ERRORI
E SCOPERTE CASUALI
Gli scienziati esplorano mondi sconosciuti e quindi è normale che
commettano degli errori; questi tuttavia non rappresentano, come qualcuno
potrebbe pensare, un aspetto negativo della ricerca scientifica, anzi, molto
spesso sono proprio i fallimenti che costituiscono gli stimoli al progresso
della scienza. L'aspetto negativo della ricerca scientifica è semmai l’opposto, cioè è rappresentato dalla pretesa, soprattutto da parte degli scienziati già affermati, di essere infallibili. Si è verificato molto spesso che scienziati di grande prestigio si siano intestarditi nel difendere alcune teorie chiaramente sbagliate rallentando, colpevolmente, il progresso della ricerca. La storia dimostra invece che molte scoperte hanno richiesto più spregiudicatezza, creatività e apertura mentale che non competenza e conoscenza. 1. BERZELIUS E
AVOGADRO
Uno dei casi più interessanti, da questo punto di vista, fu quello del
barone Jöns Jacob Berzelius (1779-1848), insigne chimico svedese, seguace di
Dalton, il quale, nel tentativo di mantenere in vita le teorie che era riuscito
a formulare e che, attraverso gli esperimenti, aveva cercato di dimostrare,
ostacolò per cinquant’anni il progresso della chimica. Egli si era
intestardito nel ritenere che il legame fra gli atomi dovesse essere sempre e in
ogni caso di natura elettrica; non poteva quindi ammettere che due atomi uguali
potessero unirsi a formare una molecola come aveva suggerito il chimico torinese
Amedeo Avogadro (1776-1856). Due atomi uguali, ad esempio due atomi di idrogeno
– egli diceva – dovrebbero, infatti, avere carica dello stesso segno e
quindi respingersi e non attrarsi per formare una molecola di H2, la
quale pertanto non poteva esistere. Berzelius godeva, a quel tempo, di fama e
prestigio indiscussi tanto da scoraggiare gli altri chimici
all’approfondimento del problema.
Con un oppositore influente e autoritario come
fu Berzelius l’ipotesi molecolare di Avogadro non venne accettata dai chimici
fino a quando un’irrimediabile confusione nella ricerca della struttura della
materia non li costrinse a farlo. Fu nel famoso congresso internazionale di
Karlsruhe nel 1860 che un altro chimico italiano, Stanislao Cannizzaro
(1826-1910) originario di Palermo ma insegnante nell’Università di Genova,
dimostrò l’enorme valore delle conclusioni cui era pervenuto Avogadro. In
verità l’ipotesi di Avogadro spiegava in modo chiaro e coerente alcune leggi
della chimica senza le quali non era possibile risolvere certi problemi
fondamentali come quello relativo alla determinazione dei pesi atomici e alla
conseguente definizione dei rapporti ponderali fra atomi all’interno dei
composti. Così, per difendere ostinatamente un dogma dimostratosi in seguito
del tutto errato, il progresso della chimica si bloccò per lunghi anni e
Avogadro morì senza vedere riconosciuta l’esattezza della sua intuizione. 2.
FRÉDÉRIC E IRÈNE JOLIOT-CURIE
Molte scoperte e invenzioni
sono avvenute assolutamente per caso ma, come diceva anche il biologo francese
Louis Pasteur, “il caso favorisce solo le menti più preparate”. Talvolta,
anche attraverso le menti più eccelse passa, inatteso, un avvenimento di portata
universale e resta, tuttavia, inosservato. E’ questo il caso della scoperta
del neutrone, la particella che assieme al protone costituisce il nucleo
dell’atomo.
