La sazietà come malattia dell'anima
I conoscitori dell'arte medica dicono che
chi soffre di stomaco e non ha appetito, poiché dei succhi e delle secrezioni
cattive scorrono nella parte superiore del ventre, sembra essere sempre pieno e
sazio e, per questa ragione, maldisposto verso il cibo giovevole, perché il suo
appetito naturale è stato rovinato da una sazietà malata. Se gli viene
somministrata una cura medica, di modo che i succhi rinchiusi nella cavità
dello stomaco, con una porzione lassativa siano portati via, accade che gli
ritorni l'appetito per un pasto giovevole e nutriente, perché il cibo esterno
non disturba più la sua natura; segno della salute ritrovata è questo prendere
cibo non per necessità ma con desiderio e appetito. Che scopo ha per me questo
preludio? Proseguendo in modo conseguente il Logos, che ci conduce per mano ai
gradini più alti delle beatitudini, e che, secondo le parole del profeta, ha
disposto i bei sentieri dell'ascesa nel nostro cuore [Sal 83,6], ci mostra, dopo
le vie di cui si è parlato, anche quest'altra quarta via ascensiva: "Beati
coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati". Per
questo credo che sia bello, dopo aver purificato la sazietà e la pienezza
dell'anima, resuscitare in noi, per quanto è possibile, l'appetito beato di
tale cibo e di tale bevanda. Non è possibile, infatti, che un uomo sia forte,
senza che un cibo sufficiente sostenga la sua forza, né è possibile che si
riempia senza mangiare, o che si nutra senza appetito. Poiché dunque la forza
è un bene e la forza si mantiene con una sufficiente sazietà, questa poi è
prodotta dal cibo e il cibarsi viene dall'appetito, quest'ultimo, che è
principio e causa della nostra forza, dovrebbe esser ritenuto cosa beata per gli
esseri viventi. Consideriamo il cibo sensibile: non tutti desiderano le stesse
cose, ma spesso l'appetito dei commensali si distingue secondo i generi dei
cibi. C'è quello a cui piacciono i cibi dolci ed un altro che ha la passione
per quelli bollenti e dal sapore piccante; c'è chi prova piacere nei sapori
salati e chi preferisce quelli aspri. Spesso, poi, accade che non tutti abbiano
l'inclinazione al cibo che è loro giovevole; infatti, se uno è predisposto,
per alcuni fattori propri della sua costituzione, ad una malattia, accresce il
male con il genere di cibo sbagliato; se invece propende per i cibi che gli
giovano, senza dubbio vivrà in salute grazie al cibo che gli conserva il suo
buon stato. Lo stesso si dica anche del cibo dell'anima: i desideri di ciascuno
non tendono alla stessa cosa. Alcuni tendono alla gloria o alla ricchezza o allo
splendore mondano; il desiderio di altri è impegnato con i piaceri della
tavola, altri prendono, come cibo velenoso, l'invidia. Vi sono di quelli, poi,
il cui desiderio è il bello secondo natura e questo è, sempre e per tutti, ciò
che non è preferibile in grazia di altro, ma è desiderabile in se stesso,
rimanendo sempre uguale e non essendo mai offuscato da sazietà. Per questo il
Logos non chiama beati semplicemente coloro che hanno fame, ma coloro il cui
desiderio tende alla vera giustizia.
La giustizia secondo i
"filosofi"
Cos'è dunque la giustizia? Io credo,
infatti, che sia necessario, innanzi tutto, rivelare con un discorso che cosa
essa sia, cosicché, manifestatosi il bello secondo giustizia, si metta in moto
in noi il desiderio della bellezza di ciò che si è manifestato. Non è infatti
possibile essere desiderosi di ciò che non appare e la nostra natura è come
pigra e priva di slanci per ciò che non conosce, se non si fa un'idea della
cosa desiderabile grazie all'udito o alla vista. Dicono, dunque, coloro che
hanno investigato su questo problema, che la giustizia è un habitus che
distribuisce ugualmente a ciascuno secondo il merito. Viene chiamato giusto uno
che, assunta l'autorità di distribuire delle sostanze, mira all'uguaglianza e
misura la largizione in base alla necessità dei partecipanti. Se uno, investito
del potere di giudicare emette una sentenza non secondo simpatia o odio, ma,
seguendo la natura dei fatti, punisce i colpevoli, emette una sentenza di grazia
per gli innocenti e formula un giudizio secondo verità per le rimanenti
controversie, anche quest'uomo è chiamato giusto. Così è anche per colui che
fissa i tributi ai sudditi, qualora proporzioni il tributo alla possibilità, e,
sia esso padrone di casa o governatore di una città o re di popoli, governi i
sudditi con imparzialità, non lasciandosi trascinare, approfittando del suo
potere, da istinti irrazionali, ma giudicando con prontezza colui che gli è
soggetto, cercando di armonizzare la sua sentenza con il modo di vivere dei
sudditi. Coloro che definiscono il giusto con tale disposizione, riferiscono al
discorso della giustizia tutti questi comportamenti.
