1. PIANETI EXTRASOLARI Nell’ottobre del 1995 due astrofisici svizzeri,
Michel Mayor e Didier Queloz, annunciarono la scoperta di un pianeta esterno al
sistema solare. Si trattava di un pianeta di grande massa in orbita intorno a 51
Pegasi, una stella all’incirca delle dimensioni del Sole e distante da noi una
quarantina di anni luce. Pochi mesi più tardi alcuni ricercatori americani
confermavano la scoperta degli Svizzeri e contemporaneamente riferivano di avere
individuato essi stessi altri due corpi in orbita intorno a stelle dello stesso
tipo. Attualmente i pianeti esterni al sistema solare, noti alla scienza, sono
una cinquantina e il loro numero continua ad aumentare. In realtà non si tratta di osservazioni nel
senso più comune del termine: nessuno ha visto materialmente questi lontani
pianeti. Si tratta invece di una serie di misure molto accurate sul moto proprio
di alcune stelle, che hanno messo in evidenza come questi astri si muovano
oscillando leggermente e ciò farebbe supporre la presenza di un corpo celeste
che gira intorno ad essi. Quando un oggetto orbita intorno ad un altro, la sua
attrazione di gravità provoca piccole oscillazioni del corpo centrale: dalla
periodicità di queste oscillazioni è possibile ricavare informazioni
relativamente alle dimensioni e alla forma dell’orbita percorsa dall’oggetto
orbitante e alla sua massa. Nel caso dei nuovi pianeti, si tratterebbe di
corpi un po’ particolari e molto diversi per dimensioni e comportamento da
quelli presenti nel sistema solare. Naturalmente la prima cosa a cui si è
pensato, appena avuta la conferma dell’esistenza di questi corpi celesti
orbitanti intorno a stelle delle dimensioni più o meno del nostro Sole, è
stata la possibilità che questi eventuali pianeti siano popolati da forme di
vita simili a quelle che esistono sulla Terra, ma da questa
eventualità siamo ben lontani. I corpi osservati sono quasi tutti molto grandi
(più di Giove e quindi quasi piccole stelle piuttosto che pianeti veri e
propri) e quelli che sono di dimensioni minori girano su orbite fortemente
ellittiche, cosa che li sospinge periodicamente o molto vicini o molto lontani
dal loro Sole: pertanto forniti di temperature superficiali molto variabili. La verità è che dal lieve moto oscillatorio
delle stelle non è possibile trarre conclusioni sulla presenza di pianeti di
tipo terrestre. Un “vero” pianeta, come la nostra Terra, non sarebbe
percepibile con i mezzi attualmente a disposizione, nemmeno se si trovasse a
girare intorno alla stella a noi più vicina. Oltre che annegato nella luce
abbagliante del proprio Sole, le influenze gravitazionali di un pianeta così
piccolo sul corpo centrale risulterebbero tanto evanescenti da non poter essere
assolutamente poste in evidenza. Fino a poco tempo fa erano stati osservati solo
singoli pianeti gravitanti intorno a stelle simili al Sole, ma ora c’è
qualche indizio di stelle circondate da veri e propri sistemi solari in
formazione. In verità vi è un unico caso in cui si ha la certezza di un
sistema extrasolare: si tratta però di una pulsar le cui oscillazioni delle
emissioni elettromagnetiche probabilmente vengono perturbate dalla vicinanza di
tre pianeti grandi più o meno quanto la Terra. La pulsar è una stella di
neutroni cioè un astro estremamente denso e quindi ben diverso dal nostro Sole.
Per il momento abbiamo pertanto la conferma che sono state scoperte stelle
simili al nostro Sole intorno alle quali ruotano pianeti diversi dalla Terra o
pianeti simili alla Terra orbitanti però intorno a stelle diverse dal nostro
Sole. Alla luce delle più recenti osservazioni, il
convincimento di trovarci di fronte a veri e propri corpi di natura planetaria
deve venire purtroppo ridimensionato e gli entusiasmi alquanto raffreddati.