Era il gennaio del 1932 quando i coniugi Frédéric
e Irène Joliot-Curie (figlia quest’ultima di Pierre e Marie Curie premi Nobel
per la fisica nel 1903 che, quando si sposò, per trasmettere ai figli il nome
di genitori tanto famosi, unì, a quello del marito, il proprio cognome) stavano
sperimentando le proprietà di una particolare radiazione ottenuta bombardando,
con particelle a
(nuclei di elio) molto veloci, campioni di boro e di berillio. A quel tempo
protone ed elettrone erano già stati scoperti; il primo, di carica positiva,
come costituente fondamentale del nucleo atomico e il secondo come particella di
carica negativa che gira intorno al nucleo al pari di un pianeta che gira intorno al Sole. Si
presumeva però che oltre ai protoni, nei nuclei atomici più complessi, vi
dovessero essere altre particelle dotate di massa ma non di carica. Queste
supposte particelle neutre non erano facili da osservare proprio perché prive
di carica, mentre i sistemi di rilevazione in uso a quei tempi erano tarati solo
per individuare le particelle provviste di carica.
La radiazione molto intensa proveniente dal boro e dal berillio (colpiti
dalle particelle a)
veniva diretta su un blocco di paraffina dal quale usciva un gran numero di
protoni. Sennonché, in base ai calcoli, l’energia della radiazione che
emergeva dai due metalli e il numero dei protoni che uscivano dal blocco di paraffina
erano quantitativamente molto maggiori di quelli previsti teoricamente e ciò
sembrava violare alcune leggi fisiche fondamentali. Il primo a trovare la
soluzione dell’enigma fu Ettore Majorana (un giovane collaboratore di Fermi,
scomparso misteriosamente durante un viaggio su di una nave) il quale, quando
seppe dell’esperimento, sbottò: “Che stupidi, hanno visto passare sotto il
naso il neutrone e non se ne sono accorti!”. Majorana tuttavia non pubblicò
la sua ipotesi e l’onore di quella scoperta spettò a James Chadwick
(1891-1974), allievo e collaboratore di Rhuterford, che per questo successo
ottenne il premio Nobel nel 1935. 3. GALVANI E
VOLTA
Sbagliare è quindi umano, ma ancora più umano (cioè tipico dell'uomo)
è cercare di correggere i propri errori. Vi sono casi, invece, in cui anche le
prove più schiaccianti non fanno cambiare opinione a chi aveva sostenuto fin da
principio una certa idea. Uno di questi riguarda un esperimento
sull’elettricità eseguito bene, ma male interpretato.
Nel 1786 Luigi Galvani (1737-1798) professore
di anatomia e chirurgia all’Università di Bologna, compì il famoso
esperimento sulla rana che avrebbe potuto fare di lui il padre dell'elettricità.
Egli scoprì casualmente che i muscoli delle zampe di una rana morta toccati con
due metalli diversi (ad esempio ferro e rame) si contraevano. Galvani, che era
un buon conoscitore della biologia, interpretò il fenomeno dalla parte della
rana, ipotizzando cioè che le contrazioni muscolari fossero dovute ad un
misterioso fluido elettrico presente nell’animale che egli chiamò
“elettricità animale”. Pertanto il fenomeno osservato doveva essere,
secondo Galvani, una caratteristica esclusiva dei tessuti viventi.
Questa ipotesi fu confutata da Alessandro
Volta (1745-1837) professore di filosofia naturale all’Università di Pavia,
che a differenza di Galvani conosceva bene la fisica. Egli ripeté
l’esperimento e, focalizzando l’attenzione sui metalli, notò che le
contrazioni delle zampe della rana cambiavano di intensità a seconda dei
metalli utilizzati. Volta attribuì quindi l’origine dell’elettricità non
alla rana, ma al contatto dei due metalli immersi in una soluzione conduttrice,
e dimostrò che l’animale era semplicemente il rivelatore del passaggio della
corrente elettrica.
Era giusta l’interpretazione che dette Volta
al fenomeno, tuttavia il nome di Galvani è rimasto nel verbo
“galvanizzare”, che significa comunicare slancio ed entusiasmo. 4.
