IL
CARSO
Carso deriva dal tedesco Karst, un termine che a
sua volta trae origine dalla parola indoeuropea “Kar” che significa rupe,
roccia. Si tratta di un’anticlinale, cioè una piega a gobba, allungata in
direzione nord-ovest sud-est situata in una vasta area ripartita fra Slovenia,
Croazia e Italia. La parte italiana è conosciuta come “Carso triestino” ed
è limitata a NO dalle alluvioni dell’Isonzo, a NE dal tratto finale del
Vipacco, a SE dal solco della Val Rosandra e a SO dall’Adriatico quindi, la
parte rimasta entro i nostri confini politici, abbraccia, oltre all’intera
provincia di Trieste, anche parte di quella di Gorizia. Il territorio non
italiano del Carso si estende a sud verso l’Istria e la Dalmazia
settentrionale e a nord-est verso la zona di Postumia e la Selva di Tarnova,
fino alla pianura di Lubiana.
Il Carso è rappresentato da fenomeni molto tipici, legati alle
caratteristiche chimiche e strutturali delle rocce e all’azione di
modellamento da parte degli agenti atmosferici sulle rocce stesse. Il fenomeno carsico
non è limitato alla regione geografica sopra citata, ma si estende su vaste
aree del bacino del Mediterraneo ed extraeuropee dove i fenomeni sono anche più
intensi ed importanti di quelli che si osservano sul Carso propriamente detto.
In realtà la notorietà di questa zona è dovuta al fatto che qui sono stati
studiati per primi, con criteri rigorosamente scientifici, questi fenomeni. Per
questo motivo il termine “carsismo” è stato adottato dalla Geologia
ufficiale per definire qualsiasi territorio che presenti caratteristiche
geologiche e morfologiche tipiche di questa regione.
La zona fu esplorata per la prima volta in modo sistematico nel decennio
che va dal 1670 al 1680 dal barone Johann Valvasor, uno scienziato dilettante
che visitò 70 grotte lasciando dettagliate relazioni e illustrazioni che in
seguito vennero pubblicate in quattro corposi volumi. Alcuni anni più tardi il
matematico Joseph Nagel fu incaricato dalla corte di Vienna di esplorare e
cartografare le principali caverne presenti sul territorio dell’Impero
austroungarico. Egli studiò le grotte slovene del Carso tracciandone il rilievo
ed eseguendo schizzi che tuttavia non furono mai resi pubblici.
Sia Valvasor sia Nagel dedicarono particolare attenzione alla sua più
famosa grotta, la Adelsberger Grotte, divenuta poi Postumia e quindi Postojna
Jama, quando la Jugoslavia, dopo la seconda guerra mondiale, si annesse gran
parte del territorio carsico (in sloveno Kras) che era stato italiano. Questa
grotta era nota da lungo tempo e già nel XIII secolo aveva attratto i
viaggiatori per il suo ingresso imponente dal quale sgorgavano le acque
spumeggianti del fiume Piuca. L’interesse della grotta era dovuto quindi più
a motivi turistici legati alla posizione geografica lungo la strada che
collegava Vienna all’Adriatico che a quelli scientifici.
Gli studi organici del fenomeno carsico e le attività speleologiche con
marcato carattere scientifico ebbero inizio nella prima metà del 1800 per opera
di alcuni scienziati triestini fra i quali vanno ricordati Giovanni Svetina,
Antonio Hanke, Federico Müller e Giuseppe Marini. L’altopiano triestino
diventò quindi un campo di interessi naturalistici nel quale, al fascino
dell’impresa sportiva (una specie di alpinismo alla rovescia), si accompagnò
la ricerca scientifica. La speleologia infatti vide la luce proprio sul Carso
oltre un secolo e mezzo fa ed oggi è diffusa in tutto il mondo.
1. IL TERRITORIO
Il Carso è formato prevalentemente da rocce calcaree, vale a dire da
rocce costituite da carbonato di calcio un composto chimico praticamente
insolubile, ma che in acqua leggermente acidula si trasforma in bicarbonato
molto solubile. Queste rocce si sono formate per l’accumulo, protrattosi per
milioni e milioni di anni, di fanghi e resti calcarei di una miriade di
organismi marini dalle dimensioni più disparate: dai microscopici Foraminiferi
fino ai grossi Lamellibranchi dalla voluminosa conchiglia.
La zona in cui si formerà il Carso, più di 120 milioni di anni fa,
durante quella che viene chiamata l’Era Mesozoica, era un mare poco profondo
di acque tiepide abitate prevalentemente da organismi con guscio e scheletro
calcareo che formavano una barriera corallina simile a quella oggi esistente in
prossimità delle isole Seychelles o Bahamas. Essa era situata ad una latitudine
di circa 30° ed era caratterizzata da un clima tropicale molto diverso quindi
da quello attuale. Come ha fatto quella zona a spostarsi molto più a nord?
Per rispondere a questa domanda bisogna sapere che la crosta terrestre
non è omogenea e compatta come appare a prima vista, ma formata da placche o
zolle in continuo, anche se lentissimo, movimento. Questi ampi e relativamente
sottili zatteroni di crosta terrestre che in prima approssimazione si possono
identificare con gli attuali continenti, si muovono grazie ai moti convettivi
del magma sottostante. Sotto la rigida crosta terrestre esiste infatti
un’ampia fascia di materiale caldo e pastoso, detta dai geofisici mantello,
interessata da moti convettivi simili a quelli che si generano nell’acqua di
una pentola posta sulla fiamma. Come l’acqua resa leggera dalla temperatura
elevata, sale all’interno della pentola e poi, divenuta più fredda e pesante,
ridiscende, così entro il mantello il magma caldo sale verso l’alto dove si
raffredda e quindi ridiscende. Si formano in questo modo delle celle convettive
che spaccano la crosta e la spostano. Naturalmente tutto avviene in tempi molto
lunghi, cioè in tempi geologici.
Quindi, per molti milioni di anni, in una zona molto particolare per
caratteristiche chimiche e biologiche, chiamata piattaforma carbonatica, si è
andato depositando del carbonato di calcio sia direttamente precipitando sotto
forma di impalpabili fiocchi biancastri, sia attraverso le impalcature rigide di
alghe incrostate, coralli e gusci di molluschi che vivevano nella barriera
corallina. Il peso dei sedimenti che a mano a mano si accumulavano sul fondo
schiacciava quelli sottostanti che in questo modo si compattavano fino a
trasformarsi in roccia. Il fenomeno, che prende il nome di diagenesi, è
molto lento e prevede l’accumulo di solo 2 o 3 cm di materiale roccioso in
1000 anni. Sembra poca cosa, però si deve ricordare che l’accumulo si
protrasse per circa 100 milioni di anni arrivando a spessori di roccia di
migliaia di metri molto superiori a quelli che misura attualmente il Carso, il
quale, dopo la sua emersione, ha subito un significativo fenomeno di erosione e
corrosione.
