LA
MISURA DELLE DISTANZE COSMICHE Oggi sappiamo che l'Universo è di proporzioni
enormi e che le distanze fra le stelle si misurano in anni luce, ossia in
migliaia di miliardi di kilometri, ma gli antichi pensavano che l'Universo fosse
molto piccolo e che le stelle si trovassero, sopra le loro teste, a distanze non
molto grandi. Anche la stessa rappresentazione della struttura
dell'Universo si è andata progressivamente modificando nel tempo. Basandosi su
osservazioni molto superficiali, l'uomo dei tempi più remoti concepiva il cielo
come una specie di cupola in cui erano incastonate le stelle come fossero
diamanti; la cupola poi girava tutta insieme intorno alla Terra che veniva
immaginata immobile al centro del Cosmo. Successivamente, i filosofi greci del VI secolo
a.C., osservando con maggiore attenzione il cielo notturno, si resero conto che
vi erano degli astri che si spostavano, rispetto alle stelle fisse, secondo
proprie traiettorie. Questi corpi celesti erano, oltre al Sole e alla Luna,
Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Ad essi fu dato il nome di «pianeta»,
parola che in greco significa viandante. E poiché a quel tempo non si riusciva
ad immaginare che un corpo potesse stare sospeso nello spazio senza che nulla lo
sorreggesse, i primi filosofi supposero che i pianeti fossero situati su sfere
di cristallo ruotanti a velocità diverse: più velocemente quelle su cui erano
fissati i pianeti più vicini, più lentamente quelle su cui erano fissati i
pianeti più lontani. 1. LA PRIMA MISURA DI UNA DISTANZA DI VALORE COSMICO La prima misura, ottenuta con metodo scientifico,
di una distanza di proporzioni cosmiche, di cui si ha notizia, venne effettuata
da Eratostene di Cirene intorno al 240 a.C. Eratostene era il responsabile della
Biblioteca di Alessandria, il più grande centro culturale dell'antichità. Qui
gli capitò di leggere, su un papiro, che a Siene (l'attuale Assuan), una
località che si trova quasi esattamente a sud di Alessandria, il 21 giugno (il
giorno più lungo dell'anno), si verificava un fenomeno strano: il Sole, a
mezzogiorno, si portava esattamente a perpendicolo sopra le teste degli abitanti
del luogo, e quindi lo si poteva vedere, ad esempio, riflesso sul fondo dei
pozzi; e contemporaneamente i corpi non producevano ombra. Eratostene si chiese per quale motivo quel
fenomeno non si verificasse anche ad Alessandria e concluse che ciò doveva
dipendere dal fatto che la Terra era sferica. Su una Terra piatta, infatti, i
raggi del Sole, arrivando da grande distanza, tutti paralleli fra loro,
avrebbero dovuto formare, sulla superficie terrestre, ovunque lo stesso angolo.
Poiché ciò non avveniva, la Terra doveva essere sferica, anzi, egli intuì che
proprio dalla differenza dell'inclinazione dei raggi del Sole fra Alessandria e
Siene, si sarebbe potuto risalire al valore della curvatura terrestre: tanto
maggiore fosse stata questa differenza, tanto maggiore sarebbe stata la
curvatura terrestre. Misurò quindi l'angolo che i raggi del Sole
formavano con la verticale ad Alessandria a mezzogiorno del 21 giugno,
quando a Siene cadevano perpendicolari al suolo, e constatò che quell’angolo era
un cinquantesimo dell'angolo giro. L’ampiezza di quest’angolo, è facile
dimostrare, corrisponde a quella misurata al centro della Terra fra le stesse
due località di Alessandria e Siene. Ora, se l’angolo fra le due località,
misurato al centro della Terra, è un cinquantesimo dell’angolo giro anche la
distanza fra le stesse due città doveva essere un cinquantesimo di tutta la
circonferenza terrestre. La distanza fra le due città, a quel tempo, era
valutata in 5.000 stadi, pertanto, moltiplicando 50 per 5.000, Eratostene ricavò
che la circonferenza terrestre doveva misurare 250.000 stadi. Questo valore,
riportato alle unità di misura attuali, corrisponde a 39.675 km una lunghezza
molto prossima a quella reale. Dividendo quindi la lunghezza della circonferenza
terrestre per p,
si ottiene 12.629 km che è quasi esattamente il valore del diametro terrestre. La misura ottenuta da Eratostene era molto
soddisfacente tanto che oggi si rimane sorpresi del fatto che con i mezzi a sua
disposizione, egli sia riuscito ad ottenere un risultato tanto preciso. La
misura venne in seguito ripetuta diverse volte ottenendo risultati
contraddittori. Fra le altre vi fu quella eseguita da un certo Posidonio di
Apamea (135-51 a.C.) il quale, partendo dalla differenza di latitudine fra Rodi
ed Alessandria, ottenne la misura di 180.000 stadi, un valore nettamente
inferiore a quello reale. Per ironia della sorte, fu proprio questa misura,
detta in seguito «la piccola misura di Posidonio», a venire codificata
dall'astronomo alessandrino Claudio Tolomeo, vissuto fra il 100 e il 178 d. C.,
il quale la inserì nel suo libro di astronomia, il più famoso dell'antichità,
l'Almagesto. La misura di Posidonio ingannò favorevolmente
Cristoforo Colombo, il quale, essendo a conoscenza del percorso, fatto per
terra, da Marco Polo per raggiungere l'estremo oriente, valutò entro una
distanza accettabile, il viaggio, via mare, compreso fra le coste dell'Europa
occidentale e quelle dell'Asia orientale. Ritenendo quindi più agevole
"buscar l'oriente par l'occidente" si avventurò in un'impresa che non
avrebbe tentato se fosse stato a conoscenza delle reali dimensioni della Terra.
Colombo compì tre viaggi in estremo oriente (o meglio, in quello che lui
credeva essere l'estremo oriente), fra gli "indiani" che lo abitavano,
e nel terzo morì senza mai essersi reso conto di aver raggiunto in realtà un
nuovo continente. 2. LA MISURA DELLA DISTANZA TERRA-LUNA Utilizzando la misura del diametro terrestre,
fatta da Eratostene, Ipparco di Nicea, intorno al 150 a.C., determinò la
distanza fra la Terra e la Luna. Per far ciò si avvalse di un metodo suggerito,
molti anni prima, da Aristarco di Samo, il più geniale astronomo dell'antichità.
A quel tempo già si sapeva che le eclissi di Luna erano
dovute all'ombra che la Terra, illuminata dal Sole, proiettava nello spazio.