LOUIS VICTOR de BROGLIE
Non sempre, come abbiamo detto, la competenza e l'esperienza hanno rappresentato un vantaggio
rispetto alla produzione di idee nuove, anzi si è spesso verificato il caso di
scienziati di chiara fama che, per invidia o per scarsa considerazione nei
riguardi di giovani ricercatori non ancora affermati, abbiano osteggiato idee
che invece avrebbero dovuto tenere in tutt'altra considerazione. E’ successo
che giovani spregiudicati, anticonformisti e coraggiosi, capaci di esprimersi
controcorrente e sfidare il sonnolento mondo accademico, abbiano prodotto le
scoperte scientifiche più innovative.
Uno di questi personaggi un po’ stravaganti
e dalle idee rivoluzionarie fu Louis Victor de Broglie un giovane francese di
nobile famiglia con lontane origini piemontesi il quale, tra i suoi antenati,
annoverava uomini politici, diplomatici e militari. Nel 1923 de Broglie
presentava una tesi di dottorato in cui esponeva un’ipotesi audacissima: “le
particelle materiali, oltre che oggetti solidi, sono anche onde”. All’inizio
nessuno credette ad un’idea tanto originale e strana e qualcuno tentò di
ridicolizzarla chiamandola “Comedie Française”; alcuni parlarono anche di
“seconda rivoluzione francese”. In realtà l’idea di de Broglie non era
così strampalata come poteva apparire a prima vista perché si rifaceva ad una
scoperta precedente, ampliandola. Era stato infatti osservato che la luce,
considerata come un’onda elettromagnetica, in alcuni casi si presentava sotto
forma di particelle, ovvero di pacchetti di energia che Einstein chiamò
“fotoni”.
Ora - ragionò de Broglie - se le onde possono
presentarsi come particelle, perché non può accadere anche il contrario e cioè
che le particelle si presentino sotto forma di onde? de Broglie, in questo modo,
allargava alla materia il dualismo onda/particella rilevato per l’energia e
considerava il duplice aspetto corpuscolare e ondulatorio dei fenomeni fisici la
manifestazione di una legge generale della natura valida indifferentemente per
la radiazione e per la materia. Il fatto che della radiazione si sia scoperto
inizialmente solo l’aspetto ondulatorio e della materia solo quello
particellare deve essere considerato del tutto accidentale e come conseguenza
dell’organizzazione generale dell’Universo.
Immediatamente i fisici sperimentali si misero
al lavoro per verificare l’ipotesi e alcuni anni più tardi alcuni ricercatori
osservarono l’aspetto ondulatorio delle particelle. Fra questi va ricordato
Sir George Thomson, figlio di quel Joseph John Thomson che pochi anni prima
aveva scoperto l’elettrone. George Thomson fece passare attraverso un sottile
foglio di mica un fascio di elettroni che poi venivano indirizzati su di una
lastra fotografica, impressionandola. I fisici sapevano che, se sulla lastra
fossero finite delle particelle, si sarebbe notata una serie di puntini; la
lastra presentava invece una serie di anelli chiari e scuri (figure di
diffrazione) identici a quelli che si formano dopo il passaggio di una
radiazione di natura ondulatoria (per esempio luce) attraverso un foglio di
materiale trasparente. Questa era la prova che ad incidere sulla lastra erano
state delle onde e non delle particelle.
Per ironia della sorte, il padre ricevette il
premio Nobel per avere dimostrato che l’elettrone era una particella e il
figlio ottenne lo stesso premio, trent’anni più tardi, per avere dimostrato
che l’elettrone era un’onda. 5. CRISTOFORO
COLOMBO
L’errore più clamoroso in tutta la storia della scienza fu, senza
dubbio, quello in cui cadde Cristoforo Colombo, il quale scoprì un nuovo
continente senza rendersene conto. Colombo, come tutti sanno, progettò il suo
viaggio attraverso l’oceano, nella convinzione che fosse più facile “buscar
l’oriente par l’occidente” ossia che navigando verso occidente si sarebbe
arrivati, con un tragitto più breve, nel lontano oriente già raggiunto da
Marco Polo via terra un paio di secoli prima.