D’altra parte non è la prima volta, nella storia dell'astronomia, che viene
annunciata la scoperta di qualche nuovo corpo celeste che poi risulta
inesistente. Proviamo allora a percorrere insieme le vicende di queste false
scoperte iniziando da Vulcano, il fantomatico pianeta che avrebbe dovuto
trovarsi tra il Sole e Mercurio. La storia di Vulcano inizia il 2 gennaio 1860
quando il matematico francese Urban J. J. Le Verrier (1811-1877) annunciò, per
giustificare un'anomalia riscontrata nell'orbita di Mercurio, che vicino al Sole
avrebbe dovuto trovarsi un altro pianeta. Le Verrier era un personaggio molto noto che
aveva acquistato fama e prestigio nel 1846 quando riuscì a calcolare a tavolino
la posizione di un ipotetico pianeta che con la sua presenza perturbava la
traiettoria di Urano. Il pianeta indicato da Le Verrier fu effettivamente
osservato proprio nella posizione suggerita dal matematico francese e ciò
rappresentò per lui un notevole successo scientifico. Quindi, quando in seguito
comunicò che secondo i suoi calcoli sarebbe esistito un pianeta in
movimento su di un'orbita ancora più interna di quella di Mercurio, si scatenò,
fra gli astronomi, la caccia al nuovo oggetto misterioso. Un astrofilo, appena avuta notizia dell’idea di
Le Verrier, gli inviò i risultati di una sua osservazione avvenuta l'anno
precedente, in cui veniva descritto il passaggio di un puntino nero sulla
superficie dell'astro centrale che non sembrava essere una normale macchia
solare. Le Verrier prese per buona la segnalazione dell'astronomo dilettante e
dette il nome di Vulcano, il mitico dio romano del fuoco, all'ipotetico pianeta
del quale calcolò perfino l'orbita sulla base dei pochi dati di cui disponeva.
Il pianetino sarebbe dovuto ruotare intorno al Sole in 19 giorni e 7 ore a una
distanza di circa 21 milioni e mezzo di kilometri. La conferma della scoperta di
questo misterioso pianeta divenne quindi lo scopo della sua vita. Ora però,
prima di vedere come si concluse la vicenda, dobbiamo raccontare la storia dei
due pianeti effettivamente scoperti sulla scorta dei calcoli eseguiti dal famoso
matematico. 2. LE SCOPERTE DEI PIANETI A TAVOLINO Come tutti sanno i pianeti del sistema solare
sono nove, ma solo sei di essi erano noti fin dai tempi più antichi e cioè,
oltre alla Terra, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Bisognerà aspettare
quasi due secoli dopo l'invenzione del telescopio, prima che ne venisse scoperto
un altro. Il 13 marzo del 1781 l'astronomo tedesco trasferitosi in Gran
Bretagna, William Herschel, accidentalmente, scoprì Urano osservando una lastra
fotografica su cui appariva un puntino luminoso, che in un primo momento fu
scambiato per una cometa. Lo studioso però, dopo aver seguito per alcuni mesi il suo
tragitto, capì che doveva invece trattarsi di un pianeta al quale
dette il nome di Georgium Sidus (cioè stella di Giorgio) in onore di Re Giorgio
III d'Inghilterra; in seguito, l'astronomo inglese John Couch Adams mutò questo
nome in quello di Urano, un dio pagano, uniformandolo ai nomi assegnati agli
altri pianeti. Dopo la sua scoperta, Urano fu osservato
ripetutamente e ne fu quindi determinata la grandezza e il tempo di rivoluzione
intorno al Sole, che risultò di 84 anni. Continuando nelle osservazioni del
nuovo pianeta e della sua traiettoria che veniva determinata con sempre maggiore
accuratezza e scrupolo, fu possibile verificare che i suoi movimenti non erano
conformi ai calcoli. Nel 1834, quando Urano aveva percorso poco più della metà
della sua orbita intorno al Sole dal giorno della sua scoperta, un astronomo
inglese dilettante, il reverendo T.J. Hussey, intuì che la deformazione
dell'orbita che mostrava il pianeta poteva essere causata dall'influenza di un
altro corpo celeste ancora più esterno. Egli informò della cosa l'astronomo
inglese George Biddel Airy, il quale non dette credito all’ipotesi di un
pianeta sconosciuto e sottovalutò la segnalazione. Una decina di anni più tardi anche John Couch
Adams, uno studente dell'Università di Cambridge, e Urban Le Verrier, l’uno
all'insaputa dell'altro, si impegnarono in una serie di calcoli per determinare