Ma come ha fatto la massa di rocce accumulate sul fondo del mare ad
emergere? La spiegazione ancora una volta ce la fornisce la geologia che ha
elaborato un modello detto della “tettonica delle placche” che spiega non
solo lo spostamento di tratti di crosta ma anche la formazione dei monti
(orogenesi).
Centoventi milioni di anni fa l’Africa era molto più lontana
dall’Europa di quanto non sia oggi ed era separata dal nostro continente da un
vasto oceano che i geologi chiamano Tetide. Il lento movimento del continente
africano verso nord ha determinato la riduzione del grande oceano ad un piccolo
mare interno, il Mediterraneo, e contemporaneamente la nascita del cosiddetto
corrugamento alpino-himalaiano, cioè di tutte quelle catene montuose sistemate
nel senso dei paralleli che vanno dalla Spagna all’estremo oriente asiatico.
Il meccanismo, che ha portato alla formazione delle catene montuose lo si può
immaginare simile allo spostamento di un armadio su un tappeto. Spingendo il
mobile, il tappeto si raggrinzisce fino a che le pieghe si accavallano le une
sulle altre: alla fine esso sarà diventato più corto ma avrà acquisito
spessore. Più o meno la stessa cosa è avvenuta sulla Terra ad iniziare da
un’ottantina di milioni di anni fa, alla fine dell’era Mesozoica, quando
l’Africa ha cominciato a spingere i materiali che si erano andati accumulando
sul fondo della Tetide. Fra questi materiali vi erano anche quelli che sarebbero
diventati il nostro Carso.
La sedimentazione che portò alla formazione della roccia calcarea
avvenne attraverso ritmi piuttosto discontinui così come furono differenziate
nell’intensità le spinte dell’orogenesi alpina. Vi furono quindi periodi in
cui il mare era poco profondo e in alcune zone le rocce emergevano dalle acque,
seppure di pochi metri, e altri periodi in cui i sedimenti rimanevano sempre
coperti dal mare. Nelle zone emerse gli agenti atmosferici e le onde del mare
smantellavano le formazioni che affioravano, ma nello stesso tempo materiali
terrigeni portati dai fiumi che venivano da lontano si accumulavano sulle
bianche rocce calcaree.
La spinta decisiva si ebbe però verso la metà dell’era che seguì la
Mesozoica e che prende il nome di Cenozoica. Quindi all’incirca fra i 25 e i
30 milioni di anni or sono, il grandioso edificio calcareo venne spinto
definitivamente fuori dalle acque divenendo terra emersa. Su di esso si instaurò
una rete idrica di cui faceva parte, nella zona prospiciente Trieste, il Timavo,
che contribuì con il suo scorrere a rendere semipiana la superficie del
territorio che in precedenza era già stato in parte modellato dall’abrasione
marina. Contemporaneamente in Istria avveniva un analogo processo di spianamento
ad opera di numerosi piccoli corsi d’acqua e nel Goriziano il sistema fluviale
isontino fece altrettanto creando fra l’altro il “Vallone”, cioè quel
solco che oggi divide il Carso Goriziano da quello Triestino.
Venne così a formarsi una grande superficie di spianamento dapprima
unitaria e successivamente smembrata in più parti dalle erosioni fluviali e
dalle ingressioni marine. Successivamente, come abbiamo visto, il suolo cominciò
ad innalzarsi e fratturarsi spinto dalla zolla africana. Le acque scorrevano
sulla roccia resa fortemente permeabile per la fitta rete di minutissime
incrinature e, attratte dalla gravità, iniziarono a scendere verso il basso. A
poco a poco, dalla superficie sparirono i fiumi e le altre acque stagnanti che
si trasferirono sul fondo della massa calcarea. Il Timavo che con i suoi
affluenti per milioni di anni scorreva su quelle terre si inabissò, inghiottito
dalle famose grotte di San Canziano, per ricomparire in superficie presso San
Giovanni di Duino dove le sue acque poco prima di raggiungere il mare, sgorgano
dalla roccia viva. Il suo percorso sotterraneo, in gran parte misterioso,
raggiunge una lunghezza, in linea d’aria, di oltre 35 kilometri e rappresenta
un tipico esempio di fiume sotterraneo.
2.
L’AZIONE DELL’ACQUA
Le molteplici e tipiche forme con cui si presenta il Carso agli occhi del
visitatore sono dovute fondamentalmente alla particolare roccia che lo
costituisce: il calcare. Essa è formata sostanzialmente da carbonato di calcio
(CaCO3) un composto pochissimo solubile in acqua ma che si trasforma
facilmente in un composto molto solubile, la cui formula chimica è Ca(HCO3)2. La reazione che regola il processo carsico può essere quindi scritta nel modo seguente: CaCO3
+ H2O + CO2 D
Ca(HCO3)2
Essa sta a significare che il carbonato di calcio in presenza di acqua e
anidride carbonica si trasforma in bicarbonato di calcio. Ma la doppia freccia
suggerisce anche che la reazione può avvenire in senso contrario e cioè che il
bicarbonato si può trasformare in carbonato liberando anidride carbonica e
acqua. Si tratta, in altri termini, di una reazione di “equilibrio mobile”
cioè di una reazione che può svolgersi nelle due direzioni a seconda delle
condizioni ambientali.
L’anidride carbonica è presente nell’aria in quantità minima
(rappresenta solo lo 0,03 per cento dei gas presenti), ma nell’acqua piovana i
rapporti di concentrazione dei gas cambiano e l’anidride carbonica si trova in
concentrazione maggiore soprattutto se l’acqua è fredda e se ristagna in
particolari tipi di terreni. Vi sono infatti dei terreni che riescono ad
immagazzinare aria in cui l’anidride carbonica si trova fino a cento volte più
concentrata che nell’atmosfera, rendendo decisamente acide le acque che li
pervadono. Anidride carbonica e acqua portano alla formazione di acido carbonico
secondo la reazione seguente: CO2 + H2O "
H2CO3.
