefono ad Aldo per sentire il suono di una voce amica.

Comincio l'esplorazione di Roma allargandomi in centri concentrici dalla Stazione Termini. Esploro via Nazionale e l'Università, il Teatro dell'Opera e il Viminale.

Scambio quattro chiacchiere coi vigili. Più spesso mi ritiro nella mia stanza a leggere un libro di Urania, la collana di un genere poco conosciuto che si chiama fantascienza.

Altri spazi, altri tempi. Avventure nell'infinito, un'ottima cura contro l'angoscia della solitudine. Fanno sentire piccoli e non importanti. Danno una dimensione reale del reale.

Poi ci sono le lettere. Tengo una fitta corrispondenza con amici, amiche e naturalmente la mamma. Le spese postali incidono sui miei risparmi e mi costringo ad un piatto di spaghetti a mezzogiorno e pane con olive la sera. A volte strappo con un etto di mortadella.

La figlia ventenne della Grumalda mi passa ogni tanto una coscia di pollo e io faccio finta di non vedere che usa il letto libero in camera mia per far l'amore col fidanzato.

A metà settembre arriva un coabitante. Piccolo, simpatico, pugliese, si annuncia alla prosperosa figlia della Grumalda con uno slogan: ›

- Un figlio bello e sano? Da Michele Marcotriggiano!-

Fa Scienze Politiche e dice di aver letto il carteggio segreto Hitler-Mussolini. Mi parla di una lettera profetica del Fuehrer in cui dice che se il nazismo perderà la guerra, la Germania dominerà ugualmente l'Europa con l'aiuto dell'America perché sarà l'unica potenza in grado di fronteggiare l'espansione russa.

Per il mio nuovo compagno di stanza questa è prova di genio e i milioni di morti dei lager non pesano sulla sua coscienza, capisce però che a me pesa il vuoto che ho sempre nello stomaco e mi porta da Albrecht a mangiare il goulasch.

Per un'ora schiaccio rosette nel denso piccante sugo rosso scuro che adesso so che si chiama goulasch, poi a pancia piena, giriamo l'angolo e ci infiliamo in via CapoLeCase 10.

Io di casini conosco solo quello di Biella: ambiente familiare, dove spesso con gli amici andavamo a farci la spaghettata di mezzanotte con chitarre e fiaschi di barbera. Qualcuno a volte saliva in camera con una delle ragazze ma non era quello lo scopo principale della riunione.

Qui invece siamo nella ricercatezza. Luci rosse, professionismo freddo. E per mezz'ora chiedono cinquemila lire! E' duro in tutti i sensi rinunciare, ma il mio conto in banca perde peso troppo in fretta e non so quanto durerà la dieta. Domino i sensi pensando che cinquemila lire sono cinquanta sere a pane e olive.

Michele vorrebbe offrire anche qui, ma non mi sembra bello.

Però poi non riesco a dormire e passo la notte a leggere Asimov seduto sulla tazza del cesso per non disturbare il satollo ronfare di Michele.

Guardando il muro scrostato dall'umido nella luce dell'alba con le chiappe cerchiate dall'asse mi scopro a rigirarmi in testa una spinosa domanda: sto davvero entrando nel mondo del cinema?

   home                                                                                                  continua

torna all'indice generale                                                                     Filmografia & Bibliografia