La giustizia secondo l'intelligenza
della fede
Io, però, volgendo lo sguardo alla
sublimità della legge divina, immagino che ci sia da pensare qualche cosa di più
rispetto a ciò che è stato detto su questa giustizia. Se infatti la parola di
salvezza è comune per tutta la natura umana, il trovarsi nelle situazioni
suddette non è proprio di ogni uomo (a pochi, infatti, spetta il regnare, il
comandare, il giudicare, il sovraintendere a beni o a qualsiasi altra
amministrazione). La massa degli uomini rientra nel numero dei sudditi e dei
soggetti ad amministrazione. Come si potrebbe dimostrare che la vera giustizia
è quella che non riguarda tutti nello stesso modo per natura? Se infatti,
stando ai discorsi dei sapienti pagani, lo scopo della giustizia è
l'uguaglianza e se, d'altra parte, l'eccellenza della posizione implica
disuguaglianza, non è possibile credere che il discorso prima esposto sulla
giustizia sia vero, poiché viene immediatamente confutato dalla disuguaglianza
della vita.
Qual è dunque la giustizia che riguarda
tutti e il cui desiderio si offre ugualmente a tutti coloro che hanno lo sguardo
rivolto alla mensa evangelica? Che uno sia ricco o povero, che serva o sia
signore, che sia nobile di nascita o schiavo, nessuna condizione né aggiunge né
toglie nulla al discorso della giustizia. Se, infatti, simile giustizia si
trovasse solo in colui che ha raggiunto una certa potenza o eccellenza, come
potrebbe essere giusto quel Lazzaro, gettato alle soglie della casa del ricco,
che non aveva nessuna carica, nessuna potenza o casa o mensa o qualcun altro di
quegli apparati che servono alla vita, attraverso cui è possibile che operi
tale giustizia? Se dunque la giustizia consiste nel comandare o nel distribuire
o nell'amministrare qualche cosa, colui che non si trova in queste situazioni è
del tutto escluso dalla giustizia. Come dunque potrebbe essere stimato degno del
riposo colui che non ha nulla di ciò attraverso cui si caratterizza la
giustizia secondo il discorso dei più? Dobbiamo perciò cercare quel genere di
giustizia il cui frutto è colto da chi la desidera secondo la promessa:
"Beati -dice infatti il Signore- coloro che hanno fame di giustizia, perché
saranno saziati".
Dannoso, per la salvezza, non è
l'istinto, ma l'eccedere i limiti dell'utilità.
è necessario che noi acquisiamo una grande
scienza delle molte e varie cose che si offrono al nostro possesso, su cui si
esercita il desiderio della natura umana, così da riuscire a distinguere, tra i
cibi, ciò che nutre e ciò che nuoce, affinché ciò che sembra essere assunto
dall'anima come cibo non procuri morte e rovina anziché vita. Non è
inopportuno, forse, attraverso un'altra delle questioni poste dal Vangelo,
chiarire il senso di ciò. Colui che condivise con noi tutto, fuorché il
peccato, e che fu partecipe con noi di tutte le sofferenze, non giudicò la fame
un peccato, né si rifiutò di fare esperienza di quella affezione, ma accolse
l'istinto della natura che tende al nutrimento. Infatti rimase digiuno quaranta
giorni, poi ebbe fame; quando volle, diede infatti alla natura l'occasione di
fare il suo compito. Ma l'inventore delle tentazioni, quando si accorse che la
fame era riuscita a pervadere anche il Signore, decise di eccitare l'istinto con
le pietre. Questo significa pervertire il desiderio del cibo naturale in ciò
che è estraneo alla natura. Dice infatti il tentatore: "Comanda che queste
pietre diventino pane" [Mt 4,3]. Quale danno ha recato l'arte
dell'agricoltore? Per quale ragione sono disprezzati i semi così da disprezzare
il nutrimento che ne deriva? perché è misconosciuta la sapienza del Creatore,
come se non nutrisse convenientemente l'umanità grazie ai semi? Se infatti la
pietra appare ora più idonea come fonte di nutrimento, significa dunque che la
sapienza di Dio ha fallito, dato che la provvidenza nei confronti della vita
umana è manchevole. "Comanda che queste pietre diventino pane".