Egli si convinse della fattibilità
dell'impresa in seguito ad un grossolano errore di valutazione delle dimensioni
della Terra che era ritenuta, a quel tempo, molto più piccola di quello che è
in realtà. Per la verità non fu solo questo errore a spingere il navigatore
genovese a tentare una spedizione tanto rischiosa: vi erano state anche
motivazioni di carattere mistico. Colombo era un personaggio molto strano,
afflitto da fisime e manie che gli rendevano la vita agitata e inquieta. A causa
di questa instabilità psichica egli cadeva spesso in stati depressivi dai quali
usciva a fatica e solo grazie alla convinzione di essere un “eletto del
Signore”. Egli si era convinto che Dio lo avesse scelto per compiere l'ultima
grande opera prima della imminente fine del mondo: unificare tutti i popoli
della Terra sotto la tutela della fede cristiana.
Il primo a misurare le dimensioni del nostro
pianeta fu Eratostene, uno scienziato egiziano che visse nel terzo secolo avanti
Cristo. Egli era il direttore della Biblioteca di Alessandria, il più grande
centro culturale dell'antichità, e si interessò di vari argomenti sia
letterari che scientifici senza tuttavia mai emergere in qualche campo dello
scibile, tanto che dai contemporanei venne soprannominato “beta”, cioè il
secondo. In realtà Eratostene era un personaggio dotato di una notevole cultura
e, se fu considerato secondo dai suoi contemporanei, fu sicuramente il primo nella
determinazione della lunghezza del meridiano terrestre che calcolò con
eccellente approssimazione. La misura ottenuta dallo scienziato egiziano era
infatti di 250.000 stadi, corrispondenti a 39.690 km, un dato molto vicino al
valore reale che è di 40.076 km.
La misura delle dimensioni terrestri fu
tuttavia ritentata, alcuni anni più tardi, da Posidonio di Apamea, filosofo e
scienziato greco vissuto nel I secolo a.C. Questi ottenne un valore nettamente
inferiore a quello reale e tuttavia proprio questa seconda misura, che
successivamente verrà detta "la piccola misura di Posidonio", sarà
codificata e riportata nei testi ufficiali. Secondo Posidonio la circonferenza
del globo terrestre era di circa 32.000 km.
Pertanto Colombo si attenne orientativamente a questa misura perché
questo era il dato disponibile a quel tempo; ma come se ciò non bastasse, una
serie di calcoli, costellati di errori e approssimazioni, lo portarono a
concepire la Terra ancora più piccola. Colombo era un pessimo matematico e un
astronomo ancor peggiore tanto che non fu mai in grado di usare con competenza
l'astrolabio, uno strumento indispensabile per navigare perché consentiva di
misurare l'altezza delle stelle e di conseguenza conoscere, con buona
precisione, la latitudine del luogo.
A complicare ulteriormente le cose vi fu anche
il fatto che a quel tempo le distanze si esprimevano in gradi che poi venivano
convertiti nelle unità di misura lineari in adozione nei vari paesi. Nella
conversione dei gradi in distanza lineare Colombo fece molta confusione
ottenendo un valore di appena 83 km per grado di longitudine quando in realtà
ve ne sono più di 111. In questo modo la circonferenza terrestre si riduceva a
30.000 km circa, quindi di un quarto inferiore a quella reale.
A tutto ciò si deve ancora aggiungere che il
navigatore genovese considerò il Continente Antico (Europa e Asia), molto più
esteso verso oriente di quanto non fosse in realtà e questo errore di
valutazione riduceva ulteriormente l'estensione dell'oceano ignoto che doveva
essere attraversato per raggiungere l'estremo oriente. Per finire egli collocò
il Cypangu (il Giappone), l'isola descritta da Marco Polo come luogo pieno di
ricchezze di incalcolabile valore, molto vicino alle Canarie, le isole che a
quel tempo erano l'ultimo avamposto spagnolo in pieno oceano.