la posizione del pianeta che secondo loro doveva essere la causa delle
perturbazioni di Urano. Essi sottoposero quindi l'argomento all'attenzione degli
astronomi. Nel 1845, Adams inviò i suoi risultati a
Cambridge dove James Challis, professore di astronomia di quella Università, si
limitò ad una osservazione superficiale del cielo e concluse, dopo un errore
nei calcoli che avrebbe dovuto metterlo sulla giusta strada, che il pianeta non
esisteva. A quel punto Adams, deluso dal trattamento riservato al suo lavoro,
abbandonò gli studi che con tanto entusiasmo aveva intrapreso. Le Verrier fu più fortunato perché si rivolse
all'astronomo tedesco Johann Goffried Galle il quale, con la convinzione e la
tenacia che lo distinguevano (ma che dovrebbero contraddistinguere qualsiasi
buon ricercatore), prese la cosa seriamente e si mise ad osservare il cielo con
molta attenzione per tutta la notte del 23 settembre 1846. La mattina successiva
egli comunicò di aver avvistato il pianeta cercato. La scoperta del nuovo pianeta che fu chiamato
Nettuno, in ossequio alla tradizione che vuole siano assegnati ai pianeti i nomi
di personaggi della mitologia greca, rappresentò la conferma della validità
della teoria gravitazionale di Newton ed ebbe una risonanza enorme. Molti
astronomi, sull'onda del successo di Le Verrier, ne cercarono di altri sia
all'interno dell'orbita di Mercurio sia all'esterno dell'orbita di Nettuno. Impegnato attivamente nella ricerca all'esterno
dell'orbita di Nettuno fu, all'inizio del secolo scorso, un ricco astronomo
dilettante americano di nome Percival Lowell il quale, proprio per raggiungere
questo scopo, aveva costituito un gruppo di matematici incaricati di eseguire i
calcoli necessari per individuare la posizione di un ipotetico nuovo pianeta. I
suoi sforzi però non furono premiati e Lowell morì nel 1916 senza aver
realizzato il sogno della sua vita. Le ricerche tuttavia continuarono presso
l'osservatorio di Falgstaff, in Arizona, costruito dallo stesso Lowell proprio
per l'indagine dei pianeti finché, nel 1930, un certo Clyde Tombaugh, astronomo
statunitense morto nel 1997 all’età di 91 anni, annunciò di avere
individuato su alcune foto riprese con il telescopio, il nuovo pianeta che fu
chiamato Plutone. Alcuni ritengono che questo, come Nettuno, sia
stato scoperto sulla base di precisi calcoli matematici: altri sono dubbiosi, in
quanto Plutone sembra essere molto piccolo e molto leggero e quindi non in grado
di perturbare con la sua presenza l'orbita di Nettuno. A conferma di ciò si può
osservare che mentre Le Verrier indicò la posizione di Nettuno con molta
precisione, quella di Plutone fu segnalata dai matematici che lavorarono con
Lowell con un errore di oltre 6°. La scoperta di Plutone, molto probabilmente,
fu dovuta ad una straordinaria coincidenza. 3. IL PIANETA CHE NON ESISTE Veniamo ora al pianeta che avrebbe dovuto
trovarsi all'interno dell'orbita di Mercurio. Come abbiamo detto, fin dal 1860
gli astronomi, su indicazione di Le Verrier, si misero alla caccia di questo
fantomatico pianeta la cui esistenza era stata ipotizzata sulla base di piccole
deviazioni osservabili sull'orbita di Mercurio. La teoria di Newton prevede che, a prescindere
dal moto proprio delle stelle e dall’influenza dei satelliti e dei pianeti
vicini, il moto rotatorio lungo un'ellisse di un pianeta intorno al Sole
dovrebbe conservare sempre la stessa posizione rispetto alle stelle fisse. In
altre parole, i pianeti dovrebbero muoversi, se non fossero influenzati da altri
corpi celesti ad essi vicini, sempre lungo la medesima orbita ellittica la quale
dovrebbe rimanere immobile nello spazio. In effetti osservazioni protratte per
anni verificarono questa circostanza per tutti i pianeti, con la sola eccezione
di Mercurio, il pianeta più vicino al Sole. L'orbita di Mercurio, rettificata nel modo
descritto sopra, mostrava un comportamento anomalo rappresentato da un leggero
movimento dell'ellissi che quindi non si manteneva fissa nello spazio come
previsto dalla teoria gravitazionale di Newton. La Verrier cercò di spiegare
l'anomalia immaginando la presenza di un altro pianeta fra Mercurio e il Sole.