Questo il tentatore ripete ancora oggi a coloro che sono messi alla prova dal
proprio desiderio e, mentre lo dice, egli, per lo più, spinge coloro che lo
guardano a fare il pane dalle pietre. Quando, infatti, l'istinto travalica i
limiti necessari dell'utilità, di cos'altro potrebbe trattarsi se non di un
consiglio del diavolo che, in quel passo del Vangelo abolisce il nutrimento che
viene dai semi ed eccita l'istinto verso ciò che è estraneo alla natura? Si
nutrono di pietre coloro che hanno posto il loro pane nell'avidità, che si sono
procurati con le loro ingiustizie mense ricche e fumanti; l'apparato dei loro
pranzi è una messa in scena escogitata per lo sbalordimento dei presenti,
esorbitante rispetto alla necessità della vita. Che cosa c'è di comune tra la
necessità della vita e l'argento che non può essere mangiato e che è
accumulato in maniera tale da essere pesante e difficile da trasportare? Che
cos'è la fame? Non è il desiderio di ciò di cui si ha bisogno? Quando
l'efficacia del nutrimento svanisce, ciò che rimane è riempito di nuovo da una
aggiunta appropriata. Il pane, infatti, o qualche cosa d'altro di mangiabile, è
ciò a cui mira la natura. Se uno conduce dunque dell'oro alla bocca, anziché
del pane, curerà forse il suo bisogno? Se dunque qualcuno cerca materie non
commestibili in luogo del cibo, ha a che fare con le pietre, poiché una cosa
cerca la natura, in un'altra è occupato lui. Dice la natura, esprimendosi
esclusivamente per la sensazione della fame, che ora ha bisogno di cibo: dopo ciò
bisogna introdurre di nuovo, in ricambio, nel corpo, quanta energia si è
dileguata. Ma tu non ascolti la natura! Tu non gli dai, infatti, ciò che cerca,
ma ti preoccupi che la tua tavola si appesantisca di argento e ricerchi i
cesellatori del metallo. Osservi curiosamente la storia rappresentata dalle
immagini scolpite nei vari metalli, come se fossero riportate nelle incisioni,
grazie alla precisione della tecnica artistica, le passioni e i costumi degli
uomini; così puoi riconoscere l'ardore dell'oplita quando solleva la spada per
uccidere, la sofferenza di chi è colpito, quando, contorcendosi per la ferita
mortale, sembra che gema attraverso l'immagine; inoltre guardi l'impeto del
cacciatore e la ferocia della fiera e quante altre cose gli uomini vani, con
simili minuziosità, amano riprodurre sui materiali destinati alle mense. La
natura desiderava bere, tu, invece, prepari tripodi costosi, lavatoi, crateri,
anfore ed altre migliaia di oggetti che non hanno nulla in comune con l'utilità
desiderata. Non è dunque evidente che tu, operando così, dai ascolto a colui
che ti consiglia di guardare la pietra: spettacoli turpi, drammi sensuali
attraverso cui gli uomini si spianano la via della sequela dei vizi, alimentando
il cibo della licenziosità? Questo è il consiglio che dà il nemico
relativamente al cibo; questi alimenti, anziché l'uso corretto del pane, egli
consiglia, volgendo lo sguardo alle pietre. Colui che distrugge le tentazioni,
però, non bandì dalla natura la fame, come se fosse la causa dei mali, ma,
rigettando solamente la futilità che si era introdotta per consiglio del
nemico, lasciò che la natura si amministrasse entro i propri limiti. Come
coloro che filtrano il vino non misconoscono la parte utile in esso, per il
fatto che vi è mescolata la schiuma, ma, separando il superfluo con un filtro,
non rifiutano l'uso della parte pura, così il Logos, che esamina e discerne ciò
che è estraneo alla natura con una sottile ed attenta visione, non bandì la
fame, considerandola principio di conservazione della nostra vita, ma filtrò e
rigettò le futilità che si erano intrecciate al bisogno, quando disse di
conoscere quel pane che nutre veramente: quello che grazie alla Parola di Dio si
adatta alla nostra natura. Se dunque Gesù ebbe fame, si dovrebbe stimare l'aver
fame cosa beata, quanto questa operi anche in noi, ad imitazione del Signore. Se
dunque conosciamo ciò di cui ebbe fame il Signore, conosceremo fino in fondo la
potenza della beatitudine che ci è ora proposta.