La ricchezza di forme originali che il Carso presenta è dovuta
all’azione di un insieme di fattori, fra cui, come abbiamo detto, il
principale è l’acqua piovana, un ingrediente fondamentale per la sua azione
chimica (corrosione) e meccanica (erosione) sulle rocce calcaree. L’insieme
delle forme e dei fenomeni che le determinano prende il nome di “carsismo”
che, come abbiamo già detto, rappresenta una disciplina autonoma in seno alla
geologia.
Il carsismo si instaura in zone temperate e relativamente molto piovose
in cui l’acqua agisce sulla roccia con intensità diversa a seconda della
particolare disposizione degli strati e della loro purezza. Se la roccia è
compatta, l’acqua meteorica esplica la sua azione solo in superficie
trasformando ed asportando il calcare fino a formare una serie di rivoli che si
dipartono a raggiera dal punto più alto della struttura verso il basso. I
calcari impuri sono invece poco solubili: il calcare è infatti tanto più
“carsificabile” quanto più è puro. Di solito contengono quantità più o
meno elevate di argilla formata soprattutto da ossidi di silicio, di ferro e di
alluminio non soggetti ai processi di corrosione chimica e che quindi vengono
abbandonati come residuo insolubile. A mano a mano che il carbonato si
solubilizza, si accumula l’argilla residuale colorata di rosso mattone più o
meno intenso per gli ossidi di ferro che contiene. Si forma così la cosiddetta terra
rossa, che va a sedimentarsi nelle zone topograficamente depresse. La
superficie carsica è caratterizzata quindi da zone in cui affiora la roccia
pura e zone in cui questa è ricoperta da uno strato di terra rossa di cui
tornano impolverati gli escursionisti e in cui si sviluppa una vegetazione
scarsa, ma ricca di specie molto particolari ed esclusive. La terra rossa è
molto fertile in quanto ricca di preziosi sali minerali e dell’acqua meteorica
che riesce a trattenere in superficie consentendo così coltivazioni produttive,
fra le quali la vite, da cui si ricava il famoso terrano, un vino rosso
molto adatto ad accompagnare i piatti di selvaggina.
Il Carso è un ambiente naturale a due piani. C’è il Carso
di superficie illuminato dal Sole e bagnato dalla pioggia con i suoi fenomeni
detti di carsismo epigeo (dal greco epí = sopra e gē =
terra) e c’è un Carso sotterraneo che le tenebre velano di mistero e dove
l’acqua ha scolpito sulle pareti e sul fondo delle caverne le forme più
strane e indeterminate che poi la fantasia dell’uomo interpreta come meglio
crede; il tutto pervaso da un silenzio angosciante rotto soltanto dal
picchiettare incessante delle gocce d’acqua che cadono dal soffitto. I
fenomeni che avvengono in profondità sono detti di carsismo ipogeo (dal greco hypó
= sotto e gē = terra). 3.
LA MORFOLOGIA
Lo sviluppo dei fenomeni carsici, come abbiamo visto, è determinato
dalle caratteristiche chimiche e strutturali delle rocce calcaree che vengono
aggredite dalle acque piovane ricche di anidride carbonica con risultati più o
meno rilevanti a seconda del grado di purezza, della configurazione del
territorio e delle caratteristiche climatiche della zona.
L’insieme di questi fattori condiziona la morfologia superficiale dei
diversi settori dell’altopiano alcuni estremamente “incarsiti” e
tormentati, altri ricoperti di terra rossa che, con il potere assorbente della
sua componente argillosa riesce, come si è già detto, a trattenere un po’
d’acqua e ad alimentare una vegetazione peraltro non troppo rigogliosa. Il
paesaggio carsico comprende anche la cosiddetta “zona del flysch” una fascia
di larghezza variabile ben rappresentata nella zona di Trieste prospiciente il
mare dove degrada in terrazzi coltivati a vitigno. Si tratta di terreni
sedimentari costituiti da alternanze ripetute di scisti, arenarie, argille e
brecce calcaree che si sono formati durante la fase finale del sollevamento
dell’anticlinale, quando il materiale depositato dai fiumi sul tavolato
leggermente ondulato è scivolato lungo i fianchi della struttura che si andava
incurvando.
Gli escursionisti che visitano per la prima volta la zona del Carso
triestino possono rimanere sorpresi nel vedere che esso non è affatto
quell’ammasso sterile di pietre battuto dai venti che con molta
approssimazione viene a volte descritto dagli opuscoletti pubblicitari. C’è
anche questo, ma si tratta di un aspetto particolare che si ritrova ad esempio
sull’altopiano di Doberdò, dove effettivamente il suolo è coperto di scarso
terriccio su cui cresce una vegetazione stentata spesso interrotta dalla roccia
nuda bizzarramente scolpita. Viceversa il Carso, nella zona intorno a Trieste,
è un morbido paesaggio suggestivo per la vicinanza con il mare, incredibilmente
verdeggiante nella bella stagione e che in inverno le foglie del sommacco (una
pianta molto tipica) colorano di rosso.
L’acqua, come abbiamo visto, insieme con l’anidride carbonica, è un
elemento determinante nel meccanismo chimico che dissolve la roccia
convogliandola in soluzione nel sottosuolo; la stessa acqua però condiziona il
paesaggio di superficie proprio per la sua assenza. Qui il terreno pianeggiante
è disseminato di conche imbutiformi di larghezza variabile più o meno
profonde, che danno al paesaggio un aspetto quasi lunare. I versanti di questi
avvallamenti subcircolari, di solito coperti di scarsa vegetazione, possono
essere dolci o ripidi con il fondo generalmente coperto da terra rossa che
nasconde il cosiddetto inghiottitoio, cioè la fessura centrale attraverso la
quale defluirono le acque mescolate a terriccio e pietrisco. Essi sono noti con
il nome di doline, un termine che in lingua slovena vuol dire piccole
valli.
L’origine delle doline, che costituiscono la caratteristica più
evidente della morfologia carsica di superficie (in alcune zone se ne contano più
di cento per kilometro quadrato) non è stata ancora chiarita del tutto. Secondo
alcuni studiosi, esse prenderebbero origine dall’incrocio di fratture e
fessure che formano una specie di imbuto dove confluiscono le acque la cui
azione nel tempo allarga e approfondisce la piccola conca iniziale. Quando la
terra rossa trascinata dall’acqua avrà intasato lo smaltitoio centrale,
questo cesserà di funzionare come punto idrovoro e altra terra rossa
trasportata dall’acqua piovana colmerà il fondo. Una dolina provvista ancora
di profondo inghiottitoio verticale è chiamata foiba (dal latino fóvea
che significa fossa). Dalla distruzione del diaframma di separazione di due o più
doline contigue si forma un avvallamento molto caratteristico detto uvala,
che significa anch’esso valle. Le doline più estese ed ampie si chiamano polije,
e da esse prende nome il paese di Redipuglia (una località che non ha nulla a
che fare con un fantomatico re della regione meridionale d’Italia). In altre
zone del nostro Paese le stesse formazioni prendono il nome di piani (ad esempio
il Piano del Cansiglio nelle Alpi Venete) o campi (ad esempio Campo Imperatore
sul Gran Sasso).