In realtà il Giappone dista dalle Canarie
circa 20.000 km, cioè in pratica mezzo giro della Terra. Però fortuna volle
che all’incirca nel punto in cui Colombo si aspettava di trovare il Giappone,
cioè a 4.400 km dal luogo della partenza, vi fossero le Bahamas. Così il
marinaio genovese, invece che perdersi nell'oceano, come per logica avrebbe
dovuto, entrò nella storia per avere scoperto una terra che non aveva cercato e
che, stando ai suoi calcoli, non avrebbe dovuto nemmeno esistere.
In verità Colombo non fu il primo a progettare l'attraversamento
dell'Atlantico per raggiungere l'Asia. Prima di lui altri avanzarono progetti
analoghi, ma tutti vennero respinti dai governi che avrebbero dovuto
finanziarli. Anche Colombo, in un primo momento, si vide respingere il suo
progetto dalla Corte portoghese, ma con pervicacia e testardaggine si rivolse a
tutte le principali corti europee finché la regina Isabella di Spagna si lasciò
convincere, anche per dare una dimostrazione tangibile della nuova potenza che
era sorta dalla fusione del regno di Castiglia con quello di Aragona. In realtà
l’impresa venne finanziata con poca convinzione e mettendo a disposizione di
Colombo tre piccole navi sgangherate e un centinaio di uomini reclutati fra i
galeotti che in cambio della libertà avevano accettato di imbarcarsi in
un’impresa considerata da molti quasi impossibile. La spesa complessiva della
spedizione ammontò ad una somma irrisoria corrispondente a non più di due o
trecento milioni di lire attuali. Come mai Colombo si dimostrava tanto sicuro di
poter portare a termine un'impresa che molti scienziati ritenevano una follia?
Secondo alcuni egli era in possesso di informazioni che gli facevano ritenere poco rischioso un viaggio attraverso
l'Atlantico, e inoltre, come abbiamo già detto, la sua sicurezza era dovuta
anche ad una fede incrollabile ed alla convinzione di essere stato scelto
direttamente da Dio per la riconquista di Gerusalemme e l'unificazione di tutti
i popoli della Terra sotto l'egida della religione cristiana. L'oro di Cypangu
sarebbe dovuto servire appunto per finanziare una crociata in Terra Santa.
Perfino il suo nome servì a convincerlo
dell'alta funzione a cui era stato chiamato: Cristoforo deriva dal latino "Christum
ferens" che significa colui che porta a Cristo e il suo cognome,
Colombo, avrebbe rappresentato un ulteriore segno della predestinazione divina
in quanto lo Spirito Santo veniva rappresentato proprio da una colomba.
Prima di concludere, bisogna ricordare che
Colombo nemmeno nei tre viaggi successivi (1493, 1498 e 1502), che non avevano
dato i risultati economici auspicati, si accorse (o non volle accorgersi) di
essere approdato in un nuovo continente, rimanendo sempre fermo nella sua idea che quella terra fosse l'Asia. Sembra che in uno dei
suoi viaggi, dopo aver esplorato per cinquanta giorni l'isola di Cuba abbia
costretto i marinai a giurare, di fronte ad un notaio, che quella che stavano
calpestando era la Cina. 6. GUGLIELMO
MARCONI Un caso molto simile a quello riguardante la scoperta
dell’America è rappresentato dalla trasmissione del messaggio radio fra
Europa e Canada voluto da Guglielmo Marconi contro il parere di tutti gli
scienziati dell’epoca che lo ritenevano impossibile. Nonostante i successi
ottenuti, la trasmissione a distanza di segnali elettrici, chiamata poi
radiotelegrafia e quindi in breve radio, a quel tempo era infatti considerata di
utilità limitata perché si riteneva che non si potesse usare sulle
grandi distanze.