L'appetito beato è il desiderio della
volontà di Dio, che è la salvezza dell'uomo.
Di che genere è dunque il cibo che Gesù
non si vergognò di desiderare? Egli dice ai discepoli dopo il dialogo con la
samaritana: "Il mio cibo è fare la volontà del Padre mio" [Gv 4,34].
è manifesta, poi, la volontà del Padre, che vuole che tutti gli uomini siano
salvati e che giungano alla conoscenza della verità. Ora, se Lui desidera che
noi siamo salvati e se il suo cibo è la nostra vita, noi abbiamo imparato che
uso fare di questa disposizione dell'anima. Qual è dunque? Che noi abbiamo fame
della nostra salvezza! Che abbiamo sete della volontà divina, che è la nostra
salvezza. Come sia dunque possibile comportarci in occasione di simile fame, lo
abbiamo imparato ora nella beatitudine. Chi desiderò infatti la giustizia di
Dio trovò ciò che è veramente desiderabile. Egli colmò il suo desiderio non
in uno soltanto dei modi in cui questo appetito può trovare compimento: non
desiderò, infatti, la partecipazione alla giustizia solo come cibo; l'appetito
sarebbe infatti incompleto se rimanesse in questa sola disposizione; ora Dio
rese questo bene anche bevanda per indicare, attraverso la sensazione della
sete, il calore e il bruciore del desiderio. Divenuti infatti, in un certo
senso, aridi ed infiammati al momento della sete, prendiamo la bevanda con
piacere, come cura per la nostra situazione. Poiché di un unico genere è
l'appetito del cibo e della bevanda, diversa, tuttavia, è la disposizione per
ciascuna di queste due sensazioni, il Logos, per prescriverci il vertice del
desiderio per il bene, chiama beati coloro che provano questi due bisogni nei
confronti della giustizia, la fame e la sete, come se fosse sufficiente che ciò
che si desidera si armonizzasse reciprocamente con entrambi i desideri e
diventasse nutrimento solido per chi ha fame e sostanza da bere per colui che
con la sete si attira la grazia. "Beati coloro che hanno fame e sete di
giustizia perché saranno saziati". è da ritenere cosa beata, dunque, aver
appetito della giustizia; ma se uno provasse la stessa affezione per la
temperanza o per la sapienza o per la prudenza o per qualsiasi altra forma di
virtù, questa il Logos non la stimerebbe forse beata?
L'unità della virtù.
Probabilmente ciò che è stato detto ha
questo significato: la giustizia è solo uno degli aspetti che si pensano
riferiti alla virtù. Spesso la Sacra Scrittura, per consuetudine, con la
menzione della parte comprende l'intero; così fa quando interpreta la natura
divina con alcuni nomi: "Io sono il Signore -dice la profezia, come se
provenisse dalla persona di Dio- questo è il mio nome eterno, memoriale di
generazione in generazione" [Is 42,8], e di nuovo dice altrove: "Io
sono Colui che è" [Es 3,1] e altrove: "Io sono misericordioso" [Es
22,27]. La Sacra Scrittura sa chiamare Dio anche con altri innumerevoli nomi che
indicano la sua sublimità e magnificenza, così, grazie ad essi, noi abbiamo
imparato che quando la Sacra Scrittura ne cita uno, tacitamente, tutto l'elenco
dei nomi è pronunciato insieme ad esso. Non è ammissibile, infatti, che quando
Dio viene chiamato "Signore", non sia anche secondo tutti gli altri
nomi; piuttosto attraverso quel nome, ognuno degli altri viene richiamato. Perciò
abbiamo imparato che la parola divinamente ispirata sa comprendere, attraverso
una, molte parti. Anche qui, dunque, il Logos, dicendo che la giustizia è
offerta a coloro che ne hanno fame e che per questo sono detti beati, indica
attraverso questa forma di virtù anche tutte le altre, così che sia stimato
ugualmente beato anche colui che ha fame di prudenza, di coraggio, di temperanza
e di qualsiasi altro aspetto sia compreso dal concetto stesso di virtù. Non è
infatti possibile che una forma della virtù, separata dalle rimanenti, sia per
se stessa la virtù perfetta. Se con essa, infatti, non fossero contemplati gli
altri beni, sarebbe del tutto necessario che prendesse posto il suo contrario. E
contraria alla temperanza la licenziosità, alla prudenza la sconsideratezza e
per ciascuna cosa concepita come bene, ce n'è una concepita come suo contrario.
