LA
STRUTTURA ATOMICA - PARTE IV 18. L'IPOTESI DI de BROGLIE DELLE ONDE
ASSOCIATE AI CORPUSCOLI
Il modello di atomo costruito da Bohr e poi perfezionato ed arricchito da
Sommerfeld e da altri, nonostante fosse in grado di spiegare alcuni fatti
sperimentali, e in particolare gli spettri atomici, lasciava tuttavia i fisici
perplessi e sostanzialmente insoddisfatti. Il motivo di tale disagio andava
ricercato nel fatto che il modello non poteva rispecchiare la realtà oggettiva
perché era stato ottenuto manipolando arbitrariamente le leggi della fisica.
Era come trovarsi di fronte ad un problema con lo svolgimento impreciso,
ma con il risultato finale esatto. Com'è possibile che un problema, elaborato
con procedimento sostanzialmente errato, possa poi presentare la soluzione
esatta? Semplice, basta conoscere in anticipo il risultato finale e condizionare
il procedimento, attraverso una serie di operazioni arbitrarie, fino a pervenire
alla soluzione desiderata. Allo stesso modo si era proceduto nella costruzione
del modello atomico.
Alla fine ci si rese conto che le lacune e le incongruenze presenti nel
modello non derivavano tanto da un formalismo incompleto, quanto piuttosto
dalla insufficienza delle stesse basi teoriche su cui era stato impostato e
sviluppato. Il problema non era quindi quello di apportare qualche superficiale
modifica al modello esistente, ma piuttosto di rivedere radicalmente i concetti
fondamentali della fisica. Ci si convinse cioè che per descrivere il
comportamento delle piccole particelle di cui sono fatti gli atomi non potevano
essere usate le stesse leggi valide per descrivere il comportamento degli
oggetti di grandi dimensioni.
Si trattava, in altre parole, di costruire una nuova meccanica che fosse
in grado di descrivere il comportamento degli oggetti di piccolissime
dimensioni, come quelli presenti negli atomi, ma che poi si avvicinasse a quella
classica, se applicata agli oggetti più grandi. Qualche
cosa di simile a ciò che si era verificato per la meccanica relativistica le
cui leggi si utilizzano per gli oggetti che si muovono a velocità prossime a
quelle della luce, mentre poi le stesse leggi perdono di significato quando si
applicano agli oggetti che si muovono alle velocità ordinarie.
Il punto di partenza della nuova meccanica atomica è rappresentato da
un'audace intuizione di un giovane aristocratico francese di lontane origini
italiane, Louis Victor de Broglie (1892-1987). Egli, nel 1923, convinto che
dovesse esistere un principio unitario che lega fra loro tutti i fenomeni
naturali, con l'entusiasmo e la spregiudicatezza che caratterizza molti giovani,
avanzò l'ipotesi che le particelle materiali potessero presentare anche le
proprietà delle onde.
Come si era dimostrato che la luce, che normalmente viene interpretata
come un fenomeno di natura ondulatoria, a volte si comporta come se fosse
composta di particelle, così, secondo de Broglie, le particelle, in condizioni
adatte, avrebbero dovuto presentare anche proprietà ondulatorie. Si trattava,
in realtà, di un'ipotesi molto azzardata, anche perché non esisteva, a quel
tempo, alcun dato sperimentale che facesse sospettare, anche solo lontanamente,
che i corpi materiali avessero una natura diversa da quella che ognuno poteva
osservare direttamente.
Il fisico francese partì dall'osservazione che era possibile applicare
ad un fotone, contemporaneamente la formula di Einstein E = m∙c² (che
mette in relazione massa ed energia di un corpo materiale) e quella di Planck, E
= h·n
(che mette in relazione frequenza ed energia di una radiazione), proprio
perché il fotone poteva essere considerato sia particella che onda. Le due
espressioni dell'energia, riferite al fotone, dovevano pertanto essere uguali.
Egli quindi scrisse: m×c²= h·n.
Ora, poiché doveva valere: c = n×l, e
quindi
n
= c/l
, sostituendo
si otteneva:
c e,
dividendo entrambi i termini per c, si aveva alla fine:
h oppure
anche :
h
Questa relazione si riferiva ad una particella, il fotone, che viaggia
alla velocità della luce (c), ma essa doveva valere per qualsiasi altra
particella che poteva essere interpretata come onda; quindi, per esempio, anche
per un elettrone. Pertanto, nel caso di una generica particella, di massa m e di
velocità v, si sarebbe potuto scrivere:
h
Questa equazione mostra che la lunghezza d'onda (l),
associata ad una particella in movimento, è inversamente proporzionale alla
quantità di moto (cioè alla massa per la velocità) della particella stessa.
Come è facile verificare, la lunghezza dell'onda associata ad una
particella risulta sempre molto piccola (indipendentemente dalla massa e dalla
velocità della particella stessa), in quanto è estremamente piccolo il valore
della costante di Planck (h=6,63×10-34
J×s).
Se applichiamo la formula al caso di un elettrone, la cui massa è 9,1×10-31 kg, che
viaggi ad una velocità non troppo elevata, ad esempio, 3×105 m/s (che
rappresenta un millesimo della velocità della luce) si ottiene un valore della
lunghezza dell'onda ad esso associata (l=24 Å) dell'ordine di
grandezza dei raggi X.
Quando de Broglie espose la sua idea, molti fisici la trovarono
completamente assurda ed alcuni scienziati stranieri la definirono addirittura
una "comédie française". I fatti però daranno loro gravemente
torto.
Alcuni anni più tardi, nel 1927, negli Stati Uniti, due giovani
ricercatori, Clinton Joseph Davisson e Lester Halbert Germer, osservarono
fortuitamente la diffrazione degli elettroni (cioè il loro comportamento
ondulatorio) mentre stavano sperimentando la diffusione di un fascio di queste
particelle su un bersaglio di nichel. Nello stesso anno, anche George Paget
Thomson, figlio di quel Joseph John Thomson che, per ironia della sorte, aveva
dimostrato una trentina di anni prima la natura corpuscolare degli elettroni, facendo
passare gli stessi attraverso lamine metalliche molto sottili, osservò il
formarsi di frange di interferenza che ne mettevano in evidenza la natura
ondulatoria.
I reticoli cristallini dei metalli, con i filari degli atomi accostati
gli uni agli altri, secondo una regolare architettura, rappresentano infatti
perfetti reticoli di diffrazione per le onde cortissime associate agli
elettroni. Le stesse frange di rifrazione si possono osservare facendo passare,
attraverso il metallo, i raggi X, le cui onde hanno, come abbiamo visto,
all'incirca le stesse dimensioni di quelle degli elettroni che si muovono
velocemente.