Ipparco, allora, dal contorno dell'ombra prodotta dalla Terra sulla superficie
lunare, in occasione di un'eclissi parziale, risalì alle dimensioni della Luna
stessa. Egli osservò che il diametro dell'ombra proiettata dalla Terra, alla
distanza a cui si trova la Luna, era circa tre volte più grande del diametro
della Luna stessa. Il nostro satellite naturale doveva quindi avere un diametro
circa tre volte più piccolo di quello della Terra e pertanto misurare,
approssimativamente, 3.500 km. Poiché era facile stimare il diametro apparente
della Luna, che è di circa mezzo grado, fu possibile immaginare un'enorme
circonferenza intorno alla Terra ponendo, una a fianco all'altra, 720 Lune (il
doppio dei gradi di un angolo giro) delle quali era noto il diametro. Dividendo
quindi la lunghezza di questa enorme circonferenza (di circa due milioni e mezzo
di kilometri) per 2p,
si ottenne la misura del suo raggio, cioè in pratica la distanza fra la Terra e
la Luna. Essa risultò di circa 400.000 km, un valore molto prossimo a quello
reale. Oltre questa misura gli antichi greci non seppero
andare. E nemmeno in seguito si riuscì a compiere progressi significativi
relativamente alle distanze dei corpi celesti. Si arrivò quindi nella più
completa ignoranza, per quello che concerne le dimensioni dell'Universo, fino al
diciottesimo secolo. 3. IL TENTATIVO DI ARISTARCO DI MISURARE LA DISTANZA
TERRA-SOLE In verità, un tentativo di misurare la distanza
fra la Terra e il Sole, fu fatto proprio da Aristarco di Samo, circa 270 anni
prima di Cristo, pur senza conoscere altre misure cosmiche, nemmeno il diametro
terrestre. Egli sapeva che quando la Luna è in quadratura, cioè quando dalla
Terra si vede metà superficie della Luna illuminata dal Sole e l'altra metà è
al buio, le direzioni Sole-Luna e Luna-Terra determinano un angolo retto. Perciò,
in quel momento, i tre corpi celesti formano in cielo un triangolo rettangolo
del quale è possibile misurare l'angolo compreso fra le visuali dirette dalla
Terra rispettivamente al Sole e alla Luna. Aristarco valutò quell'angolo 87°
e, in base a questo valore, dichiarò che il Sole doveva essere circa 20 volte
più lontano dalla Terra di quanto non fosse la Luna. In realtà, il Sole è 400
volte più lontano della Luna, ma per arrivare a questo risultato Aristarco
avrebbe dovuto stimare con precisione l'angolo compreso fra le direzioni
Terra-Luna e Terra-Sole che non è di 87°, ma di 89°51', una misura
impossibile da ottenere con gli strumenti disponibili a quel tempo. Benché i valori fossero sbagliati, Aristarco
pervenne tuttavia, attraverso i suoi calcoli, ad una conclusione esatta e cioè
che il Sole, che appare in cielo più o meno delle dimensioni della Luna, doveva
essere, a causa della maggiore lontananza, in realtà molto più grande di essa
e quindi, presumibilmente, anche più grande della Terra. Pertanto, secondo
logica, doveva essere il corpo piccolo, cioè la Terra, a girare intorno al
corpo grande, cioè al Sole, e non viceversa. Il modello eliocentrico di Aristarco fu
condannato dalla cultura del suo tempo (spesso si sente dire che «i tempi non
erano maturi», quando un'ipotesi scientifica non viene presa in considerazione)
e ignorato nei secoli successivi. Bisognerà infatti aspettare quasi duemila
anni perché vengano accettate le conclusioni del sommo astronomo dell'antichità,
e l'astronomia possa finalmente riprendere a progredire. 4. LA MISURA DELLA PARALLASSE Nel 1543 viene pubblicata un'opera di
fondamentale importanza per l'astronomia (e non solo per essa!), il "De
revolutionibus orbium coelestium" dell'ecclesiastico Niccolò Copernico
(1474-1543), in cui l'autore riesuma le antiche idee di Aristarco ponendo il
Sole al centro dell'Universo e detronizzando la Terra dalla posizione di
privilegio che aveva occupato per secoli. Il semplice fatto di spostare il Sole dalla
periferia al centro dell'Universo non aiuta, di per sé, a determinare la
distanza di qualche nuovo corpo celeste. Tuttavia, indirizzato dal nuovo modello
di Universo, nel 1609, l'astronomo tedesco Giovanni Keplero, scoprì una legge
che avrebbe aperto la strada alla determinazione delle distanze dei singoli
pianeti dal Sole. Si tratta della cosiddetta «terza legge di Keplero» la quale
afferma che i quadrati dei tempi di rivoluzione dei pianeti intorno al Sole sono
proporzionali ai cubi delle loro distanze medie da esso. Applicando la legge appena scoperta, fu possibile
quindi disegnare, in scala, il sistema solare. Il modello in sé non forniva
alcuna distanza dei componenti del sistema solare ma mostrava le distanze
reciproche fra pianeti in modo che se si fosse riusciti a misurare la distanza
dalla Terra, anche di un solo pianeta, si sarebbero poi potute calcolare tutte
le altre. Per determinare le distanze di corpi lontani e
inaccessibili, si usa il sistema cosiddetto della parallasse. E' presto detto
cosa si intende con questo termine. Se si tiene il pollice vicino agli occhi e
lo si guarda prima con l'occhio destro (tenendo chiuso il sinistro) e poi con
l'occhio sinistro (tenendo chiuso il destro), lo si vede spostarsi sullo sfondo
della parete lontana. Se ora si pone il pollice un po' più lontano dagli occhi,
e lo si guarda nello stesso modo, si nota ancora uno spostamento, ma di minore
entità. Ovviamente, ponendo un oggetto a notevole distanza dagli occhi (ad
esempio a 20 metri) non si osserverebbe più alcuno spostamento rispetto allo
sfondo, in quanto ora l'oggetto da osservare sarebbe troppo lontano
relativamente alla distanza che separa i due occhi. Però, se si compissero le
osservazioni da posizioni molto più lontane di quanto non siano quelle comprese
fra i due occhi, spostandosi, ad esempio, lateralmente di alcuni metri, la
parallasse dell’oggetto lontano ritornerebbe evidente. Dalla Terra è possibile osservare un corpo
celeste da posizioni che distano al massimo quanto il diametro terrestre (a
maggiore distanza di così si finirebbe fuori dal pianeta!). Da queste
posizioni, presenta una parallasse misurabile solo la Luna e in effetti, con
questo sistema, già Tolomeo aveva determinato la distanza fra la Terra e la
Luna, osservando l'astro da punti posti a notevole distanza fra loro e
pervenendo ad un valore che si accordava molto bene con quello trovato da
Ipparco per altra via. Se l'osservazione di un astro viene fatta da due
osservatori situati ai lati opposti della Terra, l'angolo di parallasse che ne
risulta, diviso per due, è chiamato «parallasse geocentrica» (o diurna). Esso
corrisponde all'angolo sotto il quale, dall'astro, si vedrebbe
perpendicolarmente il raggio terrestre. In realtà, per prendere la misura, non
serve nemmeno la presenza contemporanea di due osservatori: sfruttando il moto
di rotazione diurna del nostro pianeta, basta porsi sull’equatore ed aspettare
12 ore che la Terra stessa ci porta dall’altra parte a circa 12.756 km di
distanza. La parallasse geocentrica della Luna è di 57 minuti d'arco, cioè
quasi un grado. Quando si tentò di valutare la parallasse diurna
del Sole o di un pianeta qualsiasi ci si rese conto che gli angoli erano troppo
piccoli per poter essere valutati con precisione. Tuttavia, la misura sarebbe
diventata possibile con l'utilizzo del cannocchiale costruito da Galilei. In verità, anche facendo uso del cannocchiale,
le difficoltà che si incontravano erano ancora notevoli per le considerevoli
distanze dei pianeti dalla Terra. Comunque, nel 1672, Gian Domenico Cassini, un
astronomo di origine italiana, capostipite di una dinastia di scienziati che
lavorò a Parigi, senza soluzione di continuità, per sei generazioni e sempre
nel campo dell'astronomia (esempio unico nella storia della scienza), riuscì a
valutare con un discreto grado di precisione la parallasse di Marte, il pianeta
più vicino alla Terra dopo Venere. Da questa misura fu possibile dedurre la
distanza della Terra dal Sole che venne valutata, dallo stesso Cassini, in
138.730.000 km, un valore di solo una decina di milioni di kilometri inferiore a
quello reale. La misura precisa della distanza Terra-Sole si
ottenne però solo un secolo più tardi utilizzando un suggerimento
dell'astronomo inglese Edmund Halley (1656-1742), il quale, da giovane, aveva
trascorso alcuni anni a Sant'Elena (un'isola situata nell'emisfero australe,
divenuta famosa per aver ospitato Napoleone in esilio), dove si era recato per
studiare le stelle di quella parte del cielo. Durante il soggiorno sull’isola
gli capitò di osservare Mercurio che passava davanti al Sole e ciò gli suggerì
l'idea che un analogo passaggio di Venere (pianeta che si trova molto più
vicino alla Terra di Mercurio) sul disco solare, avrebbe consentito di misurare
la parallasse di quel pianeta. Venere sarebbe passata davanti al Sole nel 1761 e
pertanto si dispose affinché quell’avvenimento fosse osservato da punti molto
lontani fra loro. Il percorso del pianeta sul disco solare, osservato da punti
diversi, ovviamente sarebbe apparso diverso. La misura accurata di questi
spostamenti consentì di risalire al valore della parallasse di Venere e quindi
alla distanza di quel pianeta dalla Terra. Nota la distanza di Venere, fu
immediato, sul modello in scala disponibile fin dai tempi di Keplero, il calcolo
delle distanze di tutti gli altri pianeti del sistema solare, e anche del Sole. Alla fine del 1700 era nota quindi con
sufficiente precisione la distanza della Terra dal Sole, valutata in circa 150
milioni di kilometri. Questa distanza si chiama «unità astronomica» (U.A.)