Se dunque tutte le virtù non fossero contemplate insieme con la giustizia,
sarebbe impossibile che ciò che resta fosse bene. Non si potrebbe dire,
infatti, che la giustizia è stolta o temeraria o licenziosa o qualsiasi altro
vizio. Se il discorso della giustizia esclude tutto ciò che è cattivo, essa
senza dubbio comprende in sé ogni bene. Bene è, poi, tutto ciò che è secondo
virtù. Dunque, in questo caso, con il nome di giustizia è indicata ogni virtù;
coloro che hanno fame e sete di essa sono chiamati beati dal Logos che annuncia
loro la pienezza di quanto desiderano. "Beati -Egli dice- coloro che hanno
fame e sete di giustizia, perché saranno saziati".
Il "cattivo infinito": vanità
del desiderio, incompiutezza del godimento.
Ciò che è stato detto a me pare
significhi questo: nulla di ciò per cui ci si dà da fare, in questa vita, per
il piacere, soddisfa coloro che si affannano per esso, ma, come afferma in
qualche passo la Sapienza enigmaticamente: "Un vaso bucato è l'occupazione
nei piaceri" [cfr Prv 23,27]; attingendo sempre al piacere con ansia,
coloro che si danno da fare in queste occupazioni mostrano una fatica che non
trova mai pieno compimento, poiché, mentre versano sempre qualche cosa
nell'abisso del desiderio, aggiungendo piacere a piacere, non saziano il
desiderio. Chi sa il limite dell'avarizia che si dovrebbe realizzare quando gli
avari raggiungono l'oggetto ricercato? Chi, smanioso di gloria, si acquieta
nell'imbattersi in ciò che cercava? Chi ha saziato il piacere nelle musiche,
negli spettacoli o nella pazzia e nella smania per il ventre e per il sesso, che
risultato trae da tale godimento? Non se ne vola via, forse, proprio quando si
avvicina, ogni forma di godimento alimentato dal corpo, non rimanendo in coloro
che l'hanno toccato neppure per brevissimo tempo io? Impariamo dunque dal
Signore questo sublime insegnamento: solo la ricerca della virtù che è in noi
ha solide e reali basi. Colui, infatti, che si è comportato rettamente, secondo
qualcuna delle virtù sublimi come la temperanza, la moderatezza, il timor di
Dio o qualcun altro degli insegnamenti divini ed evangelici, non gode di una
gioia transitoria ed instabile per ogni azione retta, ma la sua gioia è
costante, permanente e si estende a tutto lo spazio della vita. Perché? Perché
queste azioni è possibile compierle sempre. Non c'è un momento particolare in
tutto lo spazio della vita in cui siamo sazi di compiere il bene. La temperanza,
infatti, la purezza, ciò che è costante in ogni bene ed è immune dal male, è
sempre in opera; finché si volga lo sguardo alla virtù si ha anche una gioia
durante tutto l'operare. Per coloro che si riversano in stolti desideri, invece,
anche se l'anima è completamente rivolta alla licenziosità, non è possibile
un godimento continuato. Infatti la sazietà arresta il desiderio goloso del
cibo, il piacere di colui che beve viene spento insieme con la sete; così è
per tutte le altre cose di questo genere: hanno bisogno di un certo tempo e di
un certo intervallo perché, illanguiditosi il senso di piacere e di pienezza,
l'appetito di colui che gode sia eccitato di nuovo. Il possesso della virtù,
invece, in coloro in cui si sia stabilito una volta per tutte con sicurezza, non
è misurato dal tempo né limitato dalla sazietà, esso offre sempre a coloro
che vivono secondo virtù, una esperienza dei beni che gli sono propri, sempre
pura, nuova e al suo colmo. Perciò il Logos di Dio promette la pienezza a
coloro che hanno fame di questi beni, una pienezza che non ottunde con la sazietà,
ma riaccende l'appetito. Questo è dunque l'insegnamento datoci dal Signore
mentre predicava dal sublime monte dei pensieri: il nostro desiderio non si
tenga occupato in nulla di ciò che è tale da essere irraggiungibile per coloro
che vi aspirano, la cui fatica risulta perciò vana e assurda; è come per
coloro che inseguono il vertice della loro ombra: la loro corsa porta
all'infinito, poiché sempre, velocemente, ciò che è inseguito si sottrae
all'inseguitore. L'appetito si volga invece là dove lo sforzo, per chi lo
compie, diviene possesso. Colui, infatti, che ha desiderato la virtù, fa del
bene un proprio possesso, poiché vede in sé ciò che desiderava. Beato perciò
chi ebbe fame di temperanza: sarà infatti riempito di purezza. La pienezza poi,
come è stato detto, non respinge, ma rafforza l'appetito, ed entrambe le parti,
pienezza e desiderio, si accrescono reciprocamente con equità. Infatti il
possesso dell'oggetto desiderato tiene dietro al desiderio della virtù e,
d'altra parte, il bene inesauribile, interiorizzato, ha portato gioia all'anima.