Altro
tipico esempio di fenomeno carsico di superficie è rappresentato da solchi più
o meno paralleli e più o meno profondi che gli studiosi tedeschi chiamano Karrenfelder
e che noi abbiamo tradotto con “campi carreggiati” per la somiglianza che a
volte queste formazioni hanno con i solchi lasciati sul terreno dalle ruote dei
carri. Quando il reticolo dei crepacci è ben sviluppato, il campo tende a
degradarsi fino a trasformarsi in una “griza” ossia in una pietraia
in cui si mescolano caoticamente massi, pietrisco e terra rossa.
L’altro
Carso, quello di profondità, non è accessibile a tutti. Voragini precipitose,
angusti cunicoli e pericoli improvvisi e inattesi precludono l’accesso a chi
non è adeguatamente attrezzato e a chi non è in possesso di una tecnica che
non si improvvisa. Tuttavia anche al turista non equipaggiato di tutto punto il
Carso offre qualche parziale visione di ciò che avviene nel sottosuolo. Alcune
grotte sono infatti arredate con lampade e scale per le visite turistiche.
Le due grotte più rappresentative e più celebri del Carso, quelle di
Postumia e San Canziano, dopo l’ultima guerra mondiale, sono rimaste in
territorio jugoslavo. I due sistemi, pur essendo il prodotto dello stesso
fenomeno erosivo, sono fra loro assai diversi. Le grotte di Postumia sono famose
per la loro spettacolarità data dalle forme più impensate che creano intorno
al visitatore un paesaggio fiabesco, fatto di mille ricami di pietra; le Grotte
di San Canziano si presentano invece con aspetto pauroso perché in esse prevale
l’orrido, il precipizio, il fragore delle acque. La scarsa illuminazione rende
poi l’ambiente ancora più inquietante.
Attualmente la cavità naturale più famosa della parte italiana del
Carso è senza dubbio la Grotta Gigante. Essa, attrezzata per le visite
turistiche fin dal 1908, è considerata la caverna più vasta del mondo, tanto
che si calcola possa contenere l’intera cupola della Basilica di San Pietro.
Alcuni anni fa sono stati sistemati all’interno della cavità dei grandi
pendoli orizzontali ed altre apparecchiature per la misurazione delle maree
terrestri, nonché una stazione meteorologica.
Il fenomeno carsico, come abbiamo detto, è presente anche in altre
regioni italiane. La grotta, che per grandiosità e spettacolarità può
competere con quella di Postumia, è la Grotta di Castellana in Puglia. Nel
1938, al prof. Franco Anelli, a quel tempo direttore delle grotte di Postumia,
venne chiesto di esplorare una cavità naturale che comunicava con l’esterno
attraverso un profondo abisso che la gente del luogo usava come immondezzaio.
Anelli si rese immediatamente conto di trovarsi di fronte ad un patrimonio
paesaggistico di inestimabile pregio che era necessario valorizzare
adeguatamente. Oggi nella grotta, aperta al pubblico, si accede comodamente per
mezzo di un ascensore e non più con la scala a corda con cui scese il prof.
Anelli per la prima volta. Quindi, attraverso una serie di corridoi e di sale
adorne di drappeggi e infiorescenze di rara bellezza e suggestione, si arriva
alla spettacolare Grotta Bianca, scoperta e aperta al pubblico in un momento
successivo.
Il Carso, per le cavità naturali che contiene, è stato spiritosamente
paragonato alla groviera (il famoso formaggio pieno di buchi). Un’ampia
caverna potrebbe essere coperta da un soffitto molto sottile (la volta della
Grotta Gigante, ad esempio, ha uno spessore di soli sei metri) che da un momento
all’altro potrebbe crollare dando vita a quella che viene chiamata una
“dolina di sprofondamento”. In questo modo si sarebbe formato il lago di
Doberdò un tipico lago carsico alimentato dalle acque sotterranee.
Le grotte, i cunicoli e le caverne naturali scavate dalle acque nel corpo
della montagna sono quindi destinate a scomparire e non solo in conseguenza
dello sgretolamento generale di quelle impalcature, ma anche per effetto delle
acque stesse le quali, rallentando il loro scorrimento, depositano nei vuoti
sotterranei sassi, terriccio ed ogni altro materiale che trascinano con sé.
Ma il riempimento più caratteristico e spettacolare è quello prodotto
dalle stalattiti, dalle stalagmiti e da tutta una serie di altre concrezioni che
indicano il lento depositarsi del carbonato di calcio insolubile contenuto nelle
acque percolanti. Le grotte sono sature di umidità e l’acqua bagna con veli
sottili le pareti e cade gocciolando dal soffitto. La dispersione
dell’anidride carbonica contenuta in soluzione attraverso la polverizzazione
delle gocce che cadono sposta l’equilibrio della reazione chimica scritta
precedentemente nella direzione del carbonato di calcio insolubile che quindi
precipita. Si formano in questo modo le sottili stalattiti (dal greco stalasso
= gocciolo) che pendono dalla volta e le tozze stalagmiti (dal greco stalagmos
= goccia) che salgono dal pavimento.
L’acqua che scorre lentamente sulle pareti abbandona anch’essa il
carbonato spesso impuro per la presenza di limo e di altre sostanze che colorano
le frange, i festoni e i drappeggi rigidi che ornano le pareti. A volte la
stalagmite cresce fino a incontrare la stalattite che scende dall’alto
formando in questo modo una colonna talora di dimensioni notevoli. Il marmo
lievemente variegato, delicato e traslucido, che noi chiamiamo alabastro
calcareo, non è altro che l’insieme delle concrezioni che in tempi
lunghissimi hanno riempito le vecchie caverne carsiche. 4.
FLORA E FAUNA
L’elemento che più di altri caratterizza un paesaggio è la
vegetazione anche perché le piante, a differenza degli animali, non possono
muoversi dalla posizione in cui nascono e crescono e quindi sono destinate a
soccombere nel caso di repentini cambiamenti climatici e ambientali. Alle piante
sono poi legati gli animali erbivori che si cibano di esse e che sono a loro
volta nutrimento dei carnivori. Piante, animali e ambiente fisico interagiscono
quindi tutti insieme in modo molto stretto creando quei delicati equilibri
naturali che sono il risultato di una lunga e complessa evoluzione.