ed è proprio facendo uso di questa unità di misura che vengono a volte
espresse le distanze dei pianeti dal Sole. Il pianeta più lontano, noto agli
antichi, Saturno, dista dal Sole circa 10 U.A., ossia un miliardo e mezzo di
kilometri, mentre il pianeta più lontano che attualmente si conosce, Plutone,
dista mediamente circa 40 U.A., quindi sei miliardi di kilometri. 5. LA SCOPERTA DEGLI ASTEROIDI Dopo che erano state determinate con precisione
le distanze dei pianeti dal Sole, intorno al 1770, l'astronomo tedesco Johann
Tietz (latinizzato in Titius), osservando questi valori, espressi in unità
astronomiche, notò che contenevano una certa regolarità. Le distanze dei
singoli pianeti dal Sole potevano infatti essere ricavate dalla seguente
progressione geometrica di ragione due: 3, 6, 12, 24, 48, 96, ecc. Ponendo lo
zero all'inizio della progressione e aggiungendo a ciascun termine, il numero 4,
si ottiene una serie di valori che, divisi per 10, rappresentano, in unità
astronomiche, le distanze dei pianeti dal Sole. I valori sono i seguenti: 0,4,
0,7, 1, 1,6, 2,8, 5,2, 10,0, ecc. Alla Terra corrisponde il terzo valore, cioè
1 U.A. e, ad esempio a Marte, il quarto, cioè 1,6 U.A. pari a circa 240 milioni
di kilometri che è affettivamente la distanza del pianeta dal Sole. Questa
legge empirica fu resa popolare, qualche anno più tardi, dall'astronomo tedesco
Elert Bode, e oggi è nota con il nome di «legge di Titius e Bode». Una prima conferma della validità della legge si
ebbe nel 1781 quando l'astronomo di origine tedesca, trapiantato in Inghilterra,
Wilhelm Friederich Herschel (1738-1822) scoprì, per caso, Urano (il sesto
pianeta del sistema solare), che si trova proprio nella posizione prevista da
Titius e Bode, ossia a 19,6 U.A. dal Sole. A proposito del "caso", che molto
spesso viene invocato per segnalare scoperte scientifiche, è bene dire che
raramente una scoperta scientifica avviene veramente per caso; il più delle
volte essa è frutto inaspettato di una ricerca volta in altre direzioni, da
parte di un ingegno capace di intendere le novità. Louis Pasteur diceva: «Nella
ricerca il caso favorisce solo le menti preparate». Una seconda prova del valore euristico della
legge si ebbe pochi anni più tardi. La legge di Titius e Bode presentava uno
spazio vuoto in corrispondenza del valore di 2,8 U.A.: Marte si trova infatti a
1,6 U.A. dal Sole e Giove, il pianeta successivo, a 5,2.
Si pensò quindi che a quella distanza dovesse trovarsi un pianeta che
non era ancora stato scoperto e pertanto un gruppo di osservatori, che si dette
il nome di "Polizia del cielo", si mise alla ricerca del pianeta
mancante. Essi vennero però anticipati dall'astronomo italiano Giuseppe Piazzi
(1746-1826) il quale, dall'osservatorio di Palermo, nella notte di capodanno del
1801, quindi esattamente all'inizio del nuovo secolo, osservò un corpo celeste
di dimensioni più piccole dei pianeti a cui dette il nome di Cerere, la dea
patrona della Sicilia. In realtà non si trattava di un singolo pianeta,
ma di un rappresentante di uno sciame di corpi di piccole dimensioni di cui in
seguito ne furono osservati oltre duemila (e ancora oggi se ne scoprono di
nuovi). A questi corpi celesti, situati in una zona del cielo posta ad una
distanza media di 2,8 U.A., cioè proprio alla distanza indicata dalla legge di
Titius e Bode, fu dato il nome di «Pianetini» o «Asteroidi». 6. LA MISURA DELLA PARALLASSE DELLE STELLE Nei primi anni del 1800 si conoscevano con
precisione le dimensioni del sistema solare, ma il sistema solare non
rappresenta che una piccolissima parte dell'Universo intero il quale è composto
da un numero sterminato di stelle. Quanto sono lontane le stelle? Per misurare la distanza delle stelle, per mezzo
della parallasse, l'uomo aveva ora a disposizione una base più ampia di quella
rappresentata dal diametro terrestre. Questa era costituita dall'asse
dell'orbita percorsa dalla Terra intorno al Sole, migliaia di volte più lunga
della precedente. Osservando quindi una stella quando la Terra si trova in una
certa posizione dell'orbita, e osservando la stessa stella quando la Terra si
trova, sei mesi più tardi, nella posizione opposta, si può determinare quella
che ora si chiama la «parallasse annua» dell'astro. Essa può essere definita
come l'angolo sotto il quale, da una stella, si vede, perpendicolarmente, il
semiasse dell'orbita terrestre. Alla parallasse annua di un secondo d'arco
corrisponde una distanza di un parsec (pc), che equivale a 3,26 anni luce.
Ebbene, non esiste alcuna stella così vicina a noi da presentare una parallasse
di solo un secondo d'arco. Quindi, per misurare la distanza anche delle stelle
più vicine, era indispensabile determinare il valore di angoli molto piccoli.