In seguito, la diffrazione venne osservata anche per neutroni, protoni e
altre particelle di piccola massa. Ci si convinse allora che un qualsiasi corpo
in movimento (elettrone, protone, atomo, o anche palla da tennis), oltre
all'aspetto corpuscolare, doveva presentare quello ondulatorio. In pratica però,
quando la massa di un corpo materiale è molto grande, la lunghezza dell'onda ad
essa associata diventa estremamente piccola. In tal caso, per evidenziarla,
ossia per osservare il fenomeno della diffrazione, si dovrebbe far uso di
reticoli estremamente sottili. Ma reticoli con le fessure al di sotto di certe
dimensioni minime non esistono in natura né è possibile costruirli
artificialmente. Una palla da tennis, quindi, non potrà mai essere osservata
come onda perché, essendo di massa notevole (÷ 60 g) dovrebbe viaggiare con
una velocità incredibilmente bassa (frazioni di millimetro nel tempo
corrispondente all'età della Terra) per poter creare delle onde in grado di
passare attraverso i reticoli più sottili di cui si può disporre. Quando
invece un elettrone si muove intorno al nucleo di un atomo, esso si trova nelle
condizioni di mostrare il suo aspetto ondulatorio.
La quantizzazione della quantità di moto dell'elettrone, imposta
arbitrariamente da Bohr, ora, alla luce dell'intuizione di de Broglie, assume un
significato coerente. Per dimostrarlo scriviamo l'equazione della quantizzazione
di Bohr:
h
Sostituendo alla quantità di moto m×v il valore
h/l , come
suggerito da de Broglie, l'equazione diventa: h
h ossia: n×l = 2p × r dove
2pr
è la lunghezza dell'orbita circolare di Bohr.
Trattando quindi l'elettrone come fosse un'onda, si perviene al risultato
che ad esso sono permesse, intorno al nucleo, solo quelle orbite che sono in
grado di contenere un numero intero (n) di lunghezze d'onda (l).
Ora si comprende perfettamente il motivo per il quale un elettrone può
viaggiare solo su orbite nettamente separate fra loro. L'elettrone, infatti,
quando viaggia intorno al nucleo, non deve essere considerato una particella, ma
un'onda e, visto sotto questo aspetto, lo si deve immaginare distribuito in
tutte le parti dell'orbita su cui, in quel momento, staziona.
Le orbite permesse all'elettrone sono quindi solo quelle la cui lunghezza
è tale da poter contenere un numero intero di onde. Queste onde, infatti,
percorrendo l'orbita, si andranno raccordando con sé stesse ad ogni giro,
producendo interferenza costruttiva, ossia autorafforzamento. Se invece si
tentasse di sistemare, su una certa orbita, un'onda la cui lunghezza non è
contenuta un numero intero di volte, l'onda si accavallerebbe ad ogni giro,
sfasata sulle altre, e il moto ondoso tenderebbe rapidamente a zero.
Il modello atomico di de Broglie, pur derivando da quello di
Bohr-Sommerfeld, non conservava più nulla della struttura planetaria
originaria: esso ora assomigliava piuttosto ad una serie di corde concentriche
vibranti (appunto le onde stazionarie) di diametro via via crescente a mano a
mano che ci si allontanava dal nucleo. La lunghezza della prima orbita
percorribile dall'elettrone era dunque pari alla lunghezza di un'onda di de
Broglie, la lunghezza della seconda orbita era pari alla lunghezza di due onde
di de Broglie, e così di seguito per le altre. 19. IL DUALISMO ONDA-PARTICELLA
Abbiamo visto in precedenza che alcuni fenomeni luminosi, come ad esempio
l'interferenza e la diffrazione, potevano essere interpretati solo considerando
la luce come una forma di energia che si propaga per onde, mentre altri
fenomeni, come ad esempio l'effetto fotoelettrico, potevano essere spiegati solo
immaginando la luce come uno sciame di corpuscoli in movimento. D'altra parte
abbiamo anche visto che gli elettroni, che erano stati sempre considerati
particelle materiali, presentavano, in determinate circostanze, proprietà
ondulatorie.
Si faceva quindi strada l'idea che tutti i fenomeni, sia quelli di natura
energetica, come la luce, sia quelli di natura materiale, come gli elettroni e i
protoni, potevano mostrare sia le caratteristiche tipiche delle particelle, sia
quelle delle onde. Che cosa erano, in realtà, queste strane entità?
Nella fisica classica, onde e particelle esibiscono proprietà
sostanzialmente diverse. Una particella, come è facile verificare
nell'esperienza quotidiana, è un oggetto solido, tangibile, ben localizzato in
un punto e che scambia energia bruscamente, per pacchetti. Un'onda invece è una
cosa completamente diversa: essa non ha massa, è intangibile, e la sua energia
non è concentrata in un punto, ma diffusa lungo tutta l'onda.
Nella fisica classica quindi, i concetti di onda e di particella, si
escludono a vicenda: se una cosa è una particella, non è un'onda, e se è
un'onda, non è una particella. Come è possibile allora che i fatti
sperimentali mostrino che una particella, seppure di piccole dimensioni come è ad
esempio un elettrone, possa presentare anche il comportamento tipico delle onde?
Innanzitutto vi è da tenere presente che non è detto che l'elettrone
debba essere una particella poiché nessuno ne ha mai visto uno passargli sotto
il naso, come fosse un granellino di sabbia che il vento sposta da un punto ad
un altro facendogli seguire una determinata traiettoria, e quindi nessuno ha mai
avuto conoscenza diretta e concreta dell'elettrone-particella. Tutto ciò che
riusciamo a vedere di un elettrone è la traccia che esso lascia su uno schermo
fluorescente quando va ad urtargli contro: in quella circostanza l'elettrone
sembra essere effettivamente un granellino di sabbia che va a colpire il bersaglio in un punto
determinato.
Ma gli stessi elettroni, quando attraversano fessure molto sottili,
creano, sullo schermo sul quale si vanno a stagliare, delle bande di luce e di
ombra come se a passare attraverso le fessure fossero state delle onde e non dei
corpuscoli. Succede forse che gli elettroni-particella, nel momento in cui
attraversano le fessure, si tramutano in onde?
Indipendentemente da ciò che elettroni, fotoni o protoni sono in realtà,
poiché esistono fatti sperimentali che ci fanno apparire questi
"oggetti", a volte come fossero particelle e a volta come fossero
onde, ci sembra di poter affermare che i concetti di onda e di particella, visti
in senso classico, non sono idonei a descrivere in maniera soddisfacente i
fenomeni tipici dell'infinitamente piccolo.
Che cosa è allora in realtà un elettrone? La risposta potrebbe essere
la seguente: l'elettrone è un'entità estremamente piccola che non siamo in
grado di osservare direttamente, pertanto di esso possiamo affermare solo che,
quando interagisce con uno strumento rilevatore di un certo tipo, appare come
un'onda e quando interagisce con uno strumento rilevatore di altro tipo, appare
come una particella. Quindi
l'elettrone (ma anche il protone, il fotone ed altre entità di piccole
dimensioni), appare onda o particella a seconda del modo in cui viene condotto
l'esperimento atto a metterlo in evidenza.