Le onde radio o herziane non sono altro che
onde elettromagnetiche del tutto simili alla luce, dalla quale si differenziano
solo per la lunghezza che corrisponde a metri invece che a pochi millesimi di
millimetro. Questo tipo di onde si propaga in linea retta e quindi non dovrebbe
seguire la curvatura terrestre ma, oltre un certo limite, procedere per la
tangente. Questo era il motivo dello scetticismo degli scienziati rispetto al
progetto di Marconi il quale, avendo frequentato un istituto tecnico privato con
scarso successo e senza conseguire alcun diploma, in campo scientifico non era
molto competente. In realtà le onde radio, essendo onde di notevole lunghezza,
presentano forti diffrazioni che consentono loro di aggirare gli ostacoli,
mentre ad esempio la luce, propagandosi per onde molto più corte, si infrange
contro gli ostacoli che incontra nel suo cammino. Tuttavia, sulla base dei
calcoli e tenuto anche conto della loro peculiarità, le onde radio non
avrebbero comunque potuto collegare due stazioni che fossero state fra loro più lontane
di 300 kilometri. L’impossibilità dell’impresa era quindi più di natura
teorica che tecnica e discendeva direttamente dalle leggi
dell’elettromagnetismo. Marconi nella sua ingenuità riteneva che le onde
radio procedessero per salti facilitati dalla conducibilità della superficie
terrestre. L’idea era sbagliata ma veniva confortata dal fatto che in
precedenza l’inventore italiano era riuscito a mettersi in contatto con navi
in navigazione in pieno oceano.
L’appuntamento con il segnale era per
mezzogiorno e mezzo del 12 dicembre del 1901 e a quell’ora Marconi sedeva
fiducioso in una stazione ricevente situata nelle vicinanze di St. John’s, una
cittadina nell’isola canadese di Terranova. Puntuale da Poldhu in Cornovaglia
partì il segnale Morse convenuto che Marconi ricevette chiaramente. Che cosa
era successo? Perché, nonostante le leggi dell’elettromagnetismo dalle quali
discendeva l’impossibilità della trasmissione su lunghe distanze, il segnale
aveva scavalcato i 3400 kilometri dell’oceano Atlantico?
La risposta è molto semplice ma a quel tempo
nessuno la conosceva. Intorno alla Terra, a un centinaio di kilometri
d’altezza, esiste una fascia di molecole e atomi ionizzati cioè carichi di
elettricità (la cosiddetta ionosfera) prodotta dall’azione della radiazione
solare e dai raggi cosmici: essa rappresenta una specie di sponda di biliardo
per le onde radio che vengono così riflesse sulla Terra. Nel 1901 la struttura
dell’atmosfera non era nota ed è per tale motivo che molti scienziati
ritenevano che gli esperimenti di Marconi non avrebbero avuto successo. Le leggi
della fisica non erano quindi state violate ma se non fosse esistita la
ionosfera effettivamente i segnali radio non avrebbero superato i 300 kilometri
di distanza. Marconi, partendo – come Colombo – da un’idea sbagliata,
raggiunse un obiettivo impensabile per gli scienziati competenti dell’epoca.
Questo dimostra una volta di più che anche le persone meno colte e preparate
possono scoprire qualche cosa di nuovo e di vero.
Durante la prima guerra mondiale Marconi,
ufficiale di marina, creò un nuovo sistema di trasmissioni che utilizzava le
onde radio corte e ultracorte con le quali successivamente riuscì a dischiudere
nuovi orizzonti anche alla televisione, facendola uscire dallo stadio
sperimentale in cui era costretta dall’impiego delle onde lunghe e medie.