La flora del Carso triestino è molto particolare perché ricca di specie
endemiche, cioè di specie esclusive che non trovano riscontro in altre zone
dell’Europa sud-orientale. Per questo motivo, oltre che per dare risalto agli
aspetti più caratteristici del carsismo, si è tentato di istituire alcune
riserve naturali, peraltro di limitata estensione, ma questi tentativi si
risolsero in un fallimento completo nel momento in cui ci si rese conto che la
realizzazione del progetto avrebbe minacciato certi interessi locali. L’unica
iniziativa riuscita per valorizzare e proteggere l’ambiente naturalistico del
Carso è stata la creazione di un Orto Botanico privato. Nel 1964 il farmacista
triestino, appassionato di botanica, Gianfranco Gioitti, acquistò un terreno,
che seppure di limitate dimensioni (solo mezzo ettaro), era una sorta di
compendio di tutti gli ambienti tipici del Carso, dal prato alla boscaglia,
dalla dolina ai campi carreggiati, alle grize. Con la collaborazione di alcuni
botanici dell’Università di Trieste nacque in questo modo la “Carsiana”
che una volta completata e arricchita delle piante più rappresentative della
zona fu ceduta dal dottor Gioitti all’Amministrazione Provinciale di Trieste
perché la aprisse al pubblico.
Nella distribuzione delle specie vegetali il tipo di terreno gioca un
ruolo non secondario. Possiamo distinguere tra le rocce calcaree dove,
nonostante la terra rossa, l’elevata permeabilità per fessurazione
costituisce un sostrato molto arido per la vegetazione e la zona del Flysch dove
le marne e le arenarie riescono a trattenere per un certo tempo l’acqua in
superficie e favorire in questo modo lo sviluppo della vegetazione spontanea
oltre a certe culture introdotte dall’uomo.
Un ruolo importante per la fioritura e lo sviluppo delle piante viene
attribuito ai fattori climatici i quali non solo influenzano direttamente la
flora determinando il periodo di vegetazione, ma la condizionano anche
indirettamente indirizzando l’evoluzione dei terreni. Il clima della zona
carsica può essere definito di transizione fra l’atlantico e il continentale.
Il primo, con i suoi periodi di pioggia si fa sentire soprattutto in primavera e
autunno, mentre il secondo, freddo e asciutto, si manifesta in inverno. Oltre a
questo aspetto generale non si possono trascurare alcune variazioni locali
legate a particolari situazioni topografiche. Si vengono così a differenziare
alcuni microclimi, per esempio all’interno delle doline più profonde, dai
quali dipendono certi aspetti particolari della vegetazione. Inoltre si osserva
che dalle rive del mare verso l’interno diminuisce la temperatura, aumentano
le precipitazioni (anche nevose) e il vento soffia teso e violento. La bora e lo
scirocco con il loro alternarsi fanno sentire in modo spesso negativo la loro
influenza sull’ambiente: la bora perché dissecca i giovani germogli e asporta
il terriccio superficiale, lo scirocco perché apporta umidità che favorisce lo
sviluppo dei parassiti.
Sul Carso propriamente detto tre sono le formazioni botaniche più
evidenti: la Boscaglia carsica, il Prato carsico e la Landa carsica.
Il bosco carsico, quasi sempre ridotto a boscaglia, è meno folto e
quindi più ricco di luce di quello europeo situato nello stesso orizzonte
altimetrico. Esso è costituito da numerose specie di latifoglie in cui domina
la Carpinella e l’Orniello che sono le piante più rappresentative di questa
formazione forestale. Queste piante, insieme con le Querce e gli Aceri
offrono in primavera agli occhi dei visitatori tutta una gamma di tonalità di
verde che va dal delicato delle foglie appena formate allo scuro del fogliame più
maturo.
Il bosco carsico come si presenta attualmente è in gran parte il
risultato dell’azione sconsiderata e distruttrice dell’uomo che si è
protratta per più di un millennio. Nel periodo delle glaciazioni, migliaia di
anni or sono, nonostante il notevole abbassamento della temperatura (il Carso
tuttavia non fu mai coperto permanentemente dal ghiaccio), ma grazie al
contemporaneo aumento delle precipitazioni, la zona era interessata da imponenti
formazioni boschive e il manto vegetale era molto ricco e lussureggiante come
testimoniano i reperti di animali trovati allo stato fossile nelle grotte. Vi
facevano parte i Cervi, i Buoi, i Cavalli selvatici e gli altri grandi mammiferi
come l’Orso delle caverne, il Leone e il Cinghiale.
Negli ultimi anni l’uomo ha cercato di riparare i danni. I primi
tentativi di rimboschimento, della prima metà dell’Ottocento, attraverso la
piantumazione di querce, frassini e altre piante caducifoglie autoctone del
Carso, fallirono completamente perché il substrato non era sufficientemente
fertile per accoglierle. Nel 1860, l’ispettore Giuseppe Koller, capo
dell’ufficio forestale di Gorizia, suggerì il trapianto del Pino nero una
pianta che si dimostrò resistente alla siccità e alla violenza della bora e
che non soffriva le brusche variazioni di temperatura.
Oggi sul Carso noi vediamo prevalentemente due tipi di bosco, che sono
però da considerarsi estranei all’ambiente originario. Essi sono le pinete di
Pino nero e i boschetti di Robinia. Il Pino nero, dopo gli esperimenti del
Koller, è stato introdotto a milioni di esemplari con lo scopo di consentire
una rapida ripresa del bosco naturale e in effetti non solo si è perfettamente
inserito nell’ambiente carsico, ma ha anche creato le condizioni per la
crescita spontanea di nuovi alberi. La sua presenza tuttavia ha comportato
l’insorgere di alcuni elementi negativi al paesaggio naturale. Innanzitutto il
contenuto dei suoi aghi, leggermente acido, non ha consentito lo sviluppo di un
ricco sottobosco. In secondo luogo, trattandosi di una monocultura, il Pino nero
si è dimostrato debole nei confronti dei parassiti fra i quali il più diffuso
è la processionaria. Infine, essendo una pianta resinosa con legno secco,
soccombe facilmente agli incendi, purtroppo, negli ultimi tempi, sempre più
frequenti.