Dobbiamo quindi concludere che l'elettrone è un oggetto strano che si
comporta in modo contraddittorio quando si tenta di interpretarlo secondo gli
schemi classici, cioè facendo uso di quelle leggi che normalmente si applicano
alle strutture di grandi dimensioni. A tale proposito va ricordato che Bohr, nel
1927, suggerì di accettare, per le entità di piccole dimensioni, entrambi i
modelli, cioè sia quello di onda sia quello di particella, a seconda
dell'utilità descrittiva: si trattava, in fondo, solo di modelli. Questa
affermazione va sotto il nome di "principio di complementarità".
Quindi, già il semplice fatto che l'elettrone appaia a volte come
un'onda e a volte come un corpuscolo sta a significare che esso è qualche cosa di
speciale che non può essere descritto con le leggi della meccanica classica.
Queste leggi descrivono infatti con la massima precisione il comportamento ad
esempio di un'onda del mare o quello di una palla da tennis in movimento. Per
descrivere le proprietà di elettroni, protoni e fotoni devono esistere leggi
speciali che non sono le stesse che descrivono il mondo macroscopico.
Queste leggi in realtà sono state scoperte e risiedono all'interno di
una nuova teoria, detta "meccanica quantistica". Essa è in grado,
come vedremo, di conciliare l'aspetto ondulatorio e quello particellare delle
entità di piccole dimensioni e quindi di rappresentare finalmente in modo
coerente i fenomeni riguardanti il mondo microscopico degli atomi. Si tratta,
tuttavia, di una teoria prettamente matematica che non è in grado di produrre
modelli concreti.
Sono finiti, per la fisica, i tempi in cui lord Kelvin poteva affermare:
"Io sono contento solo quando ho sviluppato un modello meccanico
dell'oggetto delle mie ricerche. Se ciò mi riesce, ho compreso il relativo
fenomeno, altrimenti no. Perciò io non posso neppure comprendere la teoria
elettromagnetica della luce. Io desidero comprendere la luce il più
completamente possibile senza perciò dover introdurre cose che comprendo ancor
molto meno". Queste parole venivano scritte nel 1884. Figuriamoci cosa
penserebbe oggi lord Kelvin di una raffigurazione di atomo in cui praticamente
non compaiono altro che equazioni matematiche. 20. IL PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE
Il principio di indeterminazione è un principio fisico che impone delle
regole e dei limiti nei processi di misurazione di grandezze di piccole
dimensioni, e fu enunciato, nel 1927, dal fisico tedesco Werner Heisenberg.
Prima di chiarire il contenuto di questo principio è indispensabile una
premessa di carattere generale: "La scienza si occupa esclusivamente di
quei fenomeni sui quali è possibile effettuare delle misurazioni; ciò che non
è misurabile esula dal campo dell'indagine scientifica". Questo è un
concetto di fondamentale rilevanza nell'ambito della ricerca scientifica ed era
stato introdotto già da Einstein nella sua teoria della relatività.
Le misure, come è facile intuire, sono più o meno esatte e accurate a
seconda della precisione degli strumenti che vengono usati per tali operazioni e
dell'abilità dell'operatore. Un tempo si riteneva che, perfezionando le
tecniche, l'incertezza della misurazione avrebbe potuto essere ridotta quanto si
voleva, fino a renderla nulla.
Quando si dicevano queste cose, in realtà, si trascurava di prendere in
considerazione un fatto che successivamente si rivelerà di estrema importanza.
Esso è il seguente: quando si effettua una misurazione, lo strumento di misura
interagisce necessariamente con l'oggetto sul quale si sta operando. Pertanto,
affinché la misura eseguita sia accettabile, è indispensabile che la
perturbazione indotta dallo strumento sia contenuta entro limiti trascurabili
rispetto all'entità della grandezza misurata.
Se si volesse ad esempio misurare la temperatura di una piccola quantità
d'acqua, non si dovrà usare un termometro di grandi dimensioni, altrimenti
questo, per registrarla, assorbirebbe dall'acqua una grande quantità di calore
abbassando considerevolmente la temperatura dell'acqua stessa e quindi
perturbando in maniera decisiva il suo stato. Usando un termometro di piccole
dimensioni, la perturbazione indotta sarebbe minore e la misura registrata più
vicina a quella reale. In verità è proprio di questa imprecisione che non si
era mai tenuto conto perché, come abbiamo detto, si riteneva di poterla ridurre
a valori irrilevanti rispetto agli errori che vengono in ogni caso commessi
durante le normali operazioni di misurazione.
Quando però si passò allo studio dell'atomo, ci si rese conto
immediatamente che le perturbazioni conseguenti alle operazioni di misurazione
avrebbero avuto un effetto non solo non trascurabile, ma anzi decisivo. Se si
volesse ad esempio determinare simultaneamente con la massima precisione la
posizione di un elettrone e la sua velocità, ciò risulterebbe impossibile in
quanto, la misura accurata di una grandezza porterebbe ad una valutazione
imprecisa dell'altra; anzi, l'aumento dell'accuratezza di una delle due misure,
renderebbe sempre più imprecisa l'altra. Cerchiamo di chiarire meglio questo
concetto.
Immaginiamo di voler localizzare nello spazio un elettrone. Per farlo,
sarebbe indispensabile quanto meno illuminarlo, altrimenti non lo si vedrebbe, e
di esso non si potrebbe dire niente. Per illuminare un elettrone è necessario,
però, lanciargli contro almeno un fotone. Ora, il fotone è anch'esso un'entità
fisica delle dimensioni più o meno dell'elettrone, e quando va ad interagire
con questo, lo sposta dalla sua posizione.
Il fotone, in realtà, può essere considerato sia un'onda sia una
particella. Se lo si considera una particella, questa avrà una certa quantità
di moto m×v, se lo si considera un'onda
allora presenterà una lunghezza che è inversamente proporzionale alla quantità
di moto, ossia l
= h/m×v.
Nel momento in cui il fotone urta l'elettrone, lo sposta dalla sua
posizione perché gli trasferisce una parte della sua quantità di moto (proprio
come quando due biglie più o meno della stessa grandezza si scontrano),
modificando velocità e direzione del suo movimento. Per evitare che il fotone
sposti l'elettrone nel momento in cui lo urta, si potrebbe utilizzare un fotone
con piccola energia, ossia con piccolo valore della quantità di moto. Un tale
fotone, però, avrebbe un'onda associata molto lunga (la lunghezza dell'onda
associata alla particella è infatti, come si ricorderà, inversamente
proporzionale alla sua quantità di moto); ma un'onda molto lunga passerebbe
sull'elettrone senza rilevarne la presenza, come fa un'onda del mare molto lunga
quando incontra un piccolo galleggiante: "non se ne accorge nemmeno".
Ci si trova quindi di fronte ad una situazione senza soluzione: volendo
determinare con la massima precisione la posizione di una particella in
movimento non è poi più possibile conoscere, nello stesso momento, e con la
stessa precisione, la sua quantità di moto, e quindi non è possibile sapere in
che direzione la particella si sposterà. D'altra parte, pretendere di conoscere
con esattezza la quantità di moto di una particella per poter sapere dove andrà,
impedisce di conoscere, con altrettanta precisione, la posizione che la
particella occupa nello spazio, in quel preciso istante.