La natura di questo bene, infatti, è tale che non reca dolcezza, a colui che ne
gode, solo nel presente, ma offre all'anima, come frutto, la gioia in ogni
momento del tempo. Infatti il ricordo di ciò che è stato vissuto rettamente,
la vita presente, se è condotta virtuosamente, l'attesa della ricompensa,
rallegrano l'uomo retto ed io credo che tale ricompensa, nuovamente, non
consista in altro che nella virtù, che è frutto di coloro che operano
rettamente e premio per le opere rette.
Il cibo di cui aver fame e sete è
Cristo, il Logos di Dio, che è la vera virtù.
Se poi si rende necessario rivolgersi ad un
discorso, per certi versi ardito, dirò che il Signore mi sembra proporre se
stesso all'appetito degli ascoltatori, quando parla di virtù e giustizia. Il
Signore, che divenne per noi sapienza di Dio, giustizia, santità, redenzione,
ma anche pane che discende dal cielo, acqua vivente! Di che cosa confessa di
aver sete Davide, offrendo a Dio questa beata sofferenza dell'anima, quando dice
in un salmo: "L'anima mia ha sete di Dio, il forte, il vivente; quando
giungerò e comparirò al cospetto di Dio?" [Sal 41,3]. Quel Davide, che a
me sembra essere stato introdotto dalla potenza dello Spirito nelle magnifiche
dottrine del Signore, predisse a se stesso la pienezza di simile appetito; dice
infatti: "Nella giustizia comparirò al tuo cospetto, sarò saziato al
vedere la tua gloria" [Sal 16,15]. Questa è dunque la vera virtù secondo
il mio discorso: ciò che è privo di commistione con il peggio e che comprende
ogni concetto relativo al meglio. E questo è lo stesso Logos Dio, la virtù che
ha coperto i cieli, come spiega Abacuc [3,3], e giustamente sono stati chiamati
beati coloro che hanno fame di questa giustizia di Dio. Perciò, a colui che ha
gustato Dio, come dice il salmo [33,9], accade così: avendo ricevuto Dio in se
stesso, diviene ripieno di ciò di cui aveva sete e fame, secondo la promessa di
Colui che dice: "Io e il Padre verremo e prenderemo dimora presso di
lui" [Gv 14,23], avendo già preso dimora lì, evidentemente, lo Spirito.
Così a me pare che anche il grande Paolo, che aveva gustato dei frutti
ineffabili del paradiso, fosse pieno di ciò che aveva gustato, pur rimanendo
sempre affamato. Paolo confessa, infatti, di essere stato riempito dall'oggetto
del suo desiderio, quando dice: "Vive in me Cristo" [Gal 2,20], e si
protende sempre in avanti, come se fosse affamato, dicendo: "Corro non
perché ho già ottenuto o sono già perfetto, ma perché possa
comprendere" [Fil 3,13]. Ci sia consentito dire, ipoteticamente, secondo il
nostro arbitrio, qualche cosa che non si trova in natura. Come per il cibo
materiale, se nulla di ciò che è preso come nutrimento venisse rigettato, ma
fosse assunto tutto intero per l'aumento della statura del corpo, i corpi si
dovrebbero alzare notevolmente, perché il nutrimento giornaliero alimenta la
grandezza, così quella giustizia ed ogni virtù che la segue rende sempre più
alti quelli che vi partecipano, perché, mangiata alla maniera del cibo
spirituale, non viene eliminata accrescendo continuamente la grandezza. Dunque,
se vomitata ogni sazietà del vizio, pensiamo a quella beata fame, abbiamo fame
della giustizia di Dio perché possiamo giungere alla sua pienezza, in Cristo
Gesù nostro Signore, a cui è la gloria nei secoli dei secoli. Amen.