In verità, quelli che in pratica vengono misurati, sono gli angoli che sulla
Terra si formano fra le visuali dirette al Sole e alla stella di cui si vuol
conoscere la distanza. Questi angoli sono solo leggermente inferiori a 90°. Intorno al 1830 i telescopi erano abbastanza ben
costruiti da consentire la misura della parallasse di una stella. Il primo che
ci riuscì fu l'astronomo tedesco Friedrich Wilhelm Bessel che, nel 1838,
comunicò di aver misurato la parallasse della 61 del Cigno, una stella poco
visibile situata nella costellazione del Cigno. Questa stella presentava un
notevole moto proprio e quindi doveva essere molto più vicina delle altre
stelle che presentavano invece spostamenti nulli o appena percettibili. Se la 61
del Cigno era vicina, rispetto alle stelle lontane che facevano da sfondo,
doveva essere possibile misurare la sua parallasse. Essa risultò infatti di
0,314 secondi d'arco, quindi poco più di un terzo di secondo, per cui la stella
doveva trovarsi a circa 3 parsec dalla Terra, ovvero a circa 10 anni luce. E così
è in effetti. Pochi mesi più tardi, l'astronomo scozzese
Thomas Henderson, dall'Osservatorio di Città del Capo, misurò la parallasse
della stella Alfa della costellazione del Centauro, che risultò essere di 0,75
secondi d'arco. Questa stella era quindi molto più vicina della 61 del Cigno e
infatti si trova a soli 4 anni e 4 mesi luce da noi. Successivamente fu
individuata una debole stellina, associata ad Alfa Centauri, ancora leggermente
più vicina. Ad essa fu dato il nome di Proxima Centauri ed è proprio questa la
stella più vicina che attualmente si conosca. Entro la fine del secolo vennero misurate le
distanze di molte stelle con il metodo della parallasse; tuttavia, oltre certi
limiti, con questo metodo, non si riusciva ad andare. La parallasse più piccola
che oggi si riesce a stimare, usando i migliori strumenti a disposizione, è di
un centesimo di secondo d'arco, quindi non si riescono a valutare distanze
superiori a poco più di 300 anni luce. Ma oltre questo limite esistono miliardi
di altre stelle, come fare per valutarne la distanza? Un sistema molto approssimativo poteva essere
quello di stimarne la lontananza in funzione della loro luminosità partendo dal
presupposto che tutte le stelle possiedano più o meno la stessa luminosità
intrinseca. Si sa che la luminosità di una sorgente di luce diminuisce con il
quadrato della distanza, secondo una ben nota legge fisica. Pertanto, una
sorgente luminosa che apparisse, per esempio, nove volte meno luminosa di
un'altra supposta di uguale luminosità intrinseca, si troverebbe a distanza
tripla da questa. In realtà, le stelle non sono tutte ugualmente
luminose e quindi il metodo, applicato ai casi concreti, si rivelò molto
impreciso. Tuttavia, grazie a questo sistema di valutazione delle distanze,
William Herschel, nel 1785, formulò l'ipotesi che le stelle in cielo fossero
disposte a forma di lente intorno al sistema solare. In effetti, se di notte si
guarda in alto in cielo si vede una larga banda bianca che lo attraversa e che
gli antichi chiamavano Via Lattea, perché immaginavano si trattasse del latte
uscito dal seno di Giunone mentre allattava Ercole. La fascia luminosa non è
altro che un assembramento di stelle che ad occhio nudo non siamo in grado di
distinguere singolarmente, così come non siamo in grado di distinguere le
singole foglie degli alberi di una foresta vista dall'aereo. A noi sembra,
quindi, di essere circondati da questa fascia di stelle e di trovarci quindi al
centro di essa. L'insieme di queste stelle (compreso il nostro Sole)
oggi viene chiamato Galassia (dal greco «galaxias» che significa latteo).
Herschel, prendendo in considerazione campioni di stelle situati in diversi
punti del cielo, calcolò il numero di stelle presenti nella intera Via Lattea.
Questo numero venne stimato in circa cento milioni. In realtà le stelle
presenti nella Galassia sono almeno mille volte di più. In base alla luminosità delle stelle Herschel
riuscì anche a valutare la grandezza di tutto il complesso che risultò
tuttavia di molto inferiore a quello reale. Comunque, anche se imperfetto, il
quadro della nostra Galassia fornito da Herschel, nelle sue linee essenziali, si
rivelerà attendibile. 7. LA "MAGNITUDO" DELLE STELLE Agli inizi del 1900 la conoscenza delle distanze
delle stelle era paragonabile a quella che all'inizio del 1700 concerneva le
distanze dei pianeti. Si ricorderà che agli inizi del 1700 si conosceva con
precisione la distanza della Luna, ma poco si sapeva riguardo alle distanze
degli altri pianeti; così, agli inizi del nostro secolo, si conosceva la
distanza di alcune stelle molto vicine, ma le distanze di quelle più lontane
potevano essere solo intuite. Il passo successivo verso la misurazione delle
distanze stellari fu la scoperta, da parte dell'astronoma americana Henrietta
Leavitt (1868-1922), delle variabili cefeidi, nella Piccola Nube di Magellano.
La Piccola Nube di Magellano è un gruppo di stelle che appare come una macchia
lattiginosa del cielo australe ed è così chiamata perché il primo ad
osservarla fu l'esploratore portoghese Ferdinando Magellano, il quale, nel 1520,
stava navigando lungo la costa atlantica del Sud America alla ricerca di un
passaggio che gli consentisse di raggiungere l'Asia. Le variabili cefeidi sono delle stelle, la cui
luminosità varia nel tempo raggiungendo un massimo per poi ritornare alla
luminosità iniziale. Queste stelle si chiamano «cefeidi» perché la prima di
esse venne osservata nella costellazione di Cefeo. Il tempo che intercorre fra
un massimo di luminosità e il successivo, viene detto «periodo» e può
variare da meno di un giorno a quasi due mesi. Inoltre, si osserva che la
luminosità raggiunta al massimo dello splendore, può essere più o meno
intensa e non presenta alcun legame con il periodo di pulsazione nel senso che
vi sono cefeidi con periodo lungo e scarsa luminosità finale e cefeidi con
periodo breve e luminosità finale intensa, o viceversa, cefeidi con periodo
lungo e intensa luminosità finale e cefeidi con periodo breve e scarsa
luminosità finale. Fin dai tempi di Ipparco di Nicea, le stelle
erano classificate, in funzione della loro luminosità (che veniva chiamata «grandezza»),
secondo una scala che andava da 1 a 6. Le stelle meno luminose venivano
classificate di sesta grandezza, mentre le più luminose erano dette di prima
grandezza. In seguito, a questa classificazione, venne dato maggior rigore
scientifico definendo di prima grandezza una stella che appare esattamente 100
volte più luminosa di una di sesta. Per effetto di questa precisazione, volendo
passare da una grandezza all'altra, si deve moltiplicare la luminosità della
stella meno luminosa per la radice quinta di 100, ossia per 2,512. Se quindi si
assegnasse, ad esempio, il valore uno alla luminosità di una stella di sesta
grandezza, quella di quinta grandezza avrebbe una luminosità di 2,512 e quella
di quarta grandezza sarebbe ancora 2,512 volte più luminosa di quest’ultima e
quindi raggiungerebbe il valore 6,31. La stella di terza grandezza avrebbe una
luminosità ancora 2,512 volte maggiore di quella di quarta, quindi la sua
luminosità sarebbe 15,85, e così di seguito fino alla stella di prima
grandezza che sarebbe 2,512 volte più luminosa di quella di seconda e 100 volte
più luminosa di quella di sesta. Con il perfezionamento della scala delle
grandezze, alcune stelle molto luminose finirono per trovarsi con luminosità
superiori a quelle necessarie per essere classificate di prima grandezza. A
queste stelle vennero pertanto assegnati valori di magnitudo zero e anche
negativi. (Oggi si preferisce il termine «magnitudo» al posto di «grandezza»
perché quest’ultimo termine può trarre in inganno e far pensare che si
tratti delle dimensioni effettive della stella). Attualmente, ad esempio, a
Betelgeuse si assegna magnitudo 0,80, a Vega magnitudo 0,04 e a Sirio, che è la