Questo ipotetico pianeta, ricercato affannosamente da generazioni di astronomi,
non fu mai trovato. Alla fine la soluzione fu individuata all'interno
della teoria della relatività generale di Einstein la quale contiene tra
l’altro un modo originale di interpretare la gravitazione, tanto che spesso
viene anche chiamata «teoria della gravitazione di Einstein». L'aspetto fondamentale e qualificante di questa
teoria è che le proprietà geometriche dello spazio vengono modificate dalla
presenza di forze gravitazionali. Lo spazio, prima di Einstein, era sempre stato
ritenuto qualche cosa di "piatto" ossia un contenitore vuoto nel
quale, per passare da un luogo ad un altro per la strada più breve, si sarebbe
dovuto procedere in linea retta, come succede appunto quando ci si muove su una
superficie piana. Per rimanere nell'analogia con il piano
bidimensionale, tutti sanno che un triangolo disegnato su una superficie piana
presenta la somma degli angoli interni uguale a 180°; mentre un triangolo
disegnato su una superficie sferica presenta la somma degli angoli interni
maggiore di 180°. Questo fatto è ben noto ai cartografi i quali devono
disegnare con la massima accuratezza possibile su di un piano (la carta
geografica) ciò che sta su di una sfera (la superficie terrestre). Se le
superfici sono piccole, il problema si risolve da sé perché la differenza è
minima, ma quando le superfici diventano grandi, per esempio come tutta l'Europa
o l'America, allora è impossibile trasferire la figura dalla superficie sferica
a quella piana senza deformarla. In questi casi, per fare assomigliare il più
possibile il disegno sulla carta alla realtà, bisogna ricorrere ad opportuni
artifizi. Quello che vale per il piano a due dimensioni
vale anche per lo spazio a tre dimensioni. Quindi in uno spazio
"piatto", cioè a tre dimensioni, è possibile costruire un triangolo
con la somma degli angoli interni uguale a 180°, mentre in uno spazio
"curvo" ciò non è più possibile. Continuando nell’analogia, in
uno spazio "piatto" un oggetto per andare da un punto ad un altro
lungo la strada più breve deve percorrere segmenti di linea retta, mentre in uno
spazio “curvo”, per fare la stessa cosa, l’oggetto deve seguire linee
curve che comunemente vengono dette geodetiche. Questa è la differenza fondamentale fra lo
spazio concepito dalla teoria newtoniana della gravità e quello che scaturisce
dalla teoria einsteiniana. Il primo è uno spazio "piatto", cioè
liscio e uniforme, il secondo è uno spazio "curvo" o, per meglio
dire, pieno di avvallamenti e gobbe. Lo spazio, secondo Einstein, è reso curvo
dalle stesse masse che lo occupano. Un modo elegante ed efficace per visualizzare il
fenomeno è quello di immaginare un piano di gommapiuma perfettamente liscio:
esso rappresenterebbe lo spazio vuoto, quindi piatto. Immaginiamo ora di farvi
rotolare sopra un oggetto pesante, per esempio una sfera di acciaio: questo
oggetto in movimento si dirigerà in linea retta ma contemporaneamente incurverà
il piano di gommapiuma. Immaginiamo ora una seconda sfera pesante in movimento
sul foglio di gommapiuma: essa non si muoverà più lungo percorsi rettilinei
perché "sentirà" gli avvallamenti prodotti dalla prima. La seconda
sfera però, a sua volta, provocherà al suo passaggio un avvallamento nella
gommapiuma, che influenzerà il moto della prima ed eventualmente di altre sfere
in movimento, e così via. Questo è il punto fondamentale della relatività di
Einstein: ogni oggetto si muove nello spazio seguendo il percorso più breve.