Quello che abbiamo esposto rappresenta il contenuto del principio di
indeterminazione di Heisenberg. Esso può essere enunciato nel modo seguente:
"Quando vogliamo determinare, contemporaneamente, mediante un'osservazione,
la posizione e la quantità di moto di un corpuscolo di piccole dimensioni,
l'incertezza relativa alla posizione del corpuscolo, moltiplicata per
l'incertezza relativa alla quantità di moto, non può mai risultare inferiore
al valore della costante di Planck". In simboli si scrive:
Dx
×
Dm×v ≥ h dove
Dx
e Dm×v sono
rispettivamente l'incertezza relativa alla posizione della particella e
l'incertezza relativa alla sua quantità di moto (Δ è la lettera greca delta che
in fisica si usa per indicare la variazione di una grandezza). Se si vuole
rendere piccolo il valore di Dx, cioè se si vuole
migliorare la precisione relativa alla determinazione della posizione della
particella nello spazio, inevitabilmente aumenterà l'imprecisione sull'altra
grandezza, e viceversa. In altre parole, non è possibile che due
indeterminazioni siano contemporaneamente nulle.
Il principio di indeterminazione sarebbe valido, in teoria, per qualsiasi
oggetto materiale, ma in pratica ha conseguenze importanti solo se applicato a
particelle di dimensioni atomiche o subatomiche. Infatti, quando si prendono in
considerazione i corpi ordinari, data la piccolezza della costante di Planck, le
incertezze relative alla loro posizione e alla loro quantità di moto,
scompaiono di fronte a quelle ben più notevoli derivanti dagli errori
sperimentali delle misure. Questo in sostanza è il motivo per il quale la
fisica classica non si era mai accorta della presenza in natura del principio di
indeterminazione.
Ora è chiaro il motivo per il quale non è possibile, nemmeno in linea
di principio, verificare sperimentalmente il percorso seguito dall'elettrone in
movimento intorno al nucleo: esiste un ostacolo, in natura, che ce lo impedisce.
Nel 1930 Einstein dimostrò che il principio di indeterminazione valeva
anche per altre coppie di grandezze coniugate come, ad esempio, per l'energia e
l'intervallo di tempo entro il quale la stessa viene rilevata. L'impossibilità
di ridurre l'incertezza della misura dell'energia senza aumentare l'incertezza
relativa all'istante in cui tale misura viene effettuata, significa che nei
processi subatomici la legge della conservazione dell'energia può essere
violata per tempi brevissimi.
In base al principio di indeterminazione, alcune particelle subatomiche
possono quindi venire prodotte dal nulla (appunto contro la legge di
conservazione) per poi cessare di esistere prima di dare il tempo necessario
alla loro identificazione. Si tratterebbe quindi non di particelle reali, ma
virtuali.
A seguito di queste speculazioni, in questi ultimi anni, è stata
avanzata l'ipotesi che l'Universo intero possa aver avuto inizio sotto forma di
particella virtuale, quindi praticamente dal nulla. Questo tema verrà ripreso
in altra sede.
Prima di chiudere l'argomento è doveroso fare un cenno alle implicazioni
di carattere filosofico direttamente connesse con il principio
d'indeterminazione. Fino ai tempi di Heisenberg, la visione dell'Universo era di
tipo deterministico e si fondava su ben precisi rapporti di causa ed effetto. Si
riteneva ad esempio che qualora si fosse riusciti a determinare con esattezza la
posizione e la quantità di moto di ogni singola particella di un sistema chiuso
(al limite anche dell'Universo intero), sarebbe stato poi possibile, applicando
le leggi della meccanica newtoniana, calcolare, istante per istante, l'evolversi
del sistema stesso, e quindi in pratica prevederne il futuro.
Naturalmente si sapeva che il calcolo sarebbe stato molto difficile e
forse impossibile, come pure si sapeva che la determinazione della posizione e
della quantità di moto delle singole particelle avrebbe riservato difficoltà
tecniche forse insormontabili. Tuttavia, almeno da un punto di vista teorico, la
cosa sembrava realizzabile.
Oggi sappiamo invece che ciò non è assolutamente possibile, e non tanto
per le difficoltà di misurazione e di calcolo, bensì per motivi molto più
profondi, connessi con la presenza, in natura, del principio di
indeterminazione. A causa di questo principio, come verrà spiegato meglio in
seguito, ci si deve accontentare, almeno per i fenomeni che coinvolgono la
natura più intima della materia, di una loro descrizione in termini
probabilistici, rinunciando quindi definitivamente alla certezza tipica della
dottrina deterministica.
Questo non vuol dire tuttavia, come qualcuno vorrebbe far credere, che la
scienza è in balia dei capricci della natura e che quindi non sarebbe più in
grado di descrivere con precisione e rigore i fenomeni che in essa si
verificano. Il fatto che per descrivere il comportamento degli oggetti di
dimensioni subatomiche si renda necessario ricorrere a calcoli statistici, come
dimostreremo in seguito, non significa affatto abbandonare precisione e rigore,
che sono gli aspetti più qualificanti della ricerca scientifica.
D'altra parte si fa notare che anche le compagnie di assicurazione che
pure non sono in grado di prevedere il singolo incidente, compilano tuttavia
tabelle molto precise (e molto aggiornate!) sul numero degli incidenti
automobilistici e sulla loro gravità per stabilire in anticipo l'ammontare del
premio assicurativo, basandosi esclusivamente sul calcolo statistico. 21. LA MECCANICA QUANTISTICA
La meccanica quantistica, come abbiamo già accennato, è una nuova
meccanica che è finalizzata a descrivere il moto dei corpuscoli di
dimensioni atomiche e subatomiche. Essa non fa più uso delle leggi di Newton,
ma di leggi probabilistiche, cioè di leggi tipicamente matematiche. Con la
meccanica quantistica si viene quindi a separare nettamente la macrofisica dalla
microfisica, riservando all'una e all'altra leggi, modi di operare e competenze
specifiche.
La meccanica quantistica nasce dalla fusione di due teorie che vennero
formulate all'inizio del secolo: la meccanica ondulatoria e la meccanica delle
matrici. Diamo un cenno della prima.
Dopo che Louis de Broglie aveva intuito che i corpi materiali potevano
avere anche proprietà ondulatorie, e dopo che i fatti sperimentali avevano
messo in luce che gli elettroni e altre particelle di piccole dimensioni
manifestavano effettivamente le proprietà delle onde, nacque l'esigenza di dare
una formulazione matematica di queste onde, e di derivarne le leggi di
propagazione.
L'impresa riuscì al fisico teorico viennese Erwin Schrödinger
(1887-1961), il quale, partendo dalle equazioni che descrivono la propagazione
delle onde meccaniche, scrisse, per le onde associate ai corpuscoli,
un'equazione analoga (ma piuttosto complessa nella forma) la quale normalmente
viene rappresentata nel modo seguente:
∂²y
∂²y
∂²y
8 p² m
4 p i m
∂y
In essa, con y (psi)
viene indicata una funzione matematica, detta "funzione d'onda"; m
rappresenta la massa del corpuscolo in movimento, U è l'energia potenziale del
punto in cui si trova il corpuscolo, h è la costante di Planck, i è l'unità
immaginaria (ossia un simbolo matematico che compare nei numeri complessi) e t
è il tempo. Il termine a primo membro indica, con il simbolismo tipico
dell'analisi matematica (∂ è il simbolo di derivata), la variazione della
funzione d'onda lungo gli assi x, y e z dello spazio.