stella più splendente di tutte, magnitudo -1,46. La luce di una stella che arriva sulla Terra,
attualmente può essere valutata con grande precisione utilizzando apparecchi
molto sofisticati, detti fotometri. Le magnitudo determinate misurando la luce
che ci giunge dalle stelle sono dette «magnitudo apparenti» in quanto la
radiazione che percepiamo dipende, oltre che dalla reale luminosità dell'astro,
anche dalla distanza a cui si trova. Per poter valutare la luminosità effettiva
di una stella dovremmo quindi conoscere la sua distanza. Gli astronomi definiscono «magnitudo assoluta»
di una stella la sua luminosità apparente alla distanza di 10 parsec. Per avere
una misura del reale splendore di una stella gli scienziati hanno quindi
convenuto di immaginare tutte le stelle sistemate alla stessa distanza e di
considerare la luminosità apparente, a quella distanza, come espressione della
loro luminosità intrinseca. Questa distanza standard, come abbiamo detto, è
stata fissata a 10 parsec, cioè a 32,6 anni luce. E' stata studiata quindi una relazione molto
semplice che lega fra loro la magnitudo assoluta M, quella apparente m e la
distanza d espressa in parsec. La relazione è la seguente: M
= m + 5 - 5 log d Impiegando questa formula è possibile
determinare il valore della magnitudo assoluta di una stella conoscendo quella
apparente e la sua distanza. Oppure, come vedremo in seguito, valutare la
distanza di una stella conoscendo la sua luminosità assoluta e quella
apparente. Ad esempio, nel caso di Sirio, che è una stella
con magnitudo apparente -1,46 e dista da noi 2,65 parsec, si ha: M
= -1,46 + 5 - 5 ×
0,424 = +1,42 in cui 0,424 è il logaritmo
decimale di 2,65. Sirio, quindi, alla distanza di 10 parsec (cioè più lontano
di quanto non sia realmente) diminuisce di quasi tre punti il suo splendore
passando da magnitudo -1,46 a magnitudo +1,42. Ora, se prendiamo ad esempio la Stella Polare,
essa appare meno luminosa di Sirio solo perché è molto più lontana di questa.
Se la Stella Polare venisse posta alla stessa distanza di Sirio essa apparirebbe
molto più luminosa. Ciò dipende dal fatto che la luminosità intrinseca della
Stella Polare è molto maggiore di quella di Sirio e se le due stelle venissero
poste entrambe alla distanza di 10 parsec la cosa sarebbe subito evidente.
Viceversa, il nostro Sole, che è luminosissimo, tanto da rischiarare, con la
sua presenza, il cielo intero (magnitudo apparente -26,7), alla distanza di 10
parsec, apparirebbe solo di magnitudo 4,8, quindi una stellina a mala pena
visibile ad occhio nudo. 8. LE VARIABILI CEFEIDI Torniamo ora alle Cefeidi e alla scoperta di
Henrietta Leavitt. Questa eminente scienziata, nel 1912, era assistente
all'Osservatorio dello Harvard College, dove era impegnata a studiare una serie
di fotografie relative alla Piccola Nube di Magellano, dalle quali si capiva
chiaramente che si trattava di un gruppo di stelle molto probabilmente situate
al di fuori dalla Via Lattea, anche se in verità alcuni astronomi pensavano che
ne facesse parte. Questo sistema di stelle conteneva molte cefeidi le
quali presentavano un periodo di pulsazione tanto più lungo quanto più
apparivano brillanti al massimo dello splendore. Come si ricorderà, questa
regolarità non si riscontrava nelle cefeidi che si potevano osservare in altre
zone del cielo. Come mai ciò accadeva proprio per quelle della Piccola Nube di
Magellano? La Leavitt comprese che ciò doveva dipendere dal fatto che le
cefeidi presenti nella Nube di Magellano erano più o meno tutte situate alla
stessa distanza da noi per cui la loro magnitudo apparente era in pratica una
magnitudo assoluta, solo che era riferita alla distanza a cui si trova la
Piccola Nube di Magellano invece che a 10 parsec. Questa distanza, tuttavia, non si conosceva, ma
se si fosse riusciti a misurarla, la magnitudo assoluta della stella si sarebbe
potuta stabilire attraverso la durata del suo periodo di pulsazione, il quale
appariva, come abbiamo detto, tanto più lungo quanto più intensa era la
luminosità al massimo dello splendore. Studiando con attenzione le foto della Piccola
Nube di Magellano, scattate in tempi successivi, la Leavitt fu in grado di
scrivere una relazione che legava la magnitudo assoluta delle cefeidi con la
lunghezza del periodo di pulsazione. Da questa relazione periodo-luminosità si
poteva dedurre quale periodo avrebbe dovuto avere una cefeide che presentava una
certa magnitudo assoluta, e viceversa a quale magnitudo assoluta doveva
corrispondere una cefeide che presentava un certo periodo di pulsazione. A
questo punto non rimaneva altro che determinare la magnitudo assoluta di una
sola cefeide per conoscere quella di tutte le altre. Ma per conoscere la magnitudo assoluta di una
cefeide era necessario determinarne la distanza. Il fatto è che le cefeidi,
purtroppo, sono tutte stelle molto lontane tanto che non è possibile, per
misurarne la distanza, utilizzare il metodo della parallasse. Si tentò quindi di arrivare alla definizione
della loro distanza attraverso metodi statistici, basati sulla determinazione
del moto proprio. Abbiamo già accennato al fatto che le stelle più vicine
hanno un moto proprio più evidente rispetto a quelle più lontane, e quindi, più
si vede spostarsi, nel tempo, una stella in cielo e più quella stella dovrebbe
essere vicina. In realtà il metodo non è molto preciso ma, in mancanza di
meglio, sufficientemente affidabile, tanto che permise di ottenere valori della
parallasse di una decina di cefeidi. Queste misure vennero considerate
accettabili. Il primo ad utilizzare questo metodo fu
l'astronomo danese Ejnar Hertzsprung il quale analizzò il movimento di gruppi
di stelle contenenti anche delle cefeidi, e alla fine dichiarò che una cefeide
con periodo di 6,6 giorni doveva avere una magnitudo assoluta, al massimo dello
splendore, di -2,3. Pochi anni più tardi, l'americano Harlow Shapley
(1885-1972), uno dei più grandi astronomi dell’ultimo secolo, ripeté il
procedimento e concluse che una cefeide con una magnitudo assoluta di -2,3
doveva avere un periodo di pulsazione di 5,96 giorni: un risultato molto vicino
a quello trovato dall'astronomo danese. Stabilito quindi il legame fra la magnitudo
assoluta di una determinata cefeide e il suo periodo di pulsazione, applicando
la relazione periodo-luminosità scoperta dalla Leavitt, si poté determinare la
magnitudo assoluta di una qualsiasi cefeide. Queste misurazioni portarono, fra
l'altro, alla scoperta che le cefeidi sono stelle molto grandi che pulsano
probabilmente a causa di espansioni e contrazioni successive determinate da
esplosioni violente e ritmiche che si verificano all'interno del loro nucleo: più
è violenta l'esplosione, più la stella si espande, più diventa luminosa al
massimo dell'espansione e, di conseguenza, più tempo poi impiega per contrarsi. Le cefeidi si rivelarono quindi dei formidabili
«fari campione» utili per misurare le grandi distanze cosmiche. Infatti, se le
cefeidi, sparse nell'Universo, si fossero comportate tutte quante come quelle
presenti nella Piccola Nube di Magellano, l'uomo sarebbe venuto in possesso di
un sistema sicuro per misurare le dimensioni reali della nostra Galassia e anche
le distanze dei raggruppamenti di stelle esterni ad essa. Utilizzando le cefeidi presenti nella nostra
Galassia, Shapley tentò di determinarne forma e dimensioni. Dopo una serie di
misurazioni delle distanze e dell'affollamento di stelle nelle diverse direzioni
del cielo, egli concluse che la forma della nostra Galassia è effettivamente a
lente, come aveva scoperto Hershel, ma che il sistema solare non si trova al
centro di essa. Egli inoltre propose per essa un diametro di 300.000 anni luce,
una valutazione, come vedremo, eccessiva. Per il fatto che la Galassia si presentava a
forma di disco gli astronomi pensarono che essa dovesse girare intorno ad un
proprio asse e si misero quindi a misurare i moti relativi delle stelle per
individuare quelle che si allontanavano e quelle che si avvicinavano alla Terra.