La robinia, che è una pianta originaria del Nord-America, è stata
introdotta per ottenere i tutori delle viti e per ricavarne legna da ardere. Una
saggia politica forestale oggi consiglierebbe di non insistere con il Pino e la
Robinia, ma lasciare che la vegetazione spontanea delle latifoglie si
diffondesse su tutto l’altopiano. Purtroppo lo sviluppo dell’edilizia
residenziale e della viabilità ha ulteriormente peggiorato la situazione,
frazionando il territorio e rendendo discontinua la boscaglia spesso ridotta a
rade essenze di alto fusto e sparse forme cespugliose.
Ma per ritrovare tutta la singolarità e originalità della vegetazione
del Carso dobbiamo osservare la cosiddetta Landa carsica: un ambiente costituito
in tempi lontani da pascoli di grandi estensioni e che oggi, con l’abbandono
della pastorizia, è stato invaso da piante basse e cespugliose che
costituiscono agli occhi del turista l’aspetto più caratterizzante e ricco di
fascino della zona.
La Landa carsica è un’associazione tipicamente zoogena, ossia
formatasi a seguito del pascolo di ovini (in tempi più antichi) e di bovini (in
tempi più recenti) su superfici disboscate. Al posto degli antichi querceti e
della stessa boscaglia si è venuta ad organizzare una associazione di piante
basse e di erbe che potevano disporre di un terreno povero e poco profondo, atto
a sopportare il calpestio e la brucatura degli animali domestici.
In passato, quando la pastorizia e l’allevamento del bestiame erano
pratiche molto diffuse, il prato si estendeva su superfici molto più vaste
delle attuali; successivamente è intervenuto un aggiustamento spontaneo della
vegetazione la quale ha raggiunto un grado elevato di stabilità. Attualmente
quella che è diventata la Landa si presenta in dimensioni piuttosto ridotte: un
po’ per la diffusione del Pino nero e un po’ per la ripresa spontanea del
bosco che, non più economicamente redditizio, non viene tagliato.
Sulla Landa fioriscono specie vegetali tipiche ed esclusive di questa
zona, alcune delle quali per colori e forma non possono passare inosservate
nemmeno agli occhi del turista più distratto. Da marzo ad agosto la Landa non
è mai priva di qualche pianta in fiore. Questi si caratterizzano per tutta la
gamma dei colori fondamentali a cominciare dal giallo di quelli delle ginestre
che si schiudono in primavera fino al viola e blu di quelli delle piante dai
nomi noti solo agli specialisti che fioriscono in tarda estate inizio autunno.
La Landa carsica che gli abitanti di lingua slava chiamano gmajna,
un termine mutuato dal tedesco Gemainde che significa “comune” perché quel
terreno apparteneva a tutta la comunità, spesso è stata bonificata mediante
spietramento. Le pietre sono poi servite per costruire i tipici muretti a secco
che dividono le proprietà, ma sono anche state utilizzare in città per opere
di interramento, a testimonianza dell’intimo rapporto di Trieste con il suo
Carso. Una volta spietrata, la Landa veniva trasformata in seminativo o, dopo
abbondante concimazione, in prato falciabile.
A conclusione di questo rapido sguardo sulle principali associazioni
vegetali del Carso non può mancare un cenno all’ambiente delle doline. Le
doline ampie e poco profonde presentano una vegetazione simile a quella di
superficie anche se spesso più rigogliosa. Nelle doline molto profonde invece
le condizioni ambientali variano notevolmente soprattutto in relazione al
fenomeno dell’inversione termica. Scendendo nella cavità la temperatura
diminuisce come se si salisse il pendio di una montagna. In inverno in una
dolina profonda sessanta metri si registra la stessa temperatura che in montagna
si ha a 1500-1600 metri di quota. In estate la differenza è meno sensibile ma
tuttavia sufficiente a spiegare sul fondo di alcune doline la presenza di una
vegetazione ricca di specie alpine (come la Primula Auricola di colore giallo
acceso) e continentali, differente da quella dell’altopiano.
Le modificazioni del manto vegetale hanno avuto ovviamente un’influenza
determinante sul popolamento animale del Carso soprattutto per ciò che riguarda
i Vertebrati.
Fra gli elementi tipici della fauna carsica vi sono innanzitutto gli
insetti e fra gli insetti le farfalle occupano senza dubbio un posto importante
perché rappresentano, al pari degli uccelli e delle piante, un elemento
caratterizzante del paesaggio. Le farfalle carsiche assumono spesso le
caratteristiche tipiche degli esemplari che vivono in ambienti asciutti, cioè
con colori fondamentalmente chiari e delicati.
Fra gli insetti merita anche un cenno la Mantide religiosa che deve il
suo nome al caratteristico modo con cui tiene le zampe anteriori che sembrano
assumere un atteggiamento di preghiera. Si tratta invece di un insetto
tutt’altro che “pio” il quale, mimetizzato fra i rami, sta in attesa delle
prede che afferra e divora vive. La femmina riserva un trattamento altrettanto
crudele al maschio: durante l’accoppiamento lo divora iniziando dalla testa.
Fra i Vertebrati rane e rospi sono abbondanti, insieme agli insetti, là
dove ristagna dell’acqua come ad esempio in prossimità del lago di Doberdò.
Ma l’anfibio più tipico del Carso è il Proteo una specie di “relitto
preistorico”. Si tratta di un animale che nasce fornito di occhi che
scompaiono nell’età adulta rendendo l’animale cieco. E’ grosso quanto un
dito e vive nei corsi d’acqua sotterranei. Esso fu descritto per la prima
volta dal barone Johann Valvasor che lo trovò in una grotta vicino a Lubiana,
nel lontano 1689.
Fra i Rettili la specie più caratteristica è la vipera dal corno un
animale pericoloso per il suo morso velenoso, che tuttavia raramente è mortale
e che, come tutti i rettili, è attiva solo nel periodo più caldo dell’anno.
Altro rettile, però del tutto inoffensivo, contro il quale il “naturalista”
improvvisato e ignorante stupidamente si accanisce, è l’orbettino.
Fra gli Uccelli sono da segnalare alcuni rapaci come l’Astore e il Gufo
reale oltre a corvidi e passeracei. Nelle grotte e foibe carsiche nidifica il
Colombo torraiolo, mentre è scomparsa la Coturnice, un uccello che prediligeva
vivere sulla nuda roccia ora quasi ovunque ricoperta di vegetazione.