Sarà la geometria dello spazio a dirci quale risulterà l’andamento di questo
percorso. 4. LA RICERCA CONTINUA Alla luce di quanto detto Mercurio è costretto a
descrivere attorno al Sole un'orbita irregolare, determinata dalla sua posizione
interna ad uno spazio deformato dalla presenza del Sole stesso, oltre che da
quello degli altri pianeti ed eventualmente delle stelle lontane. La traiettoria
seguita da Mercurio non è quindi un'ellisse cioè un percorso chiuso che si
ripete sempre uguale a sé stesso, ma una serie di orbite aperte: conseguenza
del fatto che le ellissi stesse si muovono nello spazio. Il movimento di
rotazione dell'orbita è lentissimo e dipende dal fatto che Mercurio si muove in
uno spazio curvo. Quindi, proprio per conformarsi alla deformazione creata dal
Sole e, in misura minore, dagli altri corpi celesti, esso è costretto a seguire
una traiettoria a rosetta. Il movimento di precessione (o avanzamento)
dell'orbita di Mercurio è molto piccolo, ma tuttavia rilevabile. Lo stesso movimento irregolare esiste anche negli
altri pianeti ma in questo caso è impercettibile. L'orbita della Terra, ad
esempio, ripulita dalle perturbazioni dei pianeti che le stanno intorno, ruota
come un tutt'uno intorno al Sole, ad una velocità di soli 3,8 secondi d'arco
ogni secolo. A questa velocità, per fare un giro completo attorno al Sole,
impiegherebbe 43 milioni di anni. La lentezza del movimento dell’ellissi e la
leggera deformazione dello spazio nel quale si muove rendono praticamente
impossibile registrare questo movimento, anche perché l'orbita seguita dalla
Terra è un'ellissi leggermente schiacciata e quindi è difficile fissare un
punto particolare di riferimento (ad esempio il perielio) e stabilire di quanto
questo punto si sposti nello spazio. Invece Mercurio non solo si muove piuttosto
velocemente intorno al Sole ma descrive anche un'orbita ellittica molto
schiacciata, cose queste che rendono il fenomeno più evidente. Dopo il 1916, cioè dopo che Einstein pubblicò
la sua teoria sulla gravitazione che spiegava esattamente la deviazione
dell'orbita di Mercurio, nessuno comunicò più di avere avvistato il
fantomatico pianeta in prossimità del Sole. Vi fu un'unica eccezione intorno al
1970 quando alcuni ricercatori credettero di avere visto, durante un'eclissi, un
debole oggetto vicino al Sole. La notizia venne però smentita prontamente
l'anno seguente. Cosa erano in realtà gli avvistamenti di Vulcano
avvenuti prima del 1916 se queste segnalazioni si rivelarono successivamente
tutte false? Se non era Vulcano, che cosa avevano visto gli astronomi? La
risposta non è facile. Potevano essere piccoli asteroidi che a quel tempo non
erano ancora ben noti e quindi facilmente confondibili con il pianeta
misterioso, o stelle molto deboli, o ancora piccole comete che finivano la loro
corsa direttamente nel Sole. Un'altra storia interessante fu quella relativa
ai satelliti di Venere, Marte e della stessa Terra. Tutte osservazioni che non
vennero mai confermate. Nel 1672, Gian Domenico Cassini uno dei più
geniali astronomi mai esistiti, annunciò di aver visto muoversi un satellite
intorno a Venere. A questa luna di Venere, che sarebbe stata l'unica del
pianeta, venne dato il nome di Neith, la dea della mitologia egizia protettrice
delle arti domestiche. Essa fu osservata più volte da astronomi diversi, ma
sempre con parametri orbitali discordanti. Gli astronomi furono molto dubbiosi e
alla fine convennero che probabilmente si trattava di effetti ottici. Della
stessa idea era anche Fathel Hell, il direttore dell'osservatorio di Vienna,
secondo il quale poteva trattarsi dell'immagine di Venere che, riflettendosi
sull'occhio dell'osservatore, ritornava poi sullo specchio del telescopio dando
origine ad una seconda immagine ingannatrice. Anche la storia della misteriosa seconda luna
della Terra merita di essere raccontata. Nella notte del 21 marzo del 1846 tre
ricercatori francesi, in modo indipendente l’uno dall’altro, osservarono un
oggetto celeste che sembrava essere un secondo satellite della Terra. Di esso
vennero forniti anche alcuni dati, in verità poco verosimili, relativi
all’orbita. Il nuovo satellite naturale - si precisò - ruotava intorno alla
Terra in poco più di 2 ore e tre quarti e si portava a soli 11 km dal nostro
pianeta durante il passaggio più ravvicinato. La pseudo-scoperta del secondo satellite naturale
della Terra cadde ben presto nel dimenticatoio e di essa non si sarebbe più
parlato se non fosse che un sunto della ricerca finì fra le mani del giovane
Giulio Verne il quale prese spunto da questo fenomeno per costruirvi il romanzo
“Dalla Terra alla Luna”. Il libro di Verne venne letto da milioni di persone