Alla fine risultò che il Sole, e le stelle che gli stanno vicine, si muove a
circa 240 km al secondo rispetto al centro galattico compiendo una rivoluzione
completa, intorno ad esso, in circa 200 milioni di anni. Questo periodo di
tempo, può essere considerato l'«anno galattico». Ora, poiché il nostro
Sole, insieme ai pianeti che gli girano intorno, è nato circa 5 miliardi di
anni fa, si può dire che il sistema solare ha un’età di circa 25 anni
galattici. Una volta determinata la velocità di rotazione,
fu possibile calcolare la forza di gravità del centro galattico e quindi la sua
massa. Risultò così che la massa della Galassia era equivalente a quella di
100 miliardi di stelle grandi come il Sole e poiché il nostro Sole è una
stella di media grandezza si concluse che molto probabilmente la nostra Galassia
doveva contenere circa 100 miliardi di stelle, mille volte di più di quelle
stimate da Herschel. Frattanto, per effetto di misure più scrupolose,
il diametro della Galassia venne ridotto a 100.000 anni luce, mentre lo spessore
era valutato in circa 20.000 anni luce. Il nostro Sole doveva trovarsi,
all'interno di questo mare di stelle, in posizione periferica, sul piano
galattico, a circa 30.000 anni luce dal centro (e quindi a 20.000 anni luce dal
bordo esterno). 9. LA SCOPERTA DELLE GALASSIE Nei primi anni del secolo che si è appena
concluso, il quadro dell'Universo si andava delineando con precisione, ma era
ben lungi dall'essere completo. Vi erano alcuni corpi dai contorni sfumati,
chiamati "nebulose", che non si comprendeva bene cosa fossero. Per la
verità non si riusciva nemmeno a capire se li si doveva considerare oggetti
situati all'interno della nostra Galassia o fuori di essa. Alcuni astronomi
avevano anche avanzato il dubbio che si trattasse di assembramenti di stelle,
cioè di galassie, e non di polveri cosmiche, come molti pensavano e come
lasciava sottintendere il nome che era stato loro assegnato. E' interessante
ricordare che già nel 1755, Immanuel Kant, notissimo filosofo tedesco,
sviluppando la concezione pluralistica dei mondi di Giordano Bruno, immaginò la
Via Lattea come un "Universo isola", immerso nel vasto mare cosmico
insieme con altri Universi isola della sua stessa natura. Una di queste nebbie diffuse, nelle mappe
cosmiche, era indicata con la sigla M 31, ma veniva anche chiamata Nebulosa di
Andromeda, perché si trova nella costellazione che porta tale nome. Nel 1924
l'astronomo americano Edwin Hubble (1889-1953) puntò un nuovo telescopio da
cento pollici (2,5 metri), da poco installato sul Monte Wilson in California,
verso la Nebulosa di Andromeda e poté osservare che il margine esterno di essa
era formato di stelle. Allora fu subito chiaro che la Nebulosa di Andromeda era
in realtà una galassia. Anche altre nebulose si rivelarono essere in
realtà agglomerati di stelle che apparivano sistemati a distanze ancora
maggiori della galassia di Andromeda. L'Universo si andava quindi popolando di
un gran numero di «Universi isola», proprio come aveva immaginato Kant, e di
conseguenza anche le sue dimensioni si andavano ampliando fino a distanze di
decine, e anche di centinaia di milioni di anni luce. Le galassie dettero non pochi grattacapi agli
astronomi degli anni Trenta del secolo scorso. In primo luogo esse sembravano
essere tutte più piccole della nostra; in secondo luogo, la valutazione delle
loro distanze, faceva pensare che l'Universo avesse un'età di solo 2 miliardi
di anni, una vita troppo breve e in evidente contrasto con quella della Terra,
che era stata stimata, con metodi rigorosi, a 4,5 miliardi di anni. La soluzione delle contraddizioni di cui abbiamo
detto si ebbe nel 1944 quando l'astronomo americano di origine tedesca Walter
Baade, scoprì che gli errori di valutazione delle dimensioni delle galassie e
dell'età dell'Universo erano dovuti a misure errate delle distanze cosmiche. Egli, approfittando di condizioni eccezionali del
cielo di Monte Wilson, dov'era situato un nuovo telescopio da 100 pollici,
dovute anche all'oscuramento della vicina città di Los Angeles, imposto dal
pericolo di incursioni aeree giapponesi, riuscì ad ottenere fotografie del
cielo di ottima qualità. Queste foto evidenziavano anche le stelle interne
della galassia di Andromeda, quelle che non era riuscito ad osservare Hubble. Baade poté così notare che le stelle poste
all'interno della Galassia di Andromeda erano molto diverse da quelle esterne.
Le prime, infatti, erano rosse, mentre quelle esterne erano azzurre; inoltre le
giganti azzurre della periferia apparivano mediamente 100 volte più luminose
delle giganti rosse del centro galattico. Esistevano, in altre parole, due tipi
di stelle differenti che egli chiamò rispettivamente stelle di Popolazione I e
stelle di Popolazione II. Si riuscì anche a stabilire, facendo uso di
particolari sistemi di analisi che si andavano perfezionando in quei tempi, che
le stelle di Popolazione I (quelle esterne) erano relativamente giovani e ricche
in metalli, mentre le stelle di Popolazione II (quelle interne) erano più
vecchie e avevano basso contenuto in metalli. Frattanto, dopo la guerra, veniva montato, sul
Monte Palomar, il più grande telescopio mai costruito dall'uomo: esso si chiama
Hale (in onore dell'astronomo americano George E. Hale, che ne diresse la
costruzione) ed ha uno specchio del diametro di 5 metri. Facendo uso di questo
gigantesco strumento per l'osservazione del cielo, si poté scoprire che
esistono galassie di diversa struttura che possono tuttavia essere ricondotte a
due soli tipi fondamentali: galassie ellittiche e galassie a spirale. Le prime
sono costituite prevalentemente di stelle di Popolazione II, mentre nelle
galassie a spirale (a forma cioè di girandola) i bracci sono composti di stelle
di Popolazione I e il centro è pieno di stelle di Popolazione II. Baade, osservando le cefeidi presenti fra le
stelle di Popolazione II e quelle presenti fra le stelle di Popolazione I notò
che i due tipi erano diversi: le cefeidi di Popolazione I, a parità di periodo
di pulsazione, avevano una luminosità molto maggiore di quelle di Popolazione
II. Ora, poiché la Leavitt aveva determinato la curva periodo-luminosità
utilizzando cefeidi di Popolazione II, mentre Shapley, per valutare le
dimensioni della nostra Galassia e le distanze degli ammassi globulari che
stanno intorno ad Andromeda, aveva fatto uso delle cefeidi di Popolazione I,
quest'ultimo era pervenuto a valutazioni delle distanze molto inferiori a
quelle reali in quanto si era servito di cefeidi che avevano luminosità quattro
o cinque volte superiore a quelle utilizzate dalla Leavitt per calibrare la
scala periodo-luminosità. L'uso della scala della Leavitt portava
logicamente ad un calcolo errato della magnitudo assoluta di una cefeide
presente fra le stelle di Popolazione I determinato in base al suo periodo.