La ionosfera ha un effetto trascurabile sulla
propagazione delle onde ultracorte come ad esempio quelle luminose, mentre
influenza notevolmente quella delle onde elettromagnetiche corte, medie e lunghe
consentendo le trasmissioni radio a grande distanza. Per le trasmissioni
televisive che utilizzano onde cortissime occorrono invece ripetitori
opportunamente ubicati sulla Terra o sistemati su appositi satelliti
artificiali.
Marconi ebbe il premio Nobel per la fisica nel
1909 e nel 1914 fu nominato senatore del Regno. Durante il fascismo gli furono
concesse svariate cariche e onorificenze fra cui la presidenza del Consiglio
Nazionale delle Ricerche. Morì a Roma nel 1937 all’età di 63 anni. 7.
IGNAZ PHILIPP SEMMELWEIS
Analizziamo ora il caso di una scoperta casuale, ma di incalcolabile
valore pratico, realizzata da un giovane ricercatore che dovette lottare contro
un mondo accademico che gli era ostile al punto da rovinargli la carriera e la
salute fino a farlo impazzire.
Si tratta della storia di un certo Ignaz
Philipp Semmelweis, un giovane medico di origine ungherese che nel 1844 ottenne
un posto di assistente nella clinica ostetrica dell'Università di Vienna. Fin
dall'inizio del suo lavoro il giovane medico rimase sorpreso del fatto che i
decessi dopo il parto delle donne ricoverate nel primo reparto erano di molto
superiori a quelli delle donne ricoverate nel secondo reparto, che pure era
adiacente al primo. Non poteva essere un caso: doveva invece esserci un motivo
ben preciso per una così evidente differenza di risultati. Ma quale?
Le morti delle donne per parto e spesso anche
dei neonati, a quel tempo, erano molto frequenti e la causa veniva imputata ad
una terribile malattia chiamata «febbre puerperale» la quale secondo la teoria
più accreditata era causata da misteriosi "cambiamenti
atmosferico-cosmico-tellurici", cioè in pratica, oggi diremmo,
dall'inquinamento.
Semmelweis contestò subito questa teoria perché non spiegava il motivo
per il quale, nel secondo reparto dell’ospedale, vi erano meno morti che nel
primo. Inoltre si era osservato che le donne che partorivano per strada, cosa
frequente a quei tempi, in ambiente sicuramente più inquinato dell'ospedale, in
genere non contraevano l'infezione.
Il “selvaggio ungherese” come lo
chiamavano i suoi detrattori, dopo lunghi e meticolosi studi, ragionamenti
rigorosi e osservazioni attente riuscì a scoprire la causa della febbre
puerperale che colpiva le gestanti che partorivano con assistenza medica: era il
medico stesso a trasmettere la malattia. Semmelweis scoprì che molto spesso i
medici visitavano le puerpere dopo avere effettuato un'autopsia su un cadavere
infetto trasmettendo loro, inconsapevolmente, la malattia mortale.
Convinto di avere individuato la causa delle
morti, egli decise quindi che i medici, prima di entrare nelle sale parto, si
dovevano lavare le mani con molta cura e con un prodotto che eliminasse il
cattivo odore che avevano assorbito durante il contatto con cadaveri infetti.
Decise di usare la chlorina liquida, un prodotto raro e piuttosto costoso che
successivamente venne sostituito con il cloruro di calcio: sostanza facilmente
reperibile e molto meno cara. A seguito di questo banale accorgimento il
numero delle morti per febbre puerperale calò drasticamente.
Semmelweis aveva un carattere non facile che lo portò a scontrarsi in più
occasioni con il direttore della clinica, un uomo tanto ambizioso quanto
ignorante. Inoltre il giovane medico ungherese non disponeva di una prova
schiacciante della sua teoria e questo gli rese la vita ancora più difficile.
Fu Pasteur infatti a scoprire, alcuni anni più tardi, che a trasmettere la
malattia era un batterio, ma ormai Semmelweis era già morto in un ospedale
psichiatrico dove era stato ricoverato per curare la pazzia nella quale era
precipitato. fine |