Si tratta quindi, come si può vedere, di un'equazione differenziale,
ossia di un'equazione in cui compaiono delle derivate che, a coloro i quali non
hanno una buona padronanza della matematica e della fisica, non dice molto. Ciò
costituisce indubbiamente una limitazione, tuttavia, il significato e le
conseguenze che derivano dalla sua applicazione, potranno essere comprese anche
senza far uso della matematica superiore.
Cominciamo allora col dire che la soluzione dell'equazione scritta sopra
non è un numero (cioè un singolo valore), ma una funzione, cioè un insieme di
numeri legati fra loro da una relazione matematica. Questa funzione, detta
funzione d'onda, viene determinata fissando un insieme di parametri relativi
all'energia posseduta dalla particella in movimento. In altre parole, la
soluzione dell'equazione di Schrödinger, conduce alla descrizione di un'onda
solo se vengono stabiliti in anticipo determinati valori dell'energia posseduta
dalla particella.
L'equazione di Schrödinger venne ideata per descrivere l'onda associata
ad una generica particella che si muove liberamente nello spazio, ma può essere
utilizzata per risolvere vari problemi fisici concreti in cui si dimostra in
buon accordo con l'esperienza. Quando viene applicata al caso dell'elettrone che
si muove intorno al nucleo, a seconda del valore dell'energia che viene
assegnata all'atomo, essa produce delle funzioni d'onda in grado di descrivere
il comportamento dell'elettrone vincolato al nucleo atomico.
L'equazione di Schrödinger descrive quindi le onde materiali di de
Broglie. Ma che cosa sono in realtà
queste onde? Esiste veramente l'onda associata ai corpuscoli materiali?
Secondo alcuni, le cosiddette onde materiali erano semplicemente onde
matematiche, cioè onde astratte e quindi inesistenti. Louis de Broglie però
non credette mai a questo carattere puramente formale del modello ondulatorio,
anche perché le sue onde emergevano in modo molto chiaro da fenomeni
osservabili. Secondo de Broglie le onde materiali avrebbero dovuto possedere un
significato concreto e reale.
Nel 1927, il fisico tedesco Max Born dette, alla funzione d'onda, un
significato di tipo probabilistico. Egli notò che il quadrato di y, o meglio, trattandosi di una
funzione complessa(*), il quadrato del suo modulo, cioè |y|², rappresentava la
probabilità di trovare la particella all'interno di un certo spazio.
L'introduzione del concetto di probabilità costituiva un modo del tutto
originale di affrontare il problema relativo alla posizione dell'elettrone
intorno al nucleo atomico.
Attraverso l'equazione di Schrödinger è possibile quindi calcolare la
densità di probabilità(**) di trovare un elettrone in un certo
istante e in un determinato punto intorno al nucleo. L'informazione contenuta in
|y|²
può essere paragonata all'informazione contenuta in una tavola che è servita
da bersaglio. I buchi presenti sulla tavola rappresentano i risultati dei lanci
precedenti e forniscono l'indicazione sulla probabilità che un prossimo lancio
finisca in un punto piuttosto che in un altro: dove vi sono molti buchi la
probabilità è alta, dove ve ne sono pochi la probabilità è bassa. Anche nel
caso del bersaglio, se volessimo esprimere matematicamente la densità dei buchi
in funzione della posizione, otterremmo una funzione analoga a |y|².
Nello stesso momento in cui Schrödinger proponeva la soluzione relativa
al dualismo onda-corpuscolo attraverso la sua equazione di onda materiale,
Werner Heisenberg suggeriva una soluzione del problema completamente diversa.
Egli, coerentemente con il suo principio di indeterminazione, si convinse che
non aveva senso visualizzare aspetti del mondo subatomico che non si sarebbero
poi, in alcun modo, potuti osservare direttamente. Erano destinati quindi a
rimanere privi di significato concetti come quello di traiettoria
dell'elettrone, o di onda ad esso associata.
Heisenberg si propose dunque di costruire una meccanica astratta in cui
comparissero soltanto relazioni fra grandezze osservabili. Poiché gli unici
valori osservabili, relativi all'atomo di idrogeno, erano i diversi stati
energetici (quelli che Bohr interpretò come salti degli elettroni da un'orbita
all'altra), Heisenberg pensò di sistemare tali valori su linee verticali e
orizzontali fino a formare uno schema quadrato di numeri. Questo schema prende
il nome di "matrice" e il meccanismo matematico che lo interpreta, si
chiama "meccanica delle matrici".
Il formalismo matematico della meccanica delle matrici era ancora più
complesso (e anche più astratto) di quello utilizzato da Schrödinger nella sua
meccanica ondulatoria. Inoltre, la descrizione della struttura atomica,
elaborata attraverso i procedimenti algebrici della meccanica delle matrici,
risultava, alla fine, priva di qualsiasi supporto tangibile. I fisici, legati
all'esigenza di realizzare modelli concreti, non gradirono troppo la descrizione
dell'atomo prodotta da Heisenberg, e finirono per rifiutarla.
In seguito si scoprì però che la meccanica ondulatoria di Schrödinger
e la meccanica delle matrici di Heisenberg, pur essendo diverse nello sviluppo
matematico e nelle premesse fisiche, rappresentavano in realtà la stessa
teoria. Il riconoscimento della loro equivalenza, prima da parte dello stesso
Schrödinger, e successivamente da parte di altri fisici, segnò la nascita
della meccanica quantistica, la teoria che viene utilizzata attualmente per
descrivere i fenomeni relativi al mondo dell'estremamente piccolo.
La forma attuale della meccanica quantistica è dovuta all'inglese P.A.
Maurice Dirac (1902-1984). Essa si fonda direttamente sul principio di
indeterminazione e trae le conseguenze di tale principio attraverso una
struttura logica e matematica. La meccanica ondulatoria si colloca, all'interno
della meccanica quantistica, come un suo aspetto particolare. (*) Le
funzioni complesse sono quelle funzioni che comprendono numeri complessi. I
numeri complessi, a loro volta, sono entità matematiche astratte contenenti
l'unità immaginaria i, definita dalla seguente espressione: i² = -1 (si noti
che nessun numero reale, innalzato al quadrato, dà un numero negativo). 22. IL CONCETTO DI ORBITALE
Se fossimo in grado di cogliere alcune posizioni occupate dall'elettrone
attorno al nucleo e di determinare contemporaneamente la velocità con cui si
sposta, potremmo costruire un modello di atomo perfettamente aderente alla realtà.
Sappiamo invece che ciò non è possibile e quindi non sapremo mai dove si
trovano effettivamente gli elettroni che stazionano intorno al nucleo.