e, quasi per una specie di suggestione collettiva, la storia delle due lune
terrestri divenne una realtà. Benché astronomi di chiara fama facessero notare
l’impossibilità dell’esistenza di un simile corpo celeste con i parametri
proposti, numerosi astrofili si misero alla ricerca del secondo satellite
terrestre. E le sorprese non tardarono a venire. Alla fine dell’Ottocento un astronomo
dilettante dichiarò di avere visto la nuova luna insieme con altri piccoli
corpi. La stessa osservazione dello sciame di piccole lune terrestri venne
annunciata da uno scienziato americano fra il 1966 e il 1969. Secondo questo
ricercatore d’oltre oceano, le dieci lune osservate sarebbero il risultato
della frantumazione di un grosso asteroide esploso nello spazio pochi anni
prima. Egli dichiarò di essere riuscito ad individuare i piccoli corpi
analizzando le deboli perturbazioni che i satelliti artificiali subiscono
girando intorno alla Terra. Tuttavia le nuove lune della Terra non vennero
mai più osservate e pertanto, per la scienza, sono da ritenersi inesistenti. La vicenda poi dei due satelliti di Marte, Phobos
e Deimos (in greco: paura e terrore), ha addirittura
dell’incredibile: nel 1747, lo scrittore Jonathan Swift nel suo romanzo “I
viaggi di Gulliver”, parla di due lune marziane, note agli abitanti della
favolosa isola volante di Laputa, i cui periodi di rivoluzione avrebbero la
durata rispettivamente di 10 e 21,5 ore. A quel tempo le lune di Marte non erano
note: esse verranno scoperte solo 150 anni più tardi. La cosa sorprendente è
che i veri satelliti di Marte hanno periodi di rivoluzione rispettivamente di 7
ore e 39 minuti e 30 ore e 18 minuti, due valori molto vicini a quelli
ipotizzati dallo scrittore britannico. La storia infinita della ricerca di corpi celesti
fantasma continua tuttora. Nel 1983 due paleontologi dell’Università di
Chicago, risalendo fino a 250 milioni di anni fa, hanno riconosciuto una decina
delle cosiddette “estinzioni di massa”, cioè di quei periodi della storia
della Terra in cui molte specie di animali e piante scomparvero misteriosamente.
La scoperta li condusse a concludere che se le estinzioni su larga scala di
tanti esseri viventi erano cicliche, e non casuali, esse dovevano avere una
causa comune. Poiché non si conosceva alcun fenomeno terrestre (eruzioni
vulcaniche, terremoti, glaciazioni o altro) che potesse spiegare un ciclo di
circa 25–30 milioni di anni, gli scienziati si rivolsero al cielo in cerca di
una risposta che avesse i caratteri della periodicità. Si pensò allora che il Sole potesse avere una
compagna debole, una stella molto piccola in movimento su un’orbita molto
allungata che si porterebbe in prossimità del sistema solare appunto ogni 25-30
milioni anni. Questa “stella della morte”, a cui fu assegnato il nome di Nemesis, non fu mai osservata, ma sarebbe la responsabile indiretta
delle estinzioni di massa sul pianeta. Gli scienziati ritengono infatti che
questo corpo massiccio, passando in prossimità del Sole, perturberebbe la
cosiddetta nube di Oort, un anello di polvere e di detriti che circonda il
sistema solare ben oltre l’orbita di Plutone determinando una pioggia
periodica di piccoli corpi celesti sulla Terra. Questo periodico bombardamento
di asteroidi e comete sarebbe quindi la causa della estinzione di un numero
molto elevato di organismi. Pur senza escludere l’ipotesi della stella della
morte, alcuni astronomi adombrano un’altra possibilità per spiegare le
estinzioni di massa. Da oltre un secolo, il mondo degli astronomi è alla
ricerca di un pianeta che dovrebbe sostituire Plutone nel ruolo di perturbatore
delle orbite di Urano e Nettuno. Secondo i calcoli effettuati, dovrebbe infatti
esistere all’interno del sistema solare un decimo pianeta, chiamato Pianeta X
(ics o decimo?), in movimento su di un'orbita molto allungata che transiterebbe
in prossimità del sistema solare molto di rado. Questo fantomatico pianeta
spiegherebbe tanto le discrepanze dell’orbita di Urano e Nettuno, quanto i
periodici sciami di comete sulla Terra. Molti gruppi di astronomi scandagliano
il cielo alla ricerca di Nemesis e del Pianeta X con poche speranze di trovarli.
Alcuni fisici e matematici fanno notare che anche qualora si riuscisse ad
individuare i corpi misteriosi, questi non dovrebbero passare in prossimità
della Terra prima di una ventina di milioni di anni. Anche quando le probabilità di fare nuove
scoperte sembrano nulle, lo scienziato non si arrende: egli persevera nella
ricerca perché sa che solo dall’accumulo di altri dati di osservazione potrà
scaturire una dimostrazione convincente delle sue idee.
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