D'altra parte, se era sbagliata la magnitudo assoluta, doveva esserlo anche la
distanza calcolata in base ad essa. La conclusione di tutto ciò era che la
galassia in cui si trovava quella cefeide doveva essere molto più lontana di
quanto risultava dai calcoli. Per farla breve, l'Universo, di colpo,
raddoppiava le sue dimensioni e i problemi connessi con l'errata valutazione
delle distanze cosmiche erano risolti: la nostra non era la galassia più grande
di tutte e l'età dell'Universo diventava decisamente maggiore di quella che derivava dai calcoli precedenti e risultava quindi perfettamente compatibile
con l'età della nostra Terra. Oggi sappiamo che l’Universo è un milione di
miliardi di volte più grande della nostra Galassia. 10. LA SPETTROSCOPIA Raddoppiando le distanze delle galassie non si
risolveva tuttavia il problema relativo alle dimensioni dell'Universo. Fino a
quale distanza si sarebbe potuto osservare galassie? Quali erano i confini reali
dell'Universo? Le osservazioni con i moderni telescopi hanno mostrato che le
galassie hanno la tendenza a unirsi in gruppi, come d'altra parte fanno le
stelle. Nella scala gerarchica, abbiamo visto che un gruppo di stelle forma una
galassia; ora possiamo dire che un gruppo di galassie forma un ammasso di
galassie. La nostra Galassia, ad esempio, fa parte del cosiddetto Gruppo Locale
il quale è costituito da una ventina di galassie che comprendono Andromeda e le
due Nubi di Magellano. Anche gli ammassi di galassie si organizzano in
unità superiori. Sono stati osservati, infatti, dei superammassi di galassie.
Il nostro Gruppo Locale, ad esempio, farebbe parte del superammasso della
Vergine. Oltre queste dimensioni, molto probabilmente non si andrà. Le
osservazioni più recenti hanno mostrato che le galassie sarebbero sistemate in
zone limitate che circoscrivono vaste regioni vuote. L'Universo avrebbe, in
altre parole, una struttura a spugna. Da ciò dobbiamo dedurre che l'Universo è
infinito? Certamente no. Esiste infatti un limite imposto dal tempo, se non
dallo spazio. Prima di parlarne vediamo di capire come hanno
fatto gli astronomi a misurare le distanze delle galassie più lontane alle
quali non è più applicabile il metodo delle cefeidi per il semplice fatto che
nelle galassie molto lontane non è più possibile distinguere le singole
stelle. Le galassie più lontane appaiono come nebbioline sfumate e niente più.
Il metodo che avrebbe consentito di determinare
le distanze degli oggetti più lontani dell'Universo nasceva poco più di un
secolo fa quando venne individuata una nuova tecnica di indagine dei corpi
celesti basata sull'analisi dettagliata della luce. Questa tecnica è detta «spettroscopia
ottica» e consiste nel far passare la luce attraverso un prisma di vetro (o di
un qualsiasi altro corpo trasparente tagliato in modo che due facce formino un
angolo acuto), per consentirne la separazione nelle sue componenti elementari. Già dai tempi di Newton si sapeva che la luce
del Sole che ci appare "bianca", in effetti è costituita dall'insieme
di sette colori che vanno dal rosso al violetto (i colori dell'arcobaleno).
Questi colori si manifestavano quando la luce dell'astro veniva fatta passare
attraverso un prisma di vetro. Sovrapposte a questo spettro continuo di colori
vi erano migliaia di righe scure, che apparivano quando la luce, prima di
attraversare il prisma trasparente era costretta a passare per una stretta
fessura. Le righe furono osservate per la prima volta dal fisico tedesco Joseph
Fraunhofer (1787-1826), ma di esse, a quel tempo, nessuno seppe dare
spiegazione. La soluzione dell'enigma si deve a Gustav Robert Kirchhoff
(1824-1887) e Robert Wilhelm Bunsen (1811-1899) i quali si resero conto che le
righe nere non erano altro che la traccia lasciata sullo spettro dagli elementi
chimici presenti sul Sole. I due scienziati tedeschi nel 1859 scoprirono
infatti che mentre i solidi, i liquidi e i gas molto compressi, portati ad
incandescenza, producono uno spettro continuo di colori, i gas incandescenti, a
bassa pressione, producono invece uno spettro fatto di righe luminose staccate
fra loro. Queste righe non sono altro che la traccia lasciata dai singoli
elementi chimici, una specie di "impronta digitale" tipica di ogni
elemento. Viceversa, se un gas freddo viene attraversato
dalla luce prodotta da un corpo incandescente si nota il formarsi, sullo spettro
continuo di colori, di una serie di righe nere situate esattamente nella stessa
posizione che occuperebbero le righe luminose emesse dal medesimo gas
incandescente. E come è possibile ottenere lo spettro del Sole,
allo stesso modo è possibile ottenere lo spettro delle stelle e delle galassie.