Abbiamo però scoperto che la meccanica quantistica è in grado di
fornire alcune informazioni relativamente all'elettrone che si muove intorno al
nucleo. Queste informazioni sono di carattere statistico e si riferiscono alla
possibilità che l'elettrone possa trovarsi in un punto o in un altro dello
spazio intorno al nucleo. La meccanica quantistica, in altre parole, non
fornisce informazioni relativamente al percorso seguito dall'elettrone nel suo
movimento, ma solo una descrizione probabilistica della sua posizione.
Come abbiamo già detto, l'equazione d'onda ammette infinite soluzioni
ma, quando viene applicata ad un determinato atomo, fornisce soluzioni
accettabili, solo se si utilizzano i valori dell'energia che l'elettrone
effettivamente può assumere spostandosi attorno al nucleo. Tali soluzioni
rappresentano le posizioni possibili dell'elettrone nello spazio circostante il
nucleo e corrispondono agli stati stazionari individuati da Bohr per altra via.
Se un elettrone ha una determinata energia, esso transita con maggior
frequenza ad una certa distanza dal nucleo, se ha un'altra energia transita con
maggior frequenza in un'altra zona circostante il nucleo. In altri termini,
ponendo dei valori a caso dell'energia, si troverebbero, per la funzione d'onda,
delle soluzioni prive di significato fisico, mentre ponendo i valori
dell'energia ricavati dalle misure sperimentali, si ottengono funzioni d'onda
con senso fisico reale.
Le funzioni d'onda, relative agli elettroni che si trovano all'interno
degli atomi, sono dette funzioni d'onda orbitali, o semplicemente
“orbitali”. L'orbitale quindi non è altro che l'insieme dei valori che
assume la funzione d'onda di un determinato elettrone in tutti i punti dello
spazio intorno al nucleo.
Ora siamo in grado di definire con maggiore precisione le caratteristiche
dell'elettrone. L'elettrone è un'entità fisica con proprietà del tutto
particolari che non trovano riscontro in nulla di tutto ciò che esiste nel
mondo macroscopico: esso pertanto può essere descritto solo in termini
matematici. In altre parole possiamo anche dire che l'elettrone è un'entità
quantomeccanica.
Poiché l'onda associata ad un corpuscolo, è un'onda tridimensionale,
ogni orbitale elettronico viene definito dai valori di una terna di numeri
interi detti numeri quantici: ad ogni terna di valori corrisponde un'unica
funzione, cioè un unico orbitale. I numeri quantici, che si designano con le
lettere n, ℓ e m, sono gli stessi che abbiamo già
incontrato nel modello di Bohr e Sommerfeld.
L'orbitale, come abbiamo detto in precedenza, ha un preciso significato
matematico, ma non ha un altrettanto preciso significato fisico. Tuttavia, il
quadrato di questa funzione, rappresenta qualche cosa di fisicamente
osservabile: esso fornisce infatti la probabilità di trovare l'elettrone in un
certo punto dello spazio. Se il valore di |y|² per un
certo punto dello spazio è grande, significa che in quel punto è elevata la
probabilità di trovare l'elettrone, se è piccolo, la probabilità è bassa.
Il termine di orbitale deriva da quello di orbita, ma non ha nulla a che
vedere con esso. Anzi, i due concetti sono opposti e si escludono a vicenda:
orbita racchiude infatti un concetto deterministico, mentre orbitale ne
racchiude uno probabilistico.
Per definire la forma dell'orbitale si possono calcolare, per mezzo
dell'equazione d'onda, le probabilità di presenza dell'elettrone per migliaia
di punti dello spazio intorno al nucleo. Si viene così ad individuare una
struttura tridimensionale con punti in cui è maggiore la probabilità di
trovarvi l'elettrone e punti in cui tale probabilità è minore: a mano a mano
che ci si allontana dal nucleo, si nota che questa probabilità diminuisce, ma
non diventa mai zero.
Se ora immaginiamo di limitare una regione di spazio intorno al nucleo in
cui è molto alta la probabilità di incontrare l'elettrone (per esempio una
regione in cui la probabilità sia del 90 o del 95 per cento) abbiamo
individuato la forma dell'orbitale. Si è potuto così accertare che le forme
possibili di orbitale sono svariate. Poiché l'elettrone è portatore di carica
elettrica, la distribuzione della densità di probabilità di trovare
l'elettrone intorno al nucleo corrisponde ad una specie di nuvola di elettricità
che viene anche detta "nuvola di carica elettronica".
E' interessante osservare che la soluzione dell'equazione d'onda mostra
che l'elettrone potrebbe in teoria trovarsi in un punto qualsiasi dello spazio
intorno al nucleo (anche se poi in pratica la probabilità di trovarlo in punti
molto lontani è quasi nulla). Questo fatto, è in netto contrasto con quanto
veniva asserito da Bohr e Sommerfeld secondo i quali la posizione dell'elettrone
era determinata con precisione assoluta in quanto l'elettrone stesso non poteva
percorrere un'orbita qualsiasi intorno al nucleo, ma solo quella che si trovava
ad una ben precisa distanza da esso.
La soluzione dell'equazione d'onda, relativa all'elettrone dell'atomo di
idrogeno che staziona sul livello energetico più basso, cioè nello stato
fondamentale, fa vedere che la più elevata probabilità di presenza
dell'elettrone, o per meglio dire, la maggiore concentrazione di esso
all'interno dell'orbitale, si riscontra proprio ad una distanza dal nucleo pari
al raggio dell'orbita di Bohr (0,53 Å).
Gli orbitali, come abbiamo detto, possono assumere varie forme: ve ne
sono di sferici, di bilobati e di forme anche più complesse. La forma, le
dimensioni e l'orientamento nello spazio degli orbitali stessi, sono definite
dai numeri quantici: n, ℓ
e m. Questi tre numeri nel
modello di atomo di Bohr e Sommerfeld si riferivano al moto dell'elettrone e
definivano gli assi delle orbite ellittiche, cioè la forma e l'orientazione
nello spazio di queste orbite.
Il quarto numero quantico, s (numero di spin), non ha nulla a che
vedere con la legge probabilistica, in quanto esso riguarda lo stato intrinseco
dell'elettrone che ovviamente è indipendente dalla posizione che assume nello
spazio.
Il numero quantico principale, n, è legato all'energia
dell'elettrone e determina, in un certo senso, le dimensioni dell'orbitale: più
aumenta il valore di n più aumenta il volume entro il quale è grande la
probabilità di trovarvi l'elettrone.
Il numero quantico secondario, ℓ, determina la forma
dell'orbitale: per ℓ=0, l'orbitale assume forma sferica (esso è
detto anche orbitale di tipo s), per ℓ=1 l'orbitale assume
forma bilobata (esso è detto anche orbitale di tipo p). Gli orbitali di
forma più complessa (ℓ=2, ℓ=3,...) possono essere
chiamati anche orbitali di tipo d, orbitali di tipo f, e così
via, facendo uso della stessa simbologia incontrata nel modello di
Bohr-Sommerfeld.