Fra i Mammiferi del Carso la specie più nota è il Capriolo, ma sono
numerosi anche gli Scoiattoli, le Lepri, le Talpe e i Ricci nemici naturali
delle vipere e a cui lo stesso falso naturalista sopra citato, senza motivo dà
la caccia. Con l’aumento dei rifiuti lasciati da persone incivili e poco
rispettose dell’ambiente sono aumentati i ratti mentre grotte e foibe
favoriscono la presenza di varie specie di pipistrelli. Fra i Carnivori
predatori si ricorda la Volpe, la Martora, la Faina e il Gatto selvatico che
forse in realtà è solo un gatto domestico rinselvatichito.
Merita infine una particolare menzione un piccolo animaletto non più
grande della capocchia di uno spillo che però rappresenta un pericolo non
trascurabile per l’uomo. Si tratta della zecca, un insetto (il cui veicolo di
diffusione è il Capriolo) che ha notevole successo biologico anche in quanto
privo di predatori naturali. Esso è pericoloso per l’uomo non tanto perché,
attaccato alla pelle, gli succhia il sangue quanto perché apportatore di una
malattia, detta Morbo di Lyme, che può essere anche mortale. 5.
LE OPERE DELL’UOMO
L’uomo è presente sul pianeta da alcuni milioni di anni, ma non nelle
forme attuali. Egli, al pari degli altri animali, ha subito, nel tempo, una
lenta e graduale evoluzione e da un ominide con aspetto decisamente animalesco
è diventato quell’individuo moderno dotato di intelligenza che ben
conosciamo. A questa evoluzione antropologica si è accompagnata quella
culturale e industriale documentata dai manufatti conservati nel terreno.
Di tutti i manufatti prodotti e usati dall’uomo primitivo si sono
conservati solo quelli di pietra per cui gli archeologi hanno diviso questa fase
dell’attività umana in tre periodi, chiamati rispettivamente Paleolitico o
della pietra antica, Mesolitico o della pietra di mezzo, e Neolitico o della
nuova pietra. Ai periodi della pietra lavorata è seguita l’età dei metalli
la quale ci ha portato direttamente a quella storica.
Il Carso non presenta depositi alluvionali o terrazzi fluviali nei quali
normalmente si rinvengono i resti fossili dell’uomo o le tracce delle sue
attività e pertanto, almeno per quanto riguarda la ricerca delle culture più
antiche, nell’ambiente carsico bisogna rivolgersi esclusivamente ai depositi
delle grotte dove si sono accumulati i terreni idonei a questo tipo di ricerca.
Gli studi archeologici sul Carso triestino sono iniziati più di un
secolo fa, ma hanno portato a scarsi risultati relativamente ai primi
insediamenti umani anche a causa di un approssimativo metodo di studio. Negli
ultimi decenni gli scavi si sono allargati ad aree più estese e lontane e i
risultati delle ricerche sono stati più soddisfacenti, anche se la
ricostruzione delle prime tappe dell’insediamento umano nel Carso rimane
ancora piuttosto incerta e lacunosa.
I recenti ritrovamenti di schegge di selce lavorata in depositi
appartenenti al Paleolitico medio, quindi all’ultimo periodo glaciale, fanno
ritenere che nella zona vivesse, più di 80.000 anni fa, l’uomo di Neandertal.
Probabilmente si trattava di nuclei di cacciatori che sostavano nelle grotte del
Carso solo temporaneamente. D’altra parte, per le sue caratteristiche di
territorio boscoso e accidentato, sul Carso non si poteva praticare altro che la
caccia e la raccolta di bacche e teneri germogli. La povertà numerica e la
scarsa varietà dei manufatti rinvenuti nelle grotte potrebbe essere spiegata
anche con una frequentazione discontinua della zona da parte di genti in
transito.
Alcuni ritrovamenti riferibili al Mesolitico farebbero ritenere che il
Carso, dopo la fine del periodo glaciale, fosse frequentato da gruppi di
cacciatori e raccoglitori i quali divennero stanziali e dimorarono
permanentemente nelle numerose grotte dell’altopiano. Insieme ad ossa di
grossi mammiferi sono stati infatti rinvenuti abbondanti gusci di molluschi
terrestri e marini che dimostrerebbero, che pur continuando ad essere
cacciatore, l’uomo che visse sul Carso nel periodo Mesolitico abbandonò il
nomadismo per stabilirsi in zone adiacenti il mare e divenne quindi sedentario.
Il periodo neolitico segna la prima grande rivoluzione sociale ed
economica della storia dell’umanità: l’uomo da cacciatore e raccoglitore
diventa agricoltore e pastore, cioè si trasforma da ricercatore a produttore di
cibo. Ma per i primi insediamenti stabili sul Carso dobbiamo risalire all’età
del bronzo e alla cultura dei “castellieri”. Si tratta di zone fortificate
generalmente sistemate sulla cima di alture o in posizione dominante e
preferibilmente rivolte a sud. Se ne contano a centinaia di forme e grandezze
diverse riferibili all’età e alle caratteristiche morfologiche dei siti sui
quali vennero eretti. Sul Carso triestino ne sono stati rinvenuti e studiati
venticinque. I castellieri sono cinti da mura, dette “valli”, costituite da
pietre poste l’una sull’altra erette con la stessa tecnica con cui
attualmente gli abitanti del Carso formano i muretti a secco. Il castelliere più
importante è considerato quello di Rupinpiccolo l’unico in cui siano
visibili, praticamente intatti, ben 240 dei 1500 metri della cinta originaria.
La struttura muraria è stata costruita con la tecnica detta “a sacco” cioè
con l’erezione di due robusti muri paralleli entro i quali sono state gettate
alla rinfusa pietre e terra come per riempire un sacco.
I castellieri nacquero probabilmente con la funzione di insediamenti
temporanei di popolazioni dedite alla pastorizia, che successivamente divennero
sedentarie. In tempi più recenti, con opportune modifiche, essi assunsero la
funzione di presidi armati. Attraverso il materiale archeologico rinvenuto
all’interno dei castellieri, è stato possibile ricostruire le condizioni di
vita, gli usi e i costumi delle popolazioni che hanno abitato la zona del Carso
dall’età dei metalli fino ai primi insediamenti romani.
Nel 178 a.C., per la prima volta, il Carso è conquistato dalle legioni
romane che invadono l’Istria e si scontrano con le popolazioni residenti
sconfiggendole. Con la dominazione romana i castellieri vengono abbandonati
mentre fioriscono numerosi centri i cui abitanti si dedicano all’agricoltura
con particolare riguardo alla vite e all’ulivo, oltre che alla pastorizia.