Lo studio di questi spettri fornisce informazioni relativamente alla
composizione chimica, alla temperatura e alla densità del materiale gassoso
presente sull'astro. Inoltre, per quanto ci interessa, la
determinazione della lunghezza delle onde luminose, corrispondenti alle righe
dello spettro, consente di ricavare dati significativi sul moto delle stelle e
delle galassie. Si era osservato infatti che le righe spettrali delle stelle e
delle galassie non erano mai sistemate nella posizione occupata, nelle
osservazioni effettuate in laboratorio, dagli stessi elementi chimici, ma
apparivano spostate, o dalla parte del viola o dalla parte del rosso. Quasi tutti gli astronomi oggi concordano nel
ritenere che lo spostamento delle righe dello spettro luminoso sia dovuto
all'effetto Doppler. Si tratta di un fenomeno che venne scoperto dal fisico
austriaco Christian Johann Doppler nel 1842 in campo acustico, ma è
caratteristico di tutte le manifestazioni ondulatorie. Tutti noi abbiamo sperimentato l'effetto Doppler
relativo al suono. Quando ad esempio un veicolo a sirene spiegate si avvicina,
notiamo che il tono si fa sempre più acuto, poi, dopo che ci ha superato, e si
allontana, diviene grave. Un rumore più acuto viene prodotto da onde corte
mentre un rumore grave è prodotto da onde lunghe; quindi, il suono di una
sorgente sonora che prima si avvicina e poi si allontana cambia di tono perché
cambia la lunghezza dell'onda che lo produce. Lo spostamento delle righe dello spettro luminoso
delle galassie è interpretabile anch'esso come effetto Doppler. Studiando con
precisione la lunghezza d'onda delle righe è possibile determinare non solo se
un corpo celeste si allontana o si avvicina, ma anche la velocità con cui
compie il movimento. Se una sorgente di luce si avvicina a noi, le righe del suo
spettro si trovano spostate dalla parte del violetto, rispetto alla posizione
assunta da una fonte di luce della stessa natura, ma ferma; viceversa, se le
righe dello spettro si trovano spostate dalla parte del rosso vuol dire che la
sorgente di luce si sta allontanando dall'osservatore. 11. LA LEGGE DI HUBBLE Osservazioni compiute all'inizio del nostro
secolo avevano evidenziato che, escluse le galassie del Gruppo Locale, alcune
delle quali presentavano le righe dello spettro spostate verso il viola (violet
shift) rispetto alle righe della stessa natura di una sorgente fissa, le altre
galassie presentavano tutte, senza eccezioni, uno spettro con le righe spostate
verso il rosso (red shift). Inoltre, le galassie meno luminose, e quindi
verosimilmente più distanti, presentavano un maggior spostamento delle righe
verso il rosso di quelle più luminose, e quindi anche più vicine. Nel 1929, Edwin Hubble ipotizzò che le velocità
di recessione delle galassie crescessero con regolarità. Più esattamente egli
osservò che le galassie si allontanavano da noi ad una velocità proporzionale
alla distanza, quindi, ad esempio, una galassia che si fosse trovata ad una
distanza doppia di un'altra si sarebbe anche allontanata da noi ad una velocità
doppia di quest'ultima.
In termini matematici la legge di Hubble può essere espressa
nel modo seguente: v=H·d, dove v è la velocità di allontanamento della
galassia, d la sua distanza e H è una costante detta costante di Hubble. Il
valore di H si determina sperimentalmente ed ha subito, nel tempo, varie
modifiche e aggiustamenti. Oggi il valore più probabile è quello di 50
kilometri al secondo per megaparsec (milione di parsec), pari a 17 kilometri al
secondo per milione di anni luce. Questo significa che una galassia che si
trovasse ad un milione di anni luce da noi si allontanerebbe alla velocità di
17 kilometri al secondo, mentre una galassia che si trovasse a 1 miliardo di
anni luce da noi si allontanerebbe alla velocità di 17.000 km al secondo. Ora,
poiché il fondo dell'Universo dovrebbe stare a circa 15 – 16 miliardi di anni
luce da noi, la velocità di una galassia che si trovasse da quelle parti
sarebbe di circa 300.000 km al secondo e quindi la sua luce viaggerebbe ad una
velocità molto prossima alla velocità massima raggiungibile e pertanto non
sarebbe nemmeno visibile. 12. L'ETA' DELL'UNIVERSO Verso la metà degli anni Cinquanta vennero
scoperti degli oggetti celesti, che sembravano stelle, che emettevano energia in
quantità maggiore di un'intera galassia. A questi strani oggetti venne dato il
nome di quasar (quasi-stellar object), cioè quasi stelle, perché vere stelle
non potevano essere in quanto, fra l’altro, non presentavano le tipiche righe
sullo spettro (o almeno così sembrava). Senza le righe spettrali non era
nemmeno possibile misurare la loro distanza e quindi decidere se stavano
all'interno o all'esterno della nostra Galassia. Nel 1963, finalmente, si scoprì che le righe
sullo spettro di questi misteriosi corpi celesti in realtà esistevano, ed erano
fortemente spostate verso il rosso (e forse proprio per questo motivo, in un
primo tempo, non erano state notate): questi strani oggetti dovevano quindi
trovarsi non solo fuori della nostra galassia, ma anche a notevole distanza da
noi. Le quasar, oggi sappiamo, sono galassie in
formazione e quindi non ancora ben strutturate, come sono invece quelle più
vicine che assumono forma ellittica, spiralata e così via. Data l’enorme
distanza a cui si trovano, di esse è possibile individuare chiaramente solo la
zona centrale che emette luce molto intensa, e proprio questo è il motivo per
il quale appaiono come fossero stelle. Un modo pratico per esprimere la distanza di un
oggetto celeste, attraverso la luce che ci invia, è quello di misurare la
lunghezza d'onda delle radiazioni luminose che riceviamo. Se questa è doppia
rispetto a quella di una sorgente luminosa della stessa natura, ma immobile, si
dice che lo spostamento verso il rosso è 2, se è tripla si dice che lo
spostamento verso il rosso è 3, e così via. Sono state individuate delle quasar con
spostamento verso il rosso pari a 4 e 4,5 corrispondenti a distanze di 15 o 16
miliardi di anni luce. Con questa distanza dovremmo essere ormai giunti alla
fine dell'Universo perché in realtà saremmo arrivati là dove l'Universo ha
avuto inizio nel tempo. Per capire il significato di questa affermazione bisogna
considerare che la luce, pur essendo il mezzo più veloce che esista, rispetto
alle distanze di cui stiamo parlando, procede a passo di lumaca e ci porta
quindi informazioni molto vecchie. Quando noi guardiamo lontano nello spazio, in
realtà guardiamo anche indietro nel tempo. Se ad esempio osserviamo una quasar
che si trova a quindici miliardi di anni luce da noi, la vediamo come era
quindici miliardi di anni fa e non come è oggi. Sembra che le quasar si siano
formate in abbondanza nei primi anni di vita dell'Universo per poi diminuire di
numero. Pertanto, lo studio delle galassie che si trovano ai limiti dello spazio
cosmico e che quindi sono anche molto vecchie, potrebbe fornirci informazioni
utili sui primi momenti di esistenza dell'Universo. Recentemente, un gruppo internazionale di
cosmologi uniti nel consorzio denominato BOOMERanG (abbreviazione di Balloon
Observations of Millimetric Extragalactic Radiation and Geophysics) ha elaborato
l’immagine più antica dell’Universo. Si tratta di una rappresentazione
dello sfondo cosmico che mostra la distribuzione della materia di quando
l’Universo era un neonato di “appena“ mezzo milione di anni. Il gruppo di
ricercatori italiani, statunitensi, inglesi e canadesi per il loro lavoro si
sono serviti di un telescopio sensibile alle microonde montato su un pallone
sonda in volo a 40 kilometri di quota nei cieli dell’Antartide. I dati raccolti dal telescopio, elaborati da
potenti calcolatori, hanno fornito una mappa che rappresenta la verifica
sperimentale della teoria inflazionistica, ossia di quella teoria che prevede il
rapidissimo rigonfiamento dell’Universo nei suoi primi istanti di vita quando
da un volume inferiore a quello di un protone, in un lampo e ad una velocità
superiore a quella della luce, raggiunse le dimensioni di un pompelmo. Oggi siamo quindi certi che con la misura delle
distanze abbiamo raggiunto veramente la fine dello spazio. Al di là di questo
limite sarà impossibile andare in futuro perché siamo giunti al punto in cui
la radiazione si separò dalla materia. Prima di quel tempo e al di là di
quella distanza le radiazioni luminose erano imprigionate in una nube densa e
opaca di particelle cariche all’interno della quale non sarà mai possibile
penetrare. fine |