Il numero magnetico, m, determina l'orientamento nello spazio
dell'orbitale. L'orbitale di tipo s è di forma sferica e, poiché per la
sfera non è possibile distinguere fra posizioni diverse nello spazio, il numero
magnetico in questo caso vale zero. Per gli orbitali di tipo p, m
può assumere tre valori distinti, che fissano le tre posizioni possibili nello
spazio di quel tipo di orbitale. Gli orbitali di tipo d e di tipo f si
possono orientare nello spazio rispettivamente in 5 posizioni diverse e in 7
posizioni diverse.
Si osservi infine che gli orbitali, oltre a presentare zone di massima
probabilità di trovare gli elettroni, presentano anche aree in cui tale
probabilità è nulla. Esse sono dette superfici nodali e la loro presenza si
accorda molto bene con il concetto di onda. I lobi degli orbitali di tipo p,
ad esempio, sono separati fra loro da un piano nodale, cioè da un piano in cui
la probabilità di trovare l'elettrone è nulla.
Ora, poiché l'elettrone può presentarsi indifferentemente in uno o
nell'altro lobo dell'orbitale p, ci si chiede come esso faccia a passare
dall'una all'altra parte. La risposta è che la meccanica quantistica (tra
l'altro in pieno accordo con il principio di indeterminazione di Heisenberg) non
considera il moto dell'elettrone e quindi non fornisce informazioni relative ai
suoi spostamenti. Questi spostamenti sono pertanto destinati a rimanere
indeterminati.
Anche gli orbitali di tipo s presentano superfici nodali:
l'orbitale 1s, ne presenta una sola all'infinito; l'orbitale 2s ne
presenta due, una a distanza finita e l'altra all'infinito; l'orbitale 3s
ha tre superfici nodali, e così via. 23. LA SCOPERTA DEL NEUTRONE E LA
DEFINIZIONE DEL PESO ATOMICO
Già da lungo tempo si era ipotizzato che il nucleo atomico potesse
contenere, oltre ai protoni, altre particelle prive di carica elettrica, ma solo
nel 1932, il fisico inglese James Chadwick, riuscì a dimostrare
sperimentalmente l'esistenza del neutrone. Bombardando atomi di berillio con
particelle a, egli notò il diffondersi di
una radiazione che non veniva deviata né dal campo elettrico, né da quello
magnetico e che per tale motivo venne inizialmente scambiata per raggi gamma.
Con la scoperta del neutrone gli scienziati erano persuasi di aver
individuato i tre costituenti fondamentali della materia: elettrone, protone e
neutrone. In realtà, studi successivi hanno dimostrato che le particelle
elementari presenti nell'atomo sono moltissime (positoni, neutrini, mesoni e
muoni, sono solo alcune delle tante particelle scoperte ultimamente), tuttavia
le proprietà fondamentali della materia e le trasformazioni chimiche cui essa
va incontro possono essere interpretate adeguatamente immaginando l'atomo
costituito dalle tre particelle elementari citate sopra.
Possiamo ora fare un riepilogo di quanto abbiamo appreso sulla struttura
intima della materia: esso ci permetterà anche di integrare le conoscenze
relative alla struttura atomica che siamo via via venuti acquisendo.
L'atomo può essere immaginato come una particella neutra, di forma
sferica, con un diametro di circa 10-10 m (1 Å). In esso si
distingue un nucleo con un diametro di circa
10-14 m, ossia 10.000 volte più piccolo di quello dell'atomo
intero e con carica elettrica positiva; intorno ad esso si muovono gli elettroni
con carica elettrica negativa, in numero tale da bilanciare la carica positiva
del nucleo. Il nucleo è formato a sua volta di protoni e neutroni, particelle
queste ultime che, in quanto costituenti il nucleo, vengono anche chiamate nucleoni.
La carica elettrica dell'elettrone è di -1,60 ·10-19 coulomb
(identica, a parte il segno, a quella del protone) e viene definita come unità
di carica elettrica. Il neutrone, come abbiamo appena detto, è elettricamente
neutro.
In un atomo, il numero degli elettroni (uguale a quello dei protoni)
viene detto numero atomico e viene indicato con la lettera Z; il
numero dei neutroni è variabile (generalmente uguale o leggermente maggiore di
quello dei protoni) e viene indicato con la lettera N. La somma (Z + N) si
indica con A e viene detta numero di massa.
Ciascuna varietà di atomo è detta nuclide ed è caratterizzata
da una ben definita composizione del suo nucleo (specificata dai numeri Z e A).
I nuclidi aventi lo stesso numero atomico Z e diverso numero di massa A, sono
detti isotopi. Il termine isotopo diventa quindi sinonimo di nuclide.
I nuclidi finora conosciuti sono più di 1.300. Di questi solo 300 si
trovano in natura mentre i rimanenti sono stati ottenuti artificialmente
attraverso reazioni nucleari. Tutti i nuclidi artificiali sono radioattivi,
mentre, fra quelli naturali, solo una ventina lo sono. I nuclidi stabili (tutti
naturali) sono quindi circa 280.
Una specie atomica (o elemento chimico) non è, in genere, un corpo
semplice in quanto gli atomi che lo costituiscono non sono tutti uguali. Un
elemento è infatti formato normalmente dall'insieme di nuclidi con identico
numero atomico Z, ma con diverso numero di massa A, mescolati sempre nelle
stesse proporzioni. Queste proporzioni rimangono invariate anche durante le
reazioni chimiche a cui l'elemento partecipa.
Gli elementi naturali e artificiali, noti fino ad oggi, sono 112 ma
l'ultimo a cui è stato assegnato un nome è il centonovesimo, il meitnerio
(simbolo Mt), in onore della fisica svedese di origine austriaca Lise Meitner
(1878-1968). Essi
sono caratterizzati dal numero Z che varia appunto da 1 a 112. Sono artificiali
tutti gli elementi transuranici, ossia tutti gli elementi con numero atomico
superiore a 92, nonché il tecnezio (Z=43) e il prometeo (Z=61).
Ciascun elemento, come già sappiamo, ha un nome che viene indicato
sinteticamente con un simbolo. Anche i singoli nuclidi vengono indicati con lo
stesso simbolo, ad esempio, con Cl35 si individua il nuclide (cioè
l'isotopo) del cloro di numero di massa A=35. Normalmente, insieme al numero di
massa viene anche specificato il numero atomico Z anche se ciò non sarebbe
strettamente necessario in quanto tale numero è già definito dal simbolo;
tuttavia, volendo usare una terminologia più completa dovremmo scrivere, nel
caso del nostro esempio, 17Cl35.
L'elemento cloro è costituito da una miscela di due nuclidi: 17Cl35
e 17Cl37. Questi nuclidi sono mescolati, in natura, sempre
nelle stesse proporzioni. Tali proporzioni vengono espresse in percentuale dai
cosiddetti fattori di abbondanza relativa (f.a.r.) che, nel caso del cloro, sono
rispettivamente 75,77% per 17Cl35 e 24,23% per 17Cl37.