Nella zona di Sistiana e di Aurisina si aprono numerose cave fra cui quella che
oggi si chiama la Cava Romana da cui si estrae un’ottima pietra da
costruzione. Essa veniva impiegata per la costruzione di numerosi centri abitati
come Aquileia. Nel periodo romano probabilmente il Carso ha conosciuto un certo
benessere e una prosperità economica mai raggiunti precedentemente.
Si arriva così al periodo delle invasioni barbariche quando tribù slave
assediarono la zona portando distruzione e morte e costringendo le genti
carsiche a nascondersi nelle grotte e a rifugiarsi nei castellieri. La vita sul
Carso è sempre stata piuttosto stentata, ma durante il Medioevo le difficoltà
si sono accentuate tanto che questo territorio è stato abbandonato al proprio
destino.
Verso il XV secolo, sugli antichi insediamenti romani sorgono i nuovi
villaggi carsici le cui case sono il prodotto di una lunga evoluzione delle
antiche costruzioni monocellulari con mura perimetrali di pietre legate da un
impasto di terra rossa, sabbia e poca calce utilizzate solo temporaneamente dai
contadini che si recavano per lavoro nei campi e nei pascoli lontani dai centri
abitati. L’interno era diviso da un rustico tramezzo di legno che separava la
cucina dalla camera da letto. Più tardi, a questo tipo di casa venne aggiunto
un piano per accedere al quale ci si serviva di una scala esterna.
Successivamente a queste antiche case si affiancano delle strutture più
leggere con tetto spiovente e ballatoio, sul quale si affacciano le stanze da
letto. Questo tipo di costruzione con annesse stalla e granaio risente
dell’influsso veneto e friulano. La presenza di lunghi ballatoi, di solito
protetti da un parapetto di legno, sembra sia la conseguenza della introduzione
nella zona della coltivazione del granoturco, le cui pannocchie dovevano essere
esposte al sole in un luogo riparato e il ballatoio serviva proprio a questo
scopo.
Per quanto riguarda lo sviluppo urbano degli antichi villaggi del Carso,
il più caratteristico è quello delle case sistemate a corte. Una particolare
disposizione degli edifici formava una piccola piazza interna dove era sistemato
un pozzo a cisterna che raccoglieva l’acqua piovana che scendeva dai tetti
delle case che lo circondavano. La chiesa non si trovava quasi mai al centro del
villaggio e ciò farebbe ritenere che il villaggio fosse più antico del luogo
di culto sorto in un secondo tempo.
La vita sul Carso a quei tempi era semplice e rustica e contemplava
un’agricoltura limitata alle zone in cui affiorava un po’ di terra rossa e
si praticava l’allevamento del bestiame. Da queste attività si ricavava
latte, alcuni prodotti agricoli come patate, legumi ed altri ortaggi e
soprattutto vino, con il già ricordato “terrano”, che rappresentavano la
principale risorsa di questi paesi.
Si arriva così al dramma delle due guerre mondiali in cui il Carso,
ancora una volta, venne duramente provato. Nella prima, fra il 1914 e il 1918,
molte grotte vennero usate come depositi di munizioni e ripari per le truppe,
mentre furono scavate trincee un po’ ovunque e gli stessi castellieri
divennero posizioni strategiche e punti nevralgici della linea difensiva. Le
vittime di quella guerra incomprensibile e poco sentita dai soldati che venivano
da lontano si contano a centinaia di migliaia e il Sacrario di Oslavia, presso
Gorizia, e quello di Redipuglia testimoniano la strage di quei ragazzi morti per
difendere la Patria. La seconda, combattuta fra il ’40 e il ’45, fatta di
imboscate e ritorsioni feroci, porta nuove distruzioni sull’altopiano. Le
grotte vengono utilizzate come rifugio precario dei partigiani mentre diventano
tristemente famose le foibe che si trasformano in tombe per tanti infelici
gettati in esse senza pietà. Alla fine della guerra, con i nuovi confini, il
Carso che rimane in Italia è ridotto ad una esigua striscia di territorio ed
appare triste e desolato, con boschi distrutti, case bruciate, munizioni un
po’ ovunque e cavità piene di morti. Ma la vita ancora una volta riprenderà
ed avrà il sopravvento.
I triestini riprendono a percorrere l’altopiano e a frequentare le
osterie che offrono vino e prodotti tipici della zona. La gente slava che vi
abita si dimostra molto gentile ed accoglie volentieri le allegre brigate che
salgono dalla città. Si riformano i vecchi sodalizi alpini e le società
speleologiche sono frequentate da molti giovani che aspettano la domenica per
infilarsi nelle grotte alla ricerca di nuove emozioni.
Con l’arrivo del benessere, il Carso si è trasformato in modo
imprevedibile. Oggi è facilmente raggiungibile in macchina mentre un tempo si
doveva fare fatica per arrivarci a piedi o in bicicletta e i più pigri mai si
sarebbero sacrificati in una lunga passeggiata per raggiungerlo. Ora tutti
possono percorrerlo ed ammirarlo facilmente. E questo, tutto sommato, sarebbe un
bene se non fosse che le auto e le strade sono arrivate ovunque, perfino dentro
le doline. Le vecchie osterie si sono trasformate in ristoranti tipici e le
vecchie case sono state ristrutturate fino al punto da essere rese
irriconoscibili. L’urbanizzazione è aumentata con la costruzione di numerose
ville che con la loro architettura moderna hanno stravolto il caratteristico
ambiente originario contribuendo con gli scarichi fognari a dispersione
all’inquinamento del delicato ambiente sotterraneo. Il resto
dell’inquinamento è frutto delle persone incivili che abbandonano rifiuti ed
immondizie dove capita, e il Carso di buchi da riempire ne ha molti.
Per fortuna il grido d’allarme degli studiosi, lanciato per tempo, è
stato alla fine ascoltato dai politici e dai cittadini più consapevoli. I
pericoli che un ambiente tanto particolare, abbandonato a sé stesso, avrebbe
corso erano molteplici e il rischio di vedere il paesaggio per sempre
compromesso era elevato e ancora oggi non è del tutto fugato. Negli ambienti
naturali in equilibrio precario basta infatti distruggere anche una sola forma
di vita perché tutto l’ecosistema ne risenta in modo definitivo.
Il Carso, oltre ad essere un territorio unico nel suo genere per la
natura e la storia che lo riguarda, è anche luogo sacro e di pellegrinaggio ai
campi di battaglia e come tale non deve essere profanato. Non saranno tuttavia
solo le leggi speciali a difenderlo, ma la coscienza, l’amore e la sensibilità
di tutti i cittadini. fine |