In pratica tutti gli elementi, come abbiamo più volte detto, sono
formati da un insieme di nuclidi. Si ricorderanno, ad esempio, i tre isotopi
dell'idrogeno che qui riscriviamo con a fianco le abbondanze relative: 1H1
(P) (99,984%); 1H2 (D) (0,016%); 1H3
(T) (10-15 %).
I pesi degli atomi sono dell'ordine di grandezza di 10-23 g. I
chimici, tuttavia, non usano i valori in grammi per esprimere i pesi dei singoli
atomi ma, come sappiamo, un'unità di misura molto più piccola. Tale
consuetudine è dovuta un po' a motivi pratici (valori tanto piccoli
renderebbero i calcoli estremamente complessi) e un po' a motivi storici.
Come si ricorderà, all'inizio venne scelta, come unità di massa
atomica, la massa dell'atomo di idrogeno, o meglio, quella che si riteneva
essere la massa dell'atomo di idrogeno. In seguito infatti si scoprì che
l'idrogeno era costituito dall'insieme di tre isotopi, per cui, il valore
unitario di massa rappresentava in realtà la massa media dei tre nuclidi
presenti in quell'elemento. Il peso atomico (PA) di un elemento(*),
per i chimici di quel tempo, era dunque un numero che esprimeva quanto pesava la
media della pleiade isotopica dell’elemento preso in considerazione rispetto
alla media della pleiade isotopica dell'idrogeno.
Successivamente, la scala dei pesi atomici fu riferita all'ossigeno per
una questione di comodità. Per pesare un elemento era infatti necessario che
esso si combinasse con l'elemento rispetto al quale doveva essere fatto il
confronto e, mentre pochi elementi si combinano con l'idrogeno, praticamente
tutti formano composti con l'ossigeno. Nella convinzione che l'ossigeno pesasse
esattamente 16 volte di più dell'idrogeno, venne assunto uguale ad 1 il peso di
1/16 della massa dell'ossigeno, o meglio, senza saperlo, della miscela dei tre
nuclidi (O16, O17, O18) di cui è costituito
l'elemento.
In seguito però si scoprì che il peso dell'ossigeno riferito a quello
dell'idrogeno (fatto uguale a 1) era 15,87, e non 16. Cambiando l'unità di
misura, il peso dell'idrogeno veniva ora ad assumere il valore di 1,008, e non
più 1. Naturalmente anche tutti gli altri pesi atomici che erano stati
determinati per confronto con l'idrogeno dovettero essere corretti, nella nuova
scala, di un fattore 16/15,87 (=1,008).
Dal 1961 è tuttavia in vigore la nuova scala internazionale dei pesi
atomici, la quale utilizza, come unità di misura, il dodicesimo della massa del
nuclide C12. Questa nuova unità di massa atomica (in sigla amu,
dalle iniziali di atomic mass unit, o anche semplicemente u) equivale a
1,660·10-24 g. Tale valore si ottiene dividendo 1 g di
C12 (cioè 1/12 di mole dell'isotopo 12 del carbonio) per il
numero di Avogadro.
Vediamo ora come si perviene alla definizione di peso atomico di un
elemento, immaginando, ad esempio, di voler determinare il peso atomico del
cloro.
Si parte ovviamente dalle misure sperimentali le quali forniscono, per il
nuclide Cl35 il seguente valore della sua massa: 58,05·10-24
g. Tale valore, diviso per il numero che esprime il peso in grammi dell'unità
di massa atomica, cioè per 1,660·10-24 g, dà 34,97.
Sempre per via sperimentale, si determina quindi la massa atomica
dell'altro nuclide del cloro (Cl37): il suo valore è 61,37·10-24
g. Questo valore, tradotto in unità di massa atomica, risulta:
61,37·10-24 g /
1,660·10-24 g = 36,97.
A questo punto, per determinare il peso dell'elemento cloro si devono
prendere in considerazione i fattori di abbondanza relativa dei due isotopi di
cui è costituito l'elemento, che sono rispettivamente 75,77% per l'isotopo 35 e
24,23% per l'isotopo 37. Il peso atomico del cloro risulta quindi dalla
soluzione della seguente espressione:
34,97 · 75,77 + 36,97 · 24,23
Si osservi che i chimici, per ragioni storiche, ma soprattutto di utilità
pratica, considerano le masse atomiche come relative, evitando, in questo modo,
di esprimere l'unità di misura. La massa atomica, o meglio il peso atomico (PA)
di un elemento viene quindi indicato da un numero puro, cioè senza dimensioni.
Il peso atomico del cloro, per esempio, non viene pertanto espresso nel modo
seguente: 35,455 amu come sarebbe più corretto, ma semplicemente con il numero
35,455 (sottintendendo: "rispetto all'unità di massa atomica, cioè
rispetto al dodicesimo del peso dell'isotopo 12 del carbonio").
E' opportuno fare osservare infine che i valori dei pesi dei singoli
nuclidi, determinati per via sperimentale, non corrispondono alla somma dei pesi
dei protoni e dei neutroni contenuti nel loro nucleo (il peso degli elettroni
periferici non viene nemmeno preso in considerazione in quanto è ritenuto
irrilevante rispetto a quello dei nuclei). La differenza dei due valori viene
chiamata difetto di massa.
Nel caso del nuclide Cl35, ad esempio, la somma dei pesi dei
17 protoni e dei 18 neutroni (A= Z+N = 35) contenuti nel suo nucleo è pari a
35,28 u, superiore al valore del nuclide determinato sperimentalmente, che è
34,97 u. La differenza di massa corrisponde all'energia (ricavabile
dall'equazione di Einstein E=m·c2) necessaria a tenere insieme
protoni e neutroni nel nucleo. Questa energia equivale a quella che si libera
quando protoni e neutroni vengono separati a seguito di reazioni nucleari. (*) In
chimica spesso non si fa distinzione fra "peso" e "massa",
ma questi, in realtà, sono due concetti profondamente diversi. La massa di un
corpo è la misura della resistenza al cambiamento del suo stato di quiete o di
moto (serve uno sforzo maggiore per lanciare un corpo di grande massa che per
lanciarne uno di piccola massa) ed è una proprietà che dipende dalla quantità
di materia che costituisce il corpo stesso, ma non dal luogo dove esso è posto.
Il peso, invece, è la forza gravitazionale agente su un corpo e dipende
dall'accelerazione di gravità (g) che varia da luogo a luogo (è diverso sulla
Terra, nello spazio e sulla Luna; e inoltre, sulla Terra stessa varia da luogo a
luogo in funzione della distanza dal centro del pianeta). Massa e peso sono
legati dalla seguente relazione: P=m×g.
Quindi le due grandezze sono fra loro proporzionali ma, mentre la prima è una
grandezza scalare, il peso, che è una forza, è una grandezza vettoriale. In
pratica, a causa della quasi uniformità dell'attrazione gravitazionale dei vari
punti della Terra (il raggio polare differisce da quello equatoriale di soli 21
Km), i pesi (estremamente piccoli) di atomi e molecole variano da punto a punto
di quantità infinitesime così che possono essere ritenuti costanti, come lo
sono le loro masse. Questo è il motivo per il quale in chimica si usa
normalmente il termine "peso" al posto di "